25 Dicembre 2002
Domenico Cambareri
(fonte: Parvapolis)
Frammenti di pane, elogio della mistica. Domenico Cambareri sull’ultimo lavoro di Ugo Van Doorne: «Un viaggio per le eterne sorgenti»
Con questo libro di recente pubblicazione, dom Ugo Van Doorne, eremita benedettino in Val di Noto, mi riporta a scrivere su di lui su questo giornale a distanza di anni. La freschezza della prosa dei suoi pensieri, uno per ogni giorno, quanti sono i giorni dell’anno, infatti non poteva non invitarmi a tanto. Dopo avere studiato filosofia presso i Padri Bianchi ad Anversa e teologia a Lovanio, il giovane Van Doorne prende i voti benedettini nel monastero di S. André a Brugge. Continua gli studi teologici a Roma, all’Ateneo pontificio S. Anselmo, viene ordinato sacerdote nel 1958, nel monastero in cui era entrato nell’ordine benedettino. Scelta la via contemplativa eremitica, si reca dai certosini di Calzi, e poi in Francia (Sélignac). Ancora più forte il desiderio della via eremitica, si reca da un vecchio abate benedettino in Martinica (Antille Francesi). Da lì raggiungerà un mondo completamente diverso: il deserto (1963-1967). Per le vicende della guerra arabo-israeliana, lascia la Palestina e si trasferisce in Italia dove, dal 1968, risiede in eremitaggio, in Val di Noto (Siracusa).
Il 23 settembre del 1986 appariva sulla pagina della Cultura del Secolo d’Italia un mio lungo elzeviro, “Naufrago in Dio”, a lui dedicato. Chiudevo allora così: “Una salutare e purgativa lettura che non disseta ma spegne le brame terrene, e sprona la riarsa gola verso eterne sorgenti … perché da essa spunta una gemma d’amore divino sempre presente nel mondo, anche se velata dal rifiuto e dalla paura dell’uomo d’incrociare i due candelabri della ragione”. Non esiterei a riutilizzare le stesse parole a conclusione di quanto mi accingo a scrivere oggi sulla raccolta di questi pensieri dell’eremita belga di Sicilia.
Prima di inoltrarci brevemente e per assaggi nella lettura di qualche pensiero di dom Ugo, mi preme tuttavia sottolineare come io ritenga doveroso rendere atto, “onore” alla “via “mistica” del suo intrinseco e ineludibile valore di via che può condurre alle vette dello spirito. Infatti, spesso, inconcludentemente, si è dissertato e si disserta sulla superiorità fra le due “vie”, “secca” e “umida”, in termini affatto estrinseci, di mera e profana concorrenzialità, tanto da inclinare spesso, anche inavvertitamente, il piano del discorso verso inappropriate forme di “analisi delle procedure” che non può valere per ambiti dell’attività dello spirito che si pongono già per sé a livelli liminali. Ciò riguarda direttamente non poche problematiche su questo punto non sempre correttamente poste anche all’interno di organizzazioni iniziatiche, forse anche per delle plurisecolari responsabilità istituzionali delle chiese cristiane e per degli eccessi di reazione da parte delle più diverse organizzazioni misteriosofiche nell’età contemporanea. Peraltro, la storia di codeste vie non è fatta solo di separazione netta, quanto anche di ricchi intrecci e di sorgenti comuni, come per i Pitagorici, Platone, Plotino e i neoplatonici “olimpici” (lo preferisco per precisione, correttezza e simpatia allo spregiativo appellativo cristiano di “pagani”), il razionalista Tommaso d’Aquino e le tante fulgide pagine della mistica cristiana medievale. Indubbiamente, la mistica cristiana è grandemente debitrice al pensiero occidentale e non soltanto a quello ebraico (il quale, a sua volta, è grandemente debitore alle maggiori culture del Vicino oriente antico), anzi essa, spesso senza avvedersene, ne è la continuatrice più o meno paludata, a causa di un “vizio” diffuso e originario di esclusività.
A mio avviso, nel contesto in questione, via umida – via secca, subentrano e perfino interagiscono positivamente o negativamente aspetti che si possono ricondurre entro il quadro rappresentato da Jung con i tipi psicologici. Nella più che succinta delineazione delle problematiche qui fatta, mi preme semmai presentare questa considerazione, ossia che spesso l’idea di “mistica” è offuscata e annebbiata da elementi che paiono essere assolutizzanti senza averne il benché minimo diritto. Ad esempio, parlare in termini assoluti di mistica intendendo così sempre quella di san Giovanni della Croce è una cosa, quella di san Pio da Pietralcina (una delle ultime figure della santità cattolica, ricca di caratteri accentuati), è un’altra, e così ancora. Oltre gli aspetti fondanti e definibili in senso categoriale e universale,vi sono aspetti, caratteri, tipicità nella mistica, non fissi, non sempre ripetitivi di cui qui non vi è opportunità di parlare. La ricchezza della via mistica, se è per l’appunto via misterica, è davvero notevole e trascende gli stereotipi prevalenti.
Non voglio ulteriormente indulgere verso discorsi che possono risultare solo affatto teorici, quanto utilizzare l’avvio di questa problematica per offrire al lettore con immediatezza l’idea di almeno un’altra forma di mistica, quella appunto di Ugo Van Doorne.
Nella vita di quest’eremita, non troviamo atteggiamenti, espressioni, momenti di paure e di angosce, di inviti alla macerazione e di improvvise e violente lotte con l’interferire ubiquo repentino abominevole raccapricciante terrifico del diavolo, non il tremore di percorrere crinali da cui si può cadere verso i cupi abissi del male, non l’irrompere di forme antinomiche in cui l’irraffigurabile altro ghermisce, o l’obliquità della quotidiana esistenza carnale e del suo scivoloso rapporto con lo spirito. Nel suo dire, nel suo agire, le opposizioni sono ricondotte a coesistenza armonica, a condizioni gerarchiche che connettono e non lacerano, a delimitazioni in cui le incursioni sono opera dello spirito, e la tentazione è intesa come possibilità di depotenziamento delle condizioni naturali o del loro progressivo corroboramento. Lo sguardo e la parola esprimono serenità d’animo in cui non vi è posto per querelle apologetiche o parafilosofiche tra fede e ragione, perché, pur nella supremazia esistenziale e di “grazia” della sua fede, non sconfessa la ragione, la ragione che invera e discrimina all’interno e dall’interno della sfera stessa della fede. La sua natura, la natura di questo a me tanto caro eremita, pialla, sgrezza , smussa, leviga nell’agire temperato e sapiente e il corpo e la psiche e lo spirito. Saggio artigiano del legno, della pietra, della parola, sa porsi all’opera in modo fecondo, scherzoso, sereno, semplice. Ecco, una delle sue qualità immediatamente avvertibili è la serenità d’animo che s’accompagna sempre a una scherzosità spigliata. Un quadro di lietezza che infonde una “normale” condizione di acquietamento e appagamento generale, da cui sorge poi e ancora il desiderio dell’ulteriore dialogo, e della ricerca. Riconosco anche che questa attitudine è per lui un’arma atta schivare, anche ripetute volte, intromissioni di sorta nella sfera della sua interiore esperienza religiosa: è un vanificare le domande con un sorriso e con una celia.
Queste connotazioni che ho rintracciato e nel corso degli anni ho avuto modo sempre di avere riconfermate da dom Ugo, si ritrovano chiaramente scritte anche in quest’ultimo suo libro. I pensieri che scorrono di pagina in pagina, di giorno in giorno, a volte sono di una semplicità che pare essere disarmante e deludente, una semplicità che pare confondersi in bonomia bacchettona e in ingenuità irricevibile: è qui il giuoco scherzoso dell’uomo colto di spirito e di vita, il giuoco che sa sospingere a forme scandalose di apparente vacuizzazione delle problematiche esistenziali a pro di atteggiamenti fideistici. È un modo di ribattare alla cocciuta insensibile fideistica esaltazione di una cieca ragione. È un modo, soprattutto di dimestichezza con il saper operare l’incrocio dei candelabri della ragione, di tradizione ebraica. Scandalo può invece destare agli integralisti di facciata e agli esclusivisti di carattere un pensiero come questo: “L’uomo moderno riserva un’attenzione quasi esclusiva al suo corpo. Sembra, il suo, un atteggiamento diametralmente opposto alla fede cristiana. In realtà non esiste religione nella quale, come nel Cristianesimo, il corpo abbia un valore così eccezionale. Se l’anima si salva, è grazie proprio a un corpo: il corpo di Cristo”, e così quello della pagina precedente, di sapore ellenico: “Bellezza e grazia sono gemelle”. Il suo atteggiamento di fondo è coglibile in quest’altro pensiero, scritto per esplicitare un’orazione liturgica: “La mitezza non è debolezza e il coraggio non è prepotenza. Il Vangelo non è un manifesto o un programma politico. È una proposta, un messaggio, un annuncio. Non si impone, si propone. Fa appello alla libera coscienza. Si annunzia con coraggio ma con mitezza”. Su questa linea di penetrante analisi, troviamo un altro pensiero, che vola molto al di sopra delle condizioni e dei rapporti esistenti tra religione cristiana come istituzione storica, morale e filosofia, che fece dire a Benedetto Croce la celebre e valida frase “non possiamo non dirci cristiani”, che ha valore soltanto nel contesto di precise condizioni storiche ma non sul piano di approccio teoretico: “Il Cristianesimo non è, come spesso appare e si pensa, una morale. È, prima di tutto, una mistica, non un pesante fardello messo sulle spalle dei credenti. Al contrario, è Grazia, è offerta e invito a un’intimità personale con Dio in uno Spirito di amore filiale. È possibilità di innamorarsi di Dio in Cristo Gesù, l’Innamorato del Padre, di un Padre folle d’amore”. Certo che su questa linea interpretativa, sicuramente condivisibile, tutta la casistica morale di scuola gesuitica e di tanti trattatisti risulta insussistente. Coglie inoltre la determinazione con cui risulta detto il non detto, la dimensione escatologica e salvifica inerente e ineliminabile, di fronte a cui atteggiamenti messianici e apocalittici si trovano fuori posto. La fine del mondo prossima ventura, cifra in parte originaria e forse di accentuazione della lettura della tradizione del Gesù orale, è qui svaporata nella coscienza storica ben robusta e sicuramente altrettanto ben innervata nella crescita spirituale dell’ eremita. E infine: “Quando si parla di preghiera, quasi spontaneamente si pensa a formule, parole, canti, celebrazioni, gesti, riti. La vera preghiera è molto di più (o molto di meno): è silenzio, è attesa, è desiderio. È come l’amore”. È, insomma il contemptus mondi in cui il Dio nascosto concede un ethos tutto particolare di condizioni vivificanti, di grazia, e in cui può tremendamente irrompere e travolgere il logos, per poi lasciarlo abbandonato nella notte di Dio: l’ineffabile, a cui s’addice il sublime. È su questi aspetti originari dell’agire e “non agire” umano che si riconferma la rispondenza dello spirito di Van Doorne con i grandi temi del misticismo cristiano e universale. È in essi che si apprezza la freschezza e la levità dello spirito che sovrasta le accentuazioni e le facili degenerazione delle lotte contro la carnale peccaminosità e l’insensato terrore del peccato che paralizza e stravolge la mente. In condizioni di immediata semplicità, Van Doorne comunica e fa conoscere aspetti precipui della via mistica purtroppo nell’errore e nella paura fagocitati dall’estremizzazione dualistica che ha operato in maniera nefasta. D’altronde, l’atteggiamento laborioso dei benedettini e di chi fu loro accanto nella lunga storia ulteriore, dai costruttori delle cattedrali ai templari, e di altri come i francescani che chiamarono fratello e sorella tutti gli elementi del creato, è in grado di operare le correzioni di fondo e di riavvicinare, nella giusta luce, la via mistica alla teologia negativa non meno che la via secca, nella quale per quanto splenda più l’attività del logos, il principo sempre rifugge, ascoso, ovvero accecante ogni raziocinio e ogni filosofia e teologia razionale.
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