I COMPENSI DEI MANAGER, NODO CRUCIALE PER UNA RIFORMA DEL MERCATO

14 Febbraio 2009

Enea Franza

Fonte: Parvapolis

 

I GANDI MANAGER, PRIMI GRANDI CORRESPONSABILI DEL DISTRO FINANZIARIO, ECONOMICO, SOCIALE E POLITICO, NEGLI USA E IN ALTRI STATI GODONO DI GUADAGNI INCREDIBILI, ANCHE DI FRONTE AI CROLLI PROVOCATI DALLE LORO SCELTE DALLE LORO DECISIONI DAI LORO SILENZI. E’ GIUSTA QUESTA FORMA DI CAPITALISMO CHE TIENE AL GUINZAGLIO LIBERALISMO, DEMOCRAZIA, LAVORO, DIFESA DELLE RISORSE E DEI RISPARMI INDIVIDUALI ? 

 

          Ha fatto molto parlare l’intervento, deciso dal presidente americano Obama, di stabilire un tetto di 500 mila dollari ai compensi per i dirigenti a capo dei gruppi rifinanziati dal Tesoro. L’intervento in banche ed aziende in crisi è costato al governo americano, solo in questi ultimi cinque mesi, oltre 700 miliardi di dollari. Una cifra enorme che ha riguardato colossi della finanza e delle assicurazioni come Fanni Mae e Freddi Mac, Aig, Citigroup, Bank of America, JP Morgan, Goldam Sachs, Merrill Lynch, Morgan Stanley e dell’industria, come General Motors e Crhysler (con un intervento di 24 miliardi). Secondo dati di Bloomberg, Cnn, e Morgan Stanley, negli USA sono stati stanziati per fronteggiare la crisi, fino ad ora, oltre 10.000 miliardi di dollari (anche se la somma utilizzata è stata, al momento, di sole 3.800 miliardi) mentre in Europa, lo stanziamento è stato di 4.700 miliardi di dollari (utilizzati per 1.500 miliardi). E’ sulla bocca di tutti che i manager delle aziende salvate godessero di retribuzioni assolutamente sproporzionate, la cui giustificazione è sempre stata l’enorme profitto che le società vantavano nei bilanci approvati e che dimostravano le grandi abilità degli amministratori.
 
Adesso che la crisi finanziaria ha scoperto il velo sulle modalità di realizzazione degli utili e comincia a farsi un calcolo del danno che dalle loro gestioni  è derivato alle aziende ed alla collettività, sono in molti che richiedono il conto ai manager. Tanto per dare qualche idea sui compensi 2007 degli amministratori delle società poi commissariate dallo stato americano,  ricordiamo che Kennth D. Lewis, amministratore delegato di Bank of America, ha percepito oltre 20 milioni di dollari, Vikram Pandit di Citigroup circa 3,1 milioni di dollari, e Richard Wagoner di General Motors, oltre 14,4 milioni di dollari.
 
Ci piace altresì ricordare che tali compensi non sono differenti da quelli percepiti negli altri principali Paesi industrializzati dai manager delle grandi imprese, anche di quelle italiane. Nel Rapporto 2008, l’Eurispes calcola, infatti, che i top manager italiani abbiano ben 243 volte uno stipendio medio di un impiegato dell’azienda, e che mentre i dirigenti quasi sempre beneficiano di un incremento al di sopra del 20 per cento del tasso di inflazione, la variazione degli stipendi degli impiegati non riesce a superare il 10. In particolare i 50 dirigenti più pagati del listino milanese si sono messi in tasca l’anno scorso quasi 300 milioni, il 29% in più del 2006 (le buste paga da lavoro dipendente sono cresciute del 2,3%). In termini di tasse, l’importo è stato sono di recente elevato, perché le vecchie norme di tassazione dei piani azionari delle aziende, prevedevano fino a pochi anni fa un’aliquota secca del 12,5%, invece di quella massima del 43%. Prendono stipendi e indennità milionarie, anche i manager pubblici delle società Enel, Finmeccanica, Alitalia e Fs. Ricordiamo, il governo Prodi mise un tetto, intorno ai 235mila euro, ovvero 15 volte lo stipendio più basso (15 mila 684 euro) di un dipendente statale.
 
Va, inoltre, considerato un aspetto cruciale per una corretta analisi delle retribuzioni dei manager. Prendendo in considerazione le retribuzioni medie annue, emerge, infatti, che “… Un aspetto certamente non trascurabile riguarda il peso assunto dalla parte variabile dello stipendio dei top manager, che supera spesso il 60 per cento del totale. È questo fenomeno – sottolinea il dossier ell’Eurispes – che rende le retribuzioni dei top manager spesso poco trasparenti”. Il vero punto di svolta, pertanto, sono state le stock option, ovvero, diritti conferiti gratuitamente ai manager, di esercitare entro la scadenza, il diritto di comprare l’azione sottostante al prezzo stabilito alla data di conferimento.
 
Tali dati, peraltro, stridono violentemente con il costo delle politiche di aiuti varati per fronteggiare la crisi in atto e di cui è stato dato più sopra cenno.
 
L’esito sembrerebbe allora scontato! cosa giustifica più, infatti, le retribuzioni dei manager che, anzi, dovrebbero pagare per i danni provocati alla collettività? Nel ragionare sulla supposta abnormità o meno delle retribuzioni, riflettiamo prima su un paio di punti. I manager sono stati assunti dalle imprese e pagati profumatamente sulla base di un programma deciso normalmente dai soci che persegue lo sviluppo o, nel caso di imprese in crisi, la ristrutturazione dell’impresa stessa, ma il cui fine ultimo è, in entrambi i casi, naturalmente, quello di remunerare i soci con utili o capital gain.
Com’è noto, l’utile di esercizio viene rilevato annualmente sulla base di un documento contabile, redatto dai manager stessi e sottoposto all’approvazione dei soci. E’ di tutta evidenza come sia forte il conflitto d’interesse tra il manager, soggetto deputato alla redazione del bilancio, e l’interesse dello stesso che il bilancio chiuda in utile: il positivo risultato in bilancio ne giustifica davanti ai soci, infatti, l’attività e, nel caso di retribuzione legata agli utili conseguiti, aumenta direttamente la propria parte variabile del compenso. Gli ordinamenti giuridici nazionali conoscono il pericolo e prevedono appositi presidi posti a garanzia della verità del bilancio: i principi contabili, i revisori, le autorità di vigilanza, gli analisti finanziari, la stampa e, per ultimo, la magistratura, che insieme dovrebbero costituire i vincoli all’azione fraudolenta dell’amministratore.Uso il condizionale perché la storia economica, tuttavia, dimostra come le maglie dei controlli non sono sempre sono capaci di imbrigliare i furfanti.
Altro strumento di remunerazione dei manager, come detto, sono le stock option, per via dei capital gain, ovvero, dei guadagni in conto capitale che, nel caso in cui il prezzo di mercato al momento della vendita sia più alto rispetto a quello di acquisto, tali prodotti consentono. Tali plusvalori conseguono non solo dalle variazioni di prezzo delle azioni, ma anche dai titoli obbligazionari, ovvero, sui debiti emessi dalla società stessa. Per le società i cui titoli siano liquidi, ovvero, negoziati su di un mercato regolamentato – o per i quali esiste un sistema d’incontro venditori ed acquirenti – le quotazioni possono differire dal prezzo di acquisto e sono possibili capital gain.
Operazioni straordinarie sul capitale (amenti di capitale, fusioni, cessioni di rami aziendali, ecc.) danno margine a notevoli variazioni nei prezzi dei titoli delle società coinvolte, e quindi ad ampi margini di profitto. Anche in tale ipotesi nessuno ci toglie il dubbio che le tante operazioni di finanza straordinaria poste in essere negli ultimi anni abbiano avuto quale motivazione, oltre l’ambizione di tanti manager, anche l’occhio alle plusvalenze conseguibili con tali operazioni. Non cambia la nostra opinione se pensiamo alle tante forme di remunerazione dei manager pensate con riferimento, ad esempio, al conseguimento di obiettivi. Della capacita discorsiva di tali forme premiale, la letteratura economica è piena, sia con riferimento alle problematiche che tale sistema genera in termini di gestione del personale che nei rapporti con la clientela o i fornitori e, non ci sembra poi tanto il caso in questa sede di “ciurlare nel manico”….  Allora ha forse ragione il guru americano delle teorie di management, Peter Drucker, secondo cui  occorre porre un limite alle remunerazioni dei manager e degli  executive,:“… le remunerazioni dei vertici aziendali, non devono superare il tetto dello stipendio di un impiegato medio moltiplicato per 40”. Una opinione avvincente, a cui difficilmente, alla luce di quello che è successo si può dare torto!
Nell’attività di gestione del manager, le parole d’ordine sono state: economicità, efficienza ed efficacia. Vediamo un po’ di che si tratta. L’economicità della gestione si sostanzia nella capacità del manager di gestire l’azienda, rendendola in grado di perdurare e massimizzando l’utilità delle risorse impiegate. Essa dipende congiuntamente dalle performance aziendali e dal rispetto delle condizioni di equilibrio che consentono il funzionamento delle aziende. L’efficienza è una modalità di azione o di produzione secondo un principio di massimo valore con il minimo di scarto, di spesa, di risorse e di tempo impiegati. L’efficacia, infine, attiene alla coerenza rispetto alla valutazione ex ante. Si tratta, in sostanza, a ben vedere, di parole vuote, tutte riconducibili ad un concetto di ottimizzazione delle risorse (principio che costituisce la base della scienza economica quale studio che del rapporto tra mezzi e fini) ma che lascia aperta la discussione circa l’individuazione degli oggetti, ovvero, gli oneri da minimizzare (retribuzioni o benefit dei manager?), il reddito da conseguire (reddito lordo o al netto dei danni alla salute, all’ambiente, ecc ?), la produzione da privilegiare (armamenti o cultura, ecc. ?).
E sulle decisioni essenziali dell’impresa, ovvero, su cosa cioè privilegiare (profitto, sviluppo o ricerca ?) decidono in definitiva i soci, nell’ipotesi di un assetto proprietario “forte”, mentre, viceversa, sono arbitri delle vicende societarie i manager, nelle società a capitale diffuso tra il pubblico ed in quelle di proprietà pubblica che si confrontano con una politica debole. Il punto debole è, allora, nelle società a capitale diffuso nel pubblico, dove non esiste un socio di comando ma, il comando e la gestione è affidata a manager che giustificano la loro azione sulla base di parole d’ordine che sono profitto, capitale, economicità, ecc. L’astrazione e la moltiplicazione condivisa delle azioni dei manager riduce gli spazi di manovra di ciascuno di loro, finendo tutti per essere asserviti, loro malgrado, dall’ossessione del denaro! E’ cosi che partendo da iniziali parole d’ordine tanto banali quando condivisibili e condivise si arriva all’aberrazione di quello che è un suicidio collettivo. Vale nella sostanza il detto di Bismarck “la forza precede il diritto”
Ma vediamo di essere più chiari… Il nostro contorto discorso vuole in definitiva segnalare all’attenzione dei più come il fantasma della democrazia economica rappresentato dalle società di capitale abbia determinato accentramento del potere nelle mani dei manager e ridotto le logiche dell’impresa a logiche di breve, brevissimo periodo. Tutto ciò per il processo di deresponsabilizzazione sociale dell’impresa che un capitalismo con un assetto proprietario forte e personalizzato ed incentrato nella figura dell’imprenditore (figura umana che operava anche per il bene della collettività) viceversa non consentiva, anche a ragione dei convincimenti, della fede e dei condizionamenti sociali sulla persona, che permettono di realizzare opere e progetti non economici e non convenienti.
Mi piace riportare, al fine di questa amabile riflessione, un brano di J.M. Keynes sul senso dell’efficacia, tratto dalla “The General Theory of Employment” del 1937”: “… dobbiamo restare poveri perché diventare ricchi non rende. Dobbiamo vivere in tuguri non perché siamo incapaci di costruire palazzi, ma perché non possiamo permettercelo. Questo stesso criterio di calcolo finanziario distruttivo governa tutti gli aspetti dell’esistenza. Distruggiamo la bellezza delle campagne perché lo splendore della natura non essendo proprietà di nessuno, non ha alcun valore economico. Saremmo capaci di spegnere il sole e la luna perché non danno dividendi. Londra è una delle città più ricche di tutti i tempi, eppure non può permettersi realizzazioni più ambiziose, ancorché siano alla portata dei suoi abitanti perché queste non rendono”.

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