La nuova geopolitica tra crisi dell’Occidente e ruolo dei fondi sovrani

10 Giugno 2009

Enea Franza

 

In esclusiva su ParvapoliS l’incipit del saggio di prossima uscita di Enea Franza

 

La nuova geopolitica e gli anni del dragone e dell’elefante

 

La crisi finanziaria è anche espressione di una rivoluzione finanziaria – Il declino dell’America e dell’Occidente – L’affermazione della Cina e dell’India metterà a rimorchio USA, Giappone, Europa –  Giochi e trasformazioni nella grande finanza mondiale: i fondi sovrani – Cosa sta accadendo in Italia con i fondi sovrani

 

 

 

Già si avverte con timore che il potere economico e, di conseguenza politico, si sta  spostando da Ovest verso Est, dal blocco costituito dagli Stati Uniti, Europa e Russia al blocco asiatico costituito prevalentemente da Cina ed India,  il dragone e l’elefante appunto! Anche se per poter avvertire in modo tangibile questo spostamento epocale del potere occorrerà aspettare ancora molto, è  pressoché certo che, almeno per i prossimi due/tre anni, gli Stati Uniti perderanno peso sul fronte del lavoro, della produzione, della finanza e quindi della politica.
 
La crisi dell’economia americana e dell’Occidente non è cosa di questi giorni, ma è iniziata – come si è cercato di spiegare in queste pagine, molto tempo prima. Bisogna partire dalla new economy, dalle innovazioni finanziarie di 20 anni fa, che dall’America hanno scorazzato sui mercati dell’Occidente e dal mercato immobiliare americano (ma anche qui di tutto l’occidente), di sette/otto anni fa. Il Bollettino dell’Harvard Business School salutava nel 1997 il Nobel a un suo professore, Robert C. Merton, con queste parole: «In effetti, usando la formula di Merton, diventa possibile costruire un portafoglio virtualmente privo di rischi». C’è chi, pur apprezzando questi prodotti se usati con prudenza, non ha mai creduto al loro valore taumaturgico. Altri, e sempre più, le grandi banche di Wall Street, alla fine li presentavano come il toccasana; si diceva …. “se tutto fila liscio” ed in più prodotti derivati rendevano ottime commissioni alle banche collocatrici.  Poi, la crisi della new economy, con l’enorme quantità di carta circolante e di denaro sperperato nella folle idea dell’economia del “piacere”. Ma a bloccare una crisi in corso, e gestita con abilità dalle Autorità monetarie americane, il fattaccio dell’abbattimento delle Twin Towers, e la guerra prima in Iraq e in Afganistan. La politica in definitiva non può permettersi una crisi e con grande abilità Alan Greenspan sposta la bolla speculativa dalla Borsa al mercato immobiliare, con la promessa di una casa per tutti anche per i soggetti non solvibili. I tassi sono tenuti artificiosamente bassi e la  crisi per ora è rinviata.  E’ il trionfo dell’economia dei riccioli d’oro! La sicurezza è garantita dalle formule per i derivati, e prodotti analoghi. I mutui vengono offerti anche a chi potrebbe trovarsi nella difficoltà a pagare. Ma non importa, il valore delle case cresce sempre e quindi chi compera oggi guadagnerà domani. È la corsa al sogno americano.  E le commissioni applicate ai clienti sono laute per chi emette i mutui e per chi li cartolarizza. Come visto, i titoli subprime prendono le vie del mondo; ma l’ingordigia fa sì che restino per lo più confinanti nell’occidente, mentre il dragone e l’elefante percorrono strade diverse: capitale umano e  infrastrutture.
 
A questo si aggiungano le costanti degli ultimi trent’anni di storia economica degli USA: il deficit strutturale del commercio estero, a lungo compensato con un afflusso di capitali dall’estero che ora si è interrotto; l’elevato debito pubblico, che dipende in gran parte dalle spese militari (moltiplicato da due guerre infruttuose e dispendiose); l’eccezionale debito privato accumulato dai cittadini americani.  Probabilmente ora si è arrivati alla resa dei conti. E per l’Europa il collegamento con l’economia americana, farà sentire la crisi in modo molto più pesante delle precedenti crisi. Infatti, da un lato la crisi è globale ed i costi del crollo Usa si scaricheranno su tutto il capitalismo occidentale. Dall’altro lato i bilanci pubblici dei Membri dell’Unione sono deficitari ed in più l’Europa manca delle politiche unitarie di bilancio che, invece, servirebbero per arginare in maniera effettiva la crisi. L’Unione Europea, infatti, dispone solo della leva monetaria, che viene gestita con l’unico obiettivo di contenere l’inflazione, trascurando la promozione della crescita affidata, invece, ad una politica unitaria che, ripetiamo, non esiste ancora.
 
I Paesi dell’Europa dell’Est soffrono dello stesso male: aver sposato in pieno la logica di mercato, attraverso una corsa verso le privatizzazioni selvagge ed essere divenute dipendenti dell’America. La Russia fa eccezione, perché è un paese ricco di risorse naturali, ma il suo gigantismo soffre della presenza di enormi oligarchie e di spinte anarchiche molto forti, di cui neanche il regime di Putin riesce ad avere piena ragione.  Inoltre, da oltre un decennio, si assiste ad una fenomenologia di redistribuzione della ricchezza che non tarderà a presentare il conto. Molto denaro sta andando da: Occidente ad Oriente per l’enorme surplus della bilancia commerciale e conseguente accumulazione di enormi riserve da parte di Cina ed in parte di India ed altri Paesi Asiatici.  Dai Paesi Occidentali progrediti a Paesi, forti consumatori di beni di lusso, detentori di materie prime quali petrolio, gas, rame ed altre materie necessarie per la produzione, nonché dalle classi “medie” alle classi “ricche”. Fenomeno che – rileviamo – si sta manifestando non solo nei paesi dell’Occidente, ma anche nei paesi in via di sviluppo o non ancora sviluppati. E’ di facile intuizione che tali fenomeni non tarderanno, anche a seguito della crisi finanziaria, ad esplodere.
 
In particolare, interessa sottolineare come i problemi che affliggono oggi i paesi dell’Occidente sono stati affrontati dalla Cina per tempo. L’economia cinese, infatti, minata dallo squilibrio delle varie regioni in cui e suddiviso l’enorme territorio, è già da un paio di anni intervenuta a pulire la sua borsa valori, e oggi si presenta con le carte in regola per ripartire. All’inevitabile minore domanda globale dei Paesi occidentali  verso la Cina, infatti il dragone potrà rispondere con una maggiore domanda interna, se troverà il coraggio di sostenere lo sviluppo dei salari, di migliaia di lavoratori ancora sottopagati: l’economia reale cinese sembra avere i fondamentali in ordine, mentre per i paesi dell’Occidente cosi non si può dire altrettanto. Ricordiamo: le debolezze della Cina legate all’enorme popolazione ed una miserrima condizione di vita della popolazione media, non tarderanno ad esplodere se il governo cinese non le affronterà in maniera radicale e tempestiva. Ma i problemi per lo sviluppo non vengono solo dalla Cina. Vi è un altro gigante nel continente asiatico di cui, tuttavia, si sente poco parlare: l’India.  Questo grande Paese, che conta un miliardo di abitanti, è una terra dotata di un forte capitale umano capace tecnologicamente, che coesiste con infrastrutture arretrate e povertà. Peraltro, Cina e India sono realtà economiche non in competizione. Ognuna di esse ha un contesto nettamente diverso, culturale e sociale, ma tali contesti appaiono complementari invece che alternativi. Semplificando, posso dire che l’India è specializzata in servizi, mentre la Cina nella produzione manifatturiera.  La Cina ha un modello di sviluppo che dipende dall’estero con la speranza che i benefici si diffondano nel mercato interno. L’India ha un modello di sviluppo creato in casa che sta ora guadagnando una “audience” globale.   E questo è più di un segno di una strada che porta alla necessitata collaborazione tra i due giganti e che potrà sostituire l’Occidente. Il progresso manifatturiero è tipicamente l’unità di misura usata dagli economisti per calcolare il grado di sviluppo delle nazioni emergenti.
La Cina ha dedicato la sua enorme riserva di risparmio interno (circa il 40% del PIL) all’edificazione di infrastrutture, ed è stata abile nell’attrarre massicci afflussi di investimenti diretti esteri come modo per acquisire tecnologia, esperienza manageriale e fabbriche in grande quantità: circa 53 miliardi di dollari all’anno dal 2000. I dati macroeconomici sui risultati raggiunti nel 2007 sono esaltanti al riguardo! Il Prodotto interno lordo dell’India è cresciuto del 9,6% nell’anno economico 2006/2007, record dal 1989. Ed è aumentato anche il consumo interno, ma meno rapidamente, a parte alcuni prodotti, con un vero boom per autoveicoli, motocicli e telefoni cellulari. L’India, nonostante tutto ciò, certamente soffre di un deficit strutturale che nonostante gli sviluppi recenti è quello che già era riportato nell’India Infrastructure Report 2004: “…Perfino relativamente al nostro reddito, le nostre carenze di acqua, strade, sanità, istruzione ed elettricità, sono impressionanti.” Ma la sua forza, com’è noto, è nella creazione di aziende di servizi informatici a livello mondiale, come Infosys e Wipro, nonché conglomerate di servizi sussidiari come Reliance e Tata.
 
Alla ricchezza di questi due giganti dell’Asia, si aggiungono le enormi disponibilità dei Paesi produttori di petrolio, che hanno beneficiato  per oltre un anno di corsa al rialzo dei prezzi di forti surplus e di molti paesi produttori di metalli indispensabili all’industria quali il rame. l’acciaio ecc…  Ed il loro accresciuto potere economico si è fatto sentire nella recente crisi finanziaria, attraverso le acquisizioni di quote nelle banche e nelle industrie occidentali fatte attraverso i Sovereign Wealth Fund (i c.d. fondi sovrani).
 
Facciamo una piccola parentesi: la storia dei fondi sovrani comincia in Kuwait nel 1953 con la “Kuwait Investment Authority”, che muove i primi passi in modo molto prudente, concentrando il proprio portafoglio nei titoli di Stato, principalmente Treasury americani.  Ma sono di questi anni le notizie che fanno tremare i polsi ai governi d’Occidente. In primis il China Investment Corporation, fondo costituito con l’enorme surplus commerciale cinese (200 miliardi di dollari attivo sul mercato azionario) acquista una quota pari a circa il 10% del gestore di private equity Blackstone, ed a tale shopping  segue – a poca distanza di tempo – l’investimento da 5 miliardi di dollari nella banca Morgna Stanley. Degli acquisti dei fondi sovrani, sui mercati occidentali è piena la cronaca economica di queste ultime settimane. I fondi sovrani degli Emirati Arabi Uniti, Qatar, Norvegia, di Abu Dhabi e di Dubai, ma anche Singapore (ricordiamo Temasek, costituito grazie al rilevante surplus fiscale), comprano di tutto. 
 
In Italia, per vedere le cose in casa nostra, i fondi sovrani comprano quote importanti in  Unicredit, Impregilo, Eni. Apriamo una breve parentesi e vediamo nel dettaglio. E’ del 21 ottobre la notizia che Unicredit prepara il posto in Consiglio per la Banca Centrale della Libia, entrata nel capitale con il 4,23% e che la poltrona di vicepresidente del maggiore gruppo bancario italiano è riservata al governatore della Banca Fahrat Bendara. L’affaire Unicredit, (avvenuto con acquisti diretti del titolo in borsa) sembra maturato in occasione dell’accordo sottoscritto dai fondi di Gheddafi per l’adesione (con 500mln) al prestito obbligazionario convertibile che scatterà in caso di inoptato  all’aumento di capitale, dopo che erano circolate le voci di un interesse dei cinesi e dopo che il ministro degli Esteri Frattini aveva fatto sapere come l’Italia “non metterà nessun tetto al 5% nelle partecipazioni e nessun obbligo specifico di legge” ai fondi sovrani.
 
L’intervento del ministro degli esteri apre l’Italia allo shopping dei fondi sovrani (forse solo di quelli buoni, ovvero, graditi al governo italiano ?), ma permette di finanziare un sistema economico che molti report indicavano in crisi di liquidità. Infatti, pochi giorni dopo, il 29 ottobre, esce la notizia che dopo Unicredit  (dove nel frattempo gli investitori libici, la Banca Centrale ma anche i fondi sovrani si sono rafforzati fino al 4,9%) anche Impregilo si accinge a stringere i legami con la Libia. All’incontro del 29 ottobre, partecipano il presidente della società Ponzellini, ma anche Scaroni e Palenzona, oltre naturalmente il ministro Frattini e Gianni Letta e, per i libici, il figlio del colonnello Sayf al-Islam, l’ambasciatore Guddur ed in  teleconferenza il presidente della Noc. Muammar.  Da quello che si sa gli accordi prevedono:  più stretti i rapporti nella joint venture Impregilo-Libco, (controllata dal gruppo italiano con il 60% e dalla Libyan Development Investment con il 40%) e l’ingresso nel capitale del gruppo italiano entro la metà del 2009 con una quota superiore al 3-4%. Ma sembra che l’obiettivo finale di Gheddafi (con l’accordo del governo Berlusconi) sarebbe l’acquisizione di una quota significativa nell’Eni, che ha già una serie di contratti importanti con la Libia e che, stando ai rumori che si rincorrono, si sarebbe già messo nel portafoglio quasi l’1% di Eni, in vista di una futura un’alleanza ancora più organica. Oltre che investire in Terna, fino a 100mln, pari a circa il 2% del capitale di Terna. Peraltro, pochi giorni dopo (siamo al 31 ottobre) il vertice bilaterale della Farnesina Saif al-Islam Gheddafi (figlio del colonnello e presidente della Fondazione) conferma l’ingresso della Tripoli Lybian Investment Authority in Telecom Italia. E, sono questi solo alcuni degli esempi tratti dall’esperienza italiana dello shopping sui mercati internazionali fatto da alcuni fondi sovrani…
Ma, a parte una cronaca di quello che è successo, occorre riflettere su alcuni aspetti. La crisi finanziaria seguita ad oltre un decennio di denaro facile, ha consentito la concentrazione di un’enorme massa di ricchezza nelle mani di Paesi che non hanno sistemi di tipo liberal-democratico, come ad esempio, la Cina, i Paesi del Golfo o la stessa Russia,  e che anche hanno consegnato una grande parte della ricchezza prodotta  nelle mani di poche persone fisiche, e quindi naturalmente molto più inclini (degli stati) ad usare il denaro per il proprio potere e seguire i propri interessi, che non per innalzare il tenore di vita delle società e dei popoli di cui fanno parte.
Di tutto questo occorrerà riflettere in una nuova Bretton Woods.
 
(Tratto dal libro di prossima uscita di Enea Franza, “La grande truffa”,  Aiel-Magazine Editore, 2009)
 
 

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