Basco Grigioverde: carrellata di storia, dall’eccidio di Malga Bala al foglio dei marò della X

31 Luglio 2009

Fonte: Basco Grigioverde

 

CARRELLATA DI STORIA…  e di tanta attualità

giovedì 18 settembre 2008
Basco Grigioverde “NOTIZIE,,
Eccidio di Malga Bala, 65 anni per onorare i carabinieri trucidati
Ci sono voluti 65 anni, ma finalmente l’eccidio di Malga Bala ha ottenuto il giusto riconoscimento. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano , ha concesso la Medaglia d’oro al Valor Civile ai dodici carabinieri trucidati nel marzo 1944 da un gruppo di partigiani titini. Un fatto atroce la cui memoria, negli ultimi decenni, è stata tenuta viva grazie all’impegno e alla passione delle istituzioni locali, di alcuni storici e rappresentanti delle associazioni d’armi, oltre che dai famigliari dei carabinieri uccisi, i quali nel limite delle possibilità, ogni anno raggiungono Tarvisio per ricordare l’eccidio. Ora però, con il riconoscimento dei morti di Malga Bala come “vittime di un’operazione di pulizia etnica”, questa pagina triste del confine orientale esce definitivamente dal dimenticatoio della storia.Il percorso per la concessione della Medaglia d’oro è in funzione da vari anni, ma ultimamente, con la richiesta da parte del Comando generale dell’Arma dei Carabinieri alla Difesa, interrogazioni del senatore Filippo Berselli, richieste di alcune associazioni, e da parte di alcuni familiari che si sono rivolti direttamene al Presidente della Repubblica e del Consiglio, si è arrivati al conferimento. Un fatto atroce che racconta di 12 carabinieri sequestrati, avvelenati, torturati, seviziati, mutilati, ed infine uccisi a picconate e con dettagli inenarrabili. Mia madre, Perpignano Maria Angela, sorella del comandante di quei giovanissimi carabinieri ha sempre sperato in un riconoscimento almeno simbolico, come lo è questa medaglia, ed anche se quasi ottantaseienne, è venuta a riceverla a Tarvisio il 14 Luglio, accompagnata dai figli.
Vito Ometto
X^ MAS, il foglio informativo di una storia che non finisce
Domenico Cambareri
28 Luglio 2009
Fonte: Associazione Culturale Decima Flottiglioa M.A.S.
X MAS: NON DIMENTICARE MAI LE RAGIONI DI UNA SCELTA, PER L’ITALIA E PER L’ONORE
LA “DECIMA” PRESERVO’ L’ESISTENZA DI APPARATI INDUSTRIALI E PREVENNE SVOLGIMENTI ED ESITI ANCORA PIU’ FEROCI DELL’OCCUPAZIONE TEDESCA DETTATA INNANZITUTTO DA UN INFAME TRADIMENTO
Nell’ultimo numero del bollettino dell’Associazione della Decima, in copertina riportato “NATALE 1945 AL 211 P.O.W” di Algeri. L’ultimo del bollettino, patinato e a colori, è sempre ricco di informazioni storiche e di rievocazioni culturali. La Decima flottiglia mas opera anche attraverso un sito internet: http://www.decima-mas.net/. Presidenza: emalut@tin.it ; tel. 035.972.881 ; vicepresidenza: info@decima-mas.net ; segreteria: arlette_voltolini@decima-mas.net. La corrispondenza va indirizzata a: Emilio Maluta, Via A. Moro n. 12 – 24062 COSTA VOLPINO – BG
Anche le future generazioni di italiani dovranno essere immensamente grati ai marò della Decima e ai soldati della RSI. Essi salvaguardarono l’onore del Popolo, della Nazione, della Patria dal tradimento di un re che mise tutto il Paese nelle condizioni più miserevoli, soprattutto quelle morali e politico-morali, che durano ancora oggi per le profonde lacerazioni che provocò. Non dimentichiamo che anche oggi per questo gran parte degli stranieri continua a NUTRIRE riserve e forti “pregiudizi” se non aperto disprezzo su di noi italiani per l’inaffidabilità della nostra parola e del nostro impegno. Non dimentichiamo che il re, nella piena legittimità di defenestrare il duce, tradì se stesso e la Patria con la resa segreta senza condizioni di Cassibile e con la farsa badogliana de “la guerra continua”. Nessuno starnazzante storico e politico antifascista ha mai risposto alla domande che si sarebbe immediatamente dovuto porre chiunque: “Gli alleati tedeschi presenti sul nostro territorio che faranno? Ci riempiranno di baci e di abbracci e si ritireranno? Li accompagneremo alla stazione a prendere il treno? O… ci considereranno traditori e ci occuperanno?” I marò e i soldati della RSI non possono e non debbono e non vogliono essere parificati ai partigiani “parificati” dalle successive leggi della Repubblica degli “antifascisti” ai soldati del regio esercito. I marò e i soldati della RSI possono essere soltanto parificati ai soldati del regio esercito perché truppe e reparti regolari di un esercito regolare. Se combatterono i partigiani, a ciò furono costretti dalle azioni, “belliche” per le corti di giustizia italiane (!), tecnicamente caratterizzate e condotte secondo la logica degli agguati, delle azioni terroristiche, del mordi e fuggi della guerriglia che colpisce le retrovie. Cosa militarmente irrilevante per i fini e gli obiettivi generali degli angloamericani quanto del regio esercito, dal momento in cui iniziò la infondata “cobelligeranza” con i vincitori; cosa che determinò però un’accentuata recrudescenza degli scontri con i reparti tedeschi e italiani preposti al controllo del territorio della RSI, e ,quindi, la conseguenza inevitabile delle rappresaglie che così tanto coinvolsero la popolazione civile. Fenomeno tristissimo detto della “spiralizzazione” che sul piano storico costituisce una costante. Da qui, chiediamoci: quale saggezza o quale scelleratezza giudò la classe politica che sostenne, rafforzò e seguì le scelte di un re in fuga?
Domenico Cambareri
 
 
I politici italiani non si meritano i ragazzi della Folgore
(…) ancor più da espugnare.
E non sono stati giorni qualunque. Ho visto gli uomini della Folgore spaccarsi le mani sotto il sole per costruire con quattro pezzi di legno mobili di fortuna per rendere più accettabile la sopravvivenza quotidiana per sè e per i propri amici, altri seduti senza una smorfia, coperti di sudore e polvere su una branda nella casa di fango e paglia a qualche decina di passi dalle postazioni da cui i talebani tirano mortai ed rpg. Li ho visti immobili con lo sguardo dentro il mirino del fucile di precisione a scrutare mutamenti e pericoli; e poi tornare da pattuglie durate ore, cercare ancora in sé la forza di buttare là una battuta e con la stessa polvere addosso ripartire verso il villaggio di là dal fiume, ed è una partenza di cui ogni volta non sai come andrà a finire. Lì sotto il sole, nel caldo che ti spezza la volontà, c’era Francesco, tornato a combattere dopo che la sua gamba era stata attraversata dalla scheggia di un mortaio e Giovanni arrivato con il convoglio durato tre giorni, con gli scontri a fuoco, bossoli sul terreno e proiettili in arrivo. C’erano i mortaisti che a tempo perso fanno gli idraulici e quelli che sfilato il giubbotto antiproiettile cucinavano risotto per tutti. Li ho lasciati lì a scrivere la storia a modo loro. Senza grande enfasi concentrati sulle cose da fare,, le priorità, gli ordini dei comandanti, le strategie e la sopravvivenza. Poi quando l’aereo ha toccato la pista di Ciampino, di colpo mi è sembrato tutto più chiaro. Uno sguardo ai monitor delle tv, un’occhiata ai titoli dei giornali. E una sola certezza. Questo Paese non se li merita. Non si merita neppure un’oncia di quel sudore di quella fatica senza imprecare, di quell’abitudine a obbedire e rischiare che per molti dei venditori di parole di professione è una realtà inimmaginabile. Non se li merita perché è difficile rischiare la pelle per un paese che prende impegni internazionali e poi è sempre pronto a ridiscuterli nascondendo dietro le finte lacrime per il morto l’opportunismo dell’agenda politica. E ancora meno se li merita perché i consumati chiaccheratori di democrazia e della difesa dei nostri valori si dimenticano che nulla è gratuito né scontato. Fingono di non sapere che per poter costruire una società in cui anche le donne hanno diritto ad istruzione e cure sanitarie magari serve addirittura che qualcuno di quei ragazzi non torni mai più a casa. Non solo. Il subdolo difensore delle mamme in lacrime pretende di ignorare che ogni volta che un impegno internazionale viene disatteso il nostro paese diventa un po’ meno credibile e questo alla fine non va bene per nessuno. Non solo. Sono proprio loro, quelli che adesso sono là a combattere che non vogliono sentirsi trattati da scolaresca in gita: un soldato sa che in guerra si può morire, sempre, anche se alla guerra poi si aggiungono gli aggettivi per tenere gli animi sedati. Il problema è che là a Bala Murghab, a Farah, nella valle di Musahi, i nostri ragazzi vedono tv e titoli di giornali e per loro diventa tutto ancora più difficile, incomprensibile. Per questo tornando qui uno sente il bisogno di dire chi sono e cosa stanno facendo. E poi in realtà ho sbagliato. Il Paese se li merita perché loro sono il Paese. Poi invece, la politica, quella si è un’altra storia.
Monica Maggioni
Ex Pci: Resistenza? Sì, ma contro la verità
Scritto da Giampaolo Pansa
venerdì 24 luglio 2009
Pubblichiamo la sintesi dell’intervento «Il maledetto revisionista» che sarà presente sul prossimo numero di «Atlantide», quadrimestrale della Fondazione per la Sussidiarietà diretto da Giorgio Vittadini dal titolo La realtà non è un’opinione, in uscita al Meeting di Rimini (23-29 agosto 2009) e nelle librerie e edicole. Giampaolo Pansa è in libreria anche con il suo ultimo saggio storico, Il revisionista (Rizzoli), dove raccontala sua avventura umana e intellettuale, nata nel segno della nonna, Caterina Zaffiro vedova Pansa, che con il suo fastidio per comunisti, democristiani e fascisti è stata, senza saperlo, un esempio di revisionismo anarchico.
È da parecchi anni che sono infastidito da gente testarda nel rifiutare la conoscenza come avvenimento. Parlo di chi non vuole saperne del revisionismo sulla nostra guerra civile. E più in generale del revisionismo sulla storia del comunismo italiano. Li tengo d’occhio da un pezzo, così come loro tengono d’occhio me. Insomma, siamo duellanti che si guatano da lontano. Per incrociare le lame di tanto in tanto.Proprio perché li conosco bene, non credo di sbagliare se dico che oggi li vedo ammosciati. Sì, li scopro con la grinta dimezzata, persino lamentosi. Non hanno più l’arroganza di quando mi attaccavano ogni volta che usciva un mio libro. Adesso se possiedono ancora un po’ di boria, non osano più mostrarla in pubblico.Il motivo è semplice. Gli anti revisionisti si sono accorti che la loro merce è passata di moda. Un pubblico sempre più diffuso di lettori sta con il Pansa di turno. Per questo si sentono soli e anche un po’ abbandonati. L’applauso dei trinariciuti gli arriva ancora, ma non gli basta più. La crisi culturale della sinistra, primo sintomo della crisi politica, li ha travolti. E non possono contare su una sponda sicura, come gli accadeva prima.Di chi è la colpa della decadenza che li angoscia? Gli ostinati se la prendono con il mercato culturale, che esige un pensiero sempre più leggero. E immagino che rimpiangano i tempi del pensiero pesante, anche sotto la forma del pensiero unico. Una testimonianza di come stiano le cose nel loro campo l’ho trovata qualche mese fa leggendo un numero di Tuttolibri, il supplemento letterario della Stampa.Il sabato 14 marzo 2009, Tuttolibri si apriva con un intervento di Giovanni De Luna, docente di Storia contemporanea a Torino. De Luna era stato uno dei miei critici più costanti a partire dal Sangue dei vinti. Qui citerò soltanto lui, trascurando altri articoli, tutti lagnosi, usciti di recente contro di me. Specialmente sull’Unità, il quotidiano fondato da Antonio Gramsci e oggi diretto da Concita De Gregorio.L’articolo di De Luna era intitolato Il pensiero è sempre più leggero. E l’occhiello recitava: «Si è sciolto il rapporto tra ricerca ed editoria, cultura e politica, per inseguire il mercato. Mentre più che mai servirebbe una saggistica “pesante” (e pensante)». Confesso che mi è sembrato il concetto più chiaro di quella pagina. Poiché gli argomenti del professor De Luna non mi sono mai risultati di facile comprensione. Ho capito comunque che, nella logica delunesca, se il pensiero si era troppo alleggerito la colpa era certamente dei revisionisti come il sottoscritto. Non venivo indicato per nome, perché i docenti universitari citano soltanto i loro pari grado. Ma era chiaro che il professor De Luna si riferiva soprattutto ai miei libri. Sentiamolo in presa diretta. «Il successo del revisionismo ha fatto scuola – si lagnava il Prof. – con le sue migliaia e migliaia di copie vendute». E tutte di libri colpevoli di tante nefandezze. Libri «che programmaticamente rifiutano di fornire le “prove” delle loro argomentazioni». Libri «che si affidano a modelli narrativi (lo pseudo romanzo o il finto dialogo) che nascondono l’inconsistenza delle tesi storiografiche proposte». Libri «che si sottraggono al confronto con la verità (o con la verosimiglianza), per inseguire i clamori del successo mediatico e obiettivi immediatamente e squisitamente politici».«A questo si aggiunge – continuava il professor De Luna – la frattura che si è consumata tra il mondo della politica e quello della cultura accademica, quella storica in particolare. La storia non appartiene più ai percorsi di formazione della nostra classe politica». Tralascio il seguito della requisitoria delunesca. Rivolto ai capi della sinistra, ieri diessina e oggi democratica. Politici incapaci di affidarsi «alla Storia», con l’iniziale maiuscola. Tanto è vero che i primi due segretari del Partito democratico, Walter Veltroni e Dario Franceschini, si sono presentati al loro pubblico con due romanzi, «e non è un caso».Di quell’intervento mi ha colpito una cosa non detta. Il professor De Luna non spendeva una parola per spiegarci i motivi del silenzio suo e di molti dei suoi colleghi universitari a proposito della Guerra civile. Non ne scrivono quasi mai. Non la studiano. Non se ne curano, se non per replicare a chi non sta agli ordini della storiografia rossa. Insomma tacciono, come se si fossero resi conto che i loro vecchi schemi non reggono più alla prova dei fatti. Tanto è vero che l’ultima indagine generale sulla Resistenza, quella di Santo Peli pubblicata da Einaudi, risale al marzo 2004, più di cinque anni fa.Revisionismo e pensiero pensanteMa adesso smetto di parlare del professor De Luna per dire qualcosa su di me, mandato da lui sul banco degli imputati. Con l’accusa di distruggere a colpi di revisionismo il pensiero pesante. Certo, sono un dilettante della ricerca storica, pur avendo alle spalle un’ottima laurea grazie a una tesi di storia contemporanea: Guerra partigiana fra Genova e il Po, pubblicata da Laterza nel 1967. E mi muovo da anni su un terreno che ho studiato a fondo e credo di conoscere come pochi: l’antifascismo armato, lo scontro fra la Resistenza e la Repubblica sociale, il dopoguerra macchiato da un’infinità di delitti.Ecco un campo minato dai divieti dei parrucconi rossi: quelli di partito e quelli dell’accademia. Qui ho incontrato di continuo commissari politici travestiti da intellettuali e boriosi professori nullascriventi. Tutti pronti a muoversi da giudici spocchiosi dell’Inquisizione antifascista. Con un solo chiodo in testa: punire anche il più timido revisionismo come un’eresia maledetta e pericolosa, da soffocare. Parlo delle revisioni che non tornano comode alla cultura comunista. E che, dunque, non debbono essere ammesse. Questi parrucconi mi fanno sorridere. Soprattutto perché fingono di dimenticare che le sinistre italiane sono sempre state iper revisioniste, ogni volta che gli è convenuto esserlo.Pensiamo a Stalin, prima grande padre buono di tutti i popoli della terra e poi despota feroce. Oppure al maresciallo Tito. Dipinto dal Pci come un eroe della libertà, il vincitore della guerra in Jugoslavia contro nazisti e fascisti. Poi sputacchiato sempre dal Pci, quando nel 1948 rompe con l’Unione Sovietica. E, infine, di nuovo esaltato dal Pci a partire dal 1955, quando la frattura con Mosca si ricompone. Li ho visti in azione questi parrucconi. Ma pur essendo un dilettante solitario, senza un partito che mi difendesse, non mi sono spaventato. Ho tirato i sassi contro i padroni post comunisti della storia italiana. Ho provato a scrivere le pagine lasciate in bianco da loro, per calcolo politico o per viltà intellettuale. Li ho sbugiardati. Li ho costretti a replicare spacciando altre bugie. Ho contribuito a svelare la loro mediocre doppiezza. Mi sono fatto dei nemici. Ma ho incontrato molti amici: italiani per bene, stanchi di troppe menzogne e alla ricerca della verità.Nello scoprire questi tanti amici, libro dopo libro mi sono reso conto di una realtà che prima non vedevo con chiarezza. In Italia esiste un’opinione pubblica moderata, di centro-destra, di destra o semplicemente liberale, che per anni ha faticato a emergere sul terreno della cultura diffusa. All’inizio era un’opinione «povera», perché non poteva contare sull’apparato culturale a disposizione della sinistra. I partiti che aveva alle spalle erano scomparsi nel gorgo di Tangentopoli. E l’unico rimasto in piedi, il Movimento sociale, stava cambiando pelle e natura.Senza rendermene conto, ho contribuito a liberare questa opinione. Dopo I figli dell’Aquila, dedicato a chi aveva combattuto per la Rsi, e soprattutto dopo Il sangue dei vinti, ho ricevuto sino a oggi almeno tremila lettere. Sono soprattutto di donne che mi narrano la loro storia e quella della loro famiglia negli anni della guerra civile e del primo dopoguerra. E mi ringraziano per avergli dato il coraggio di scriverne, dopo decenni di silenzio obbligato.
La caduta del bavaglioIl maledetto revisionismo ha fatto cadere un altro piccolo muro di Berlino. Era quello del bavaglio imposto dalla cultura e dalla storiografia comuniste a tanti italiani esuli in patria. I paria, i reprobi, gli sconfitti che l’arcigno Arco costituzionale, fondato sulla Dc e sul Pci, non voleva riconoscere come cittadini con pari dignità. Un lettore mi ha scritto che, con i miei libri, non ho soltanto liberato la memoria dei morti, ma anche quella dei vivi, dei loro figli, dei loro nipoti. «Vissuti per anni con il sasso in bocca – diceva una lettrice – identico a quello che la mafia adopera per le sue vittime».Adesso l’opinione pubblica fatta emergere dal revisionismo sulla guerra civile è meno povera di prima. Ma si scontra ancora con due grandi difficoltà. La prima è rivelata dal paradosso che connota l’Italia di oggi. Il vecchio Pci è scomparso da vent’anni, dopo la fine dell’Unione Sovietica. E i partiti nati dalle sue ceneri sono sempre più deboli. Eppure l’egemonia culturale rossa resiste ancora. Perché è un’egemonia proprietaria. E sta in piedi grazie a quel che possiede e usa di continuo.L’elenco delle sue proprietà è lungo. Le cattedre di storia contemporanea in molte università. L’insegnamento della storia nelle scuole medie superiori. Una catena di case editrici. I tanti festival del libro, a cominciare dal rosso Salone di Torino che esclude quasi sempre autori invisi alla sinistra. I premi letterari. I convegni culturali in centri grandi e piccoli. Tanti giornalisti. E parecchi quotidiani. A cominciare da Repubblica: un giornale-partito, dalla pedagogia autoritaria, importante per numero di copie diffuse e per il pensiero unico che fa circolare e riesce ancora a imporre.Ho descritto una struttura difficile da sgretolare. E che resiste quasi intatta a ogni crisi. È vero che conta meno di un tempo. Però seguita a rimanere in piedi. Assomiglia a un gigante sempre più confuso, ma tuttora in grado di far pesare la propria forza. Ha dalla sua anche una quota della televisione pubblica: la rete 3 della Rai, il suo telegiornale, i suoi programmi culturali. Non è un caso se non sono mai riuscito a presentare i miei libri revisionisti su questa rete. La censura rossa mi ha sempre sbarrato il passo. Trovando molti piccoli censori pronti a obbedire. I motivi di queste esclusioni sono tanti e tutti falsi: Pansa diffama la Resistenza, Pansa inventa stragi mai avvenute, Pansa scrive cose che non pensa per intascare buoni diritti d’autore, Pansa si è messo al servizio del centrodestra di Silvio Berlusconi… Ma esiste pure un motivo più serio, quello decisivo. E riguarda la storia del Pci nella guerra civile e nel dopoguerra. L’apparato culturale e storiografico comunista ha sempre sostenuto che il Pci di Togliatti, di Longo e di Secchia era un partito democratico già all’inizio degli anni Quaranta. E non aveva mai coltivato l’intenzione di continuare la guerra civile anche dopo la Liberazione. Già, non ha mai cercato di conquistare il potere con le armi. Non ha mai voluto fare dell’Italia una repubblica popolare, dove la «democrazia progressiva», così la chiamavano, sarebbe stata al servizio dell’Unione Sovietica.Nei miei libri, mettendo in fila una serie di fatti incontestabili, ho invece provato che l’obiettivo finale del Pci era proprio un regime autoritario. Con un solo partito e una polizia politica onnipotente. I comunisti non combattevano per la libertà degli italiani, ma per un’altra dittatura, rossa invece che nera. Anche storici ben più professionali di me hanno affermato la stessa verità indiscutibile. Ma è proprio questa verità a suscitare la reazione rabbiosa dei dirigenti post comunisti e degli storici rossi. La considerano una falso totale. E nel replicare vanno fuori di testa. Come ho potuto constatare anche in qualche risposta nervosa al mio ultimo libro, Il revisionista, uscito in maggio da Rizzoli.Ecco uno snodo cruciale nella vicenda della Resistenza e del primo dopoguerra. E non si tratta soltanto di un problema storiografico. Siamo di fronte a una questione che si riflette sulla lotta politica del 2009. Basta dare un’occhiata alla tribuna d’onore del Partito democratico per rendersi conto che molti dirigenti vengono dal vecchio Pci. E sono cresciuti alla sua scuola. Pensiamo a D’Alema, a Fassino, a Veltroni, a Bersani, a Livia Turco, ad Annamaria Finocchiaro, a Violante, a Reichlin e a tanti altri ancora. Ammettere la verità sul vecchio Partitone rosso, manderebbe in crisi la loro cultura e le loro stesse figure. Qualunque giovane militante potrebbe chiedergli conto delle menzogne che anche loro hanno avallato. E della loro ostinazione a non rinnegarle.Per questo di qui non si passa. Ci vorrà ancora del tempo prima che dall’area post comunista arrivi qualche ammissione. Riconoscere che il Pci della guerra partigiana aveva propositi golpisti significa aprire una falla in una diga. Con l’obbligo di rileggere in un modo nuovo, e pericoloso, tutta la storia del comunismo italiano nella prima Repubblica. Una storia che non è quella degli antichi egizi, ma del nostro tempo. Con vecchi protagonisti sempre sulla scena. Basta pensare all’uomo-immagine della sinistra radicale: Pietro Ingrao. Non era lui ad aver giustificato alla Camera dei deputati la fucilazione di Imre Nagy e di altri dirigenti dell’insurrezione ungherese contro i sovietici? Sì, era lui. Ed eravamo già nel giugno 1958.
La questione MsiMa l’opinione pubblica moderata incontra anche una seconda difficoltà. Questa deriva dalla scomparsa di un partito che si era sempre opposto alla cosiddetta vulgata resistenziale. E ai falsi storici che la sorreggevano. Mi riferisco al vecchio Msi, sciolto da anni, e poi di Alleanza nazionale che in marzo è entrata nel Popolo della libertà. So per esperienza che molti dirigenti di An la pensano come prima a proposito della guerra civile. Il problema è che il loro leader non la pensa più nello stesso modo.Sto parlando di Gianfranco Fini, oggi presidente della Camera. Osservo come si muove, che cosa dice, quello che scrive. Ho anche discusso con lui, in un dibattito pubblico a Montecitorio, nel maggio di quest’anno. Ma continuo a non capirlo. Fini è un enigma vivente. Oggi respinge per intero un passato che pure gli appartiene, anche perché gli ha garantito la carriera. Siamo di fronte a un caso strabiliante di revisionismo all’incontrario. E penso che ci riserverà molte sorprese, tutte stupefacenti.Serve a una cultura liberale una posizione come quella di Fini? Penso di no. La conoscenza a proposito della storia non progredisce nella confusione. Rovesciando un vecchio motto, potremmo dire: se il disordine sotto il cielo si fa grande, la situazione non diventerà mai eccellente.
il Giornale, 24 lug 2009
Oggi c’è un tricolore abbrunato alla mia finestra,
vuol dire che la Nazione ha perso un figlio, dei genitori hanno perso un figlio, dei fratelli un fratello.
Tutti abbiamo perso chi ha scelto di combattere una guerra per affrancare il diritto di esistere portato in volo da un aquilone…
Basco Grigiverde
Medaglia al valore militare al giovane lametino Grilletto
Lamezia Terme – Ha ricevuto la medaglia di bronzo al valore militare direttamente da presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione del 148esimo anniversario della costituzione dell’Esercito nei giorni scorsi nella caserma dei Granatieri di Sardegna a Roma. Si tratta di Giuseppe Grilletto, 29enne lametino, ferito in Iraq il 16 maggio del 2004 in un attentato alla base di Nassirya. Il giovane lametino, arruolato ormai da diversi anni nell’Esercito, si trovava da appena cinque giorni in Iraq quando nel corso di un attentato dei ribelli locali, è stato travolto dalle schegge provocate dallo scoppio di un mortaio. Da qui l’onoreficenza da parte del presidente della Repubblica che ha conferito la medaglia di bronzo al giovane lametino. In particolare, nella motivazione conferita a Giuseppe Grilletto si legge che «il giovane, impegnato in un’attività di vigilanza alla base italiana “Libeccio” dislocata nella periferia a sud di Nassirya, presidio di vitale importanza per il controllo della città, nel corso di un reiterato vile attacco ostile condotto dalle milizie locali con armi a tiro curvo veniva investito dalle schegge di un corpo di mortaio esploso all’interno della base». «Malgrado il dolore e le serie ferite – prosegue la motivazione – rifiutava le prime cure indirizzando i compagni a soccorrere un altro commilitone colpito in maniera più grave. Ammirevole figura di soldato, che per il coraggio l’altissimo senso del dovere, la forte motivazione e lo spirito di sacrificio evidenziati, ha contribuito concretamente a dare lustro e prestigio alla forza armata e al paese in un contesto internazionale». Un riconoscimento importante per il giovane commilitone, considerato che nel corso della cerimonia che si è svolta a Roma, il presidente Napolitano ha conferito la medaglia solo a sei militari, quattro dei quali vittime di guerra. Giuseppe Grilletto, che da qualche anno vive ad Avellino, dopo un periodo di recupero a seguito dell’attentato, ha proseguito la carriera militare, e attualmente lavora al 232esimo Reggimento Trasmissioni di Avellino. «Quando ho ricevuto la medaglia dal presidente della Repubblica – ha detto alla Gazzetta del Sud Giuseppe Grilletto – ho provato una forte emozione oltre che contentezza perchè ho ricevuto il riconoscimento direttamente dal presidente Napolitano. Per me è stato un grande onore, anche perchè per me servire la mia Patria è la cosa più importante. Quando sono stato ferito – ha ricordato il giovane militare – mi hanno operato subito in Iraq, poi in Italia ho subìto altri tre interventi. Dopo le operazioni ci sono voluti due anni di recupero. Ora sono già a lavoro, e continuo la mia carriera militare: la cosa più importante per me».
 
Colpito un mezzo della Brigata Folgore
Attacco ai militari italiani in Afghanistan, nessun ferito
 
I paracadutisti della Folgore sono stati attaccati nella notte in un’area nei pressi della capitare Kabul. I militari italiani erano di pattuglia e una volta attaccati hanno risposto al fuoco.
Kabul, 14-05-2009 16:01
Un convoglio della Brigata Folgore è stato attaccato la scorsa notte in Afghanistan. Per fortuna l’imboscata non ha causato feriti. Solo uno dei tre veicoli Lince che formavano la colonna ha subito lievi danni. A dare la notizia è stato il comando del contingente italiano.Imboscata vicino KabulL’attacco è avvenuto nella Valle di Musahy, a circa 50 km dalla capitale Kabul, in un’area dove già in passato si sono verificati fatti analoghi. Ad essere presi di mira questa volta sono stati i paracadutisti del 186° reggimento della Brigata Folgore, che solo da pochi giorni hanno rilevato gli alpini nel controllo di quella zona dell’Afghanistan, a ridosso della capitale.
Il convoglio italiano, composto da tre veicoli Lince, era impegnato “in attività di pattugliamento volta al mantenimento del controllo del territorio”. Non appena attaccati, ricostruiscono al comando del contingente, i paracadutisti italiani “hanno prontamente risposto al fuoco e, illesi, sono rientrati alla base”. Solo uno dei tre Lince ha riportato “lievi danni”.
 
 
 
La Provincia di Como
A Como raddoppiate le domande per l’Esercito
 
 
Nel 2009 a Como sono raddoppiate le domande per entrare nell’Esercito, e nel 50% dei casi a volersi arruolare sono le donne. Crisi e lavoro che non c’è incentivano la corsa dei giovani comaschi al posto sicuro.Mai come in queste ultime settimane la caserma De Cristoforis, sede del Centro documentale, è stata oggetto di particolare attenzione da parte dei giovani. Un primo segnale è stata la grande partecipazione al Trainig day, frutto della collaborazione tra Esercito e Ufficio scolastico, e la conferma è arrivata puntuale nelle scorse ore quando si sono chiuse le domande per il 3° blocco 2009, per l’arruolamento di volontari in ferma prefissata di un anno. A fronte delle 200 domande giunte in totale nei 4 blocchi del 2008, solo dal 16 febbraio all’8 maggio di quest’anno (3° blocco) ne sono arrivate 100 (35 nel 1° blocco e 50 nel 2°).La metà circa, come detto, sono al femminile, provengono dalla città e dalla provincia, sono di giovani diplomati, di età compresa tra i 18 e i 25 anni, che effettueranno un anno di “prova”, con la possibilità di fermarsi per altri 4 anni, di accedere ai concorsi per entrare negli altri corpi oppure abbandonare la divisa. Il tutto, per i primi 12 mesi, a fronte di uno stipendio netto che supera, anche se di poco, gli 800 euro mensili (50 euro in più per chi sceglie di entrare nel corpo degli alpini), non poco se si considerare che il vitto e l’alloggio sono a carico del ministero della Difesa.«C’è stata una vera e propria impennata delle domande – conferma il capo del Centro documentale, il colonnello Sergio Lepore – anche per i motivi sopra enunciati, che a breve (l’incorporazione è prevista per settembre, ndr) porterà questi giovani a Bologna per la visita medica di idoneità e poi l’ingresso in graduatoria. Si stima che un buon 70% verranno arruolati».Insomma, anche a causa della crisi, oltre ai soldati per vocazione, di questi tempi si aggiunge la schiera di soldati per necessità, alcuni dei quali hanno scelto di fare il paracadutista e verranno dirottati in Toscana, altri l’alpino per cui presteranno servizio in Piemonte o Toscana, mentre la maggioranza nella domanda non ha indicato preferenze, per cui è a tutti gli effetti un soldato generico, che può essere affidato a diverse mansioni, con il vantaggio di poter scegliere la regione dove operare. «Se per alcuni – aggiunge il maresciallo Pietro Bevilacqua – la ferma prefissata è solo un periodo di precariato che consente però di fare esperienza militare nei reparti operativi o in quelli logistici, di apprendere l’uso del computer e l’inglese nonché praticare sport, per altri potrebbe essere lo sbocco lavorativo del futuro. I “Vfp1” infatti hanno la riserva completa dei posti nei concorsi per Volontario in ferma prefissata di 4 anni nell’Esercito e le carriere iniziali delle Forze di polizia». Intanto si parla già di 4° blocco: la domanda di partecipazione può essere già presentata. La scadenza è fissata il 7 agosto, e i posti disponibili, su tutto il territorio nazionale, sono 3 mila.
Offensiva di primavera
Afghanistan, gli americani affiancano gli italiani per respingere i Taliban
 
di
Pietro Batacchi 12 Maggio 2009
L’offensiva di primavera promessa dai talebani in vista del tanto atteso, e temuto, appuntamento elettorale del 20 agosto, è cominciata. Si combatte in tutto l’Afghanistan. A nord, a sud così come
nell’ovest controllato dagli italiani. I talebani e i loro amici di Al Qaeda non vogliono solo destabilizzare il Paese prima delle elezioni, ma rispondere anche al surge americano lanciato dal presidente Obama.
Per cui se gli americani, soprattutto, e la NATO rafforzano la loro presenza militare nel Paese, gli studenti coranici fanno altrettanto mettendo sotto pressione il dispositivo alleato praticamente ovunque. La strategia della guerriglia è ben sintetizzata da un comunicato prodotto da Al Fajr, il network on line che Al Qaeda utilizza per diffondere i suoi messaggi, e pubblicato di recente sul Forum islamico Al Falluja. Nel documento, la cui responsabilità è stata attribuita a Mohammed Said, il nuovo leader del Lashkar Al Zil, l’erede della famigerata Brigata 55, si afferma esplicitamente che l’obiettivo della strategia dei talebani e di Al Qaeda è interdire le linee di rifornimento di ISAF e Enduring Freedom in Pakistan e attaccare i maggiori centri provinciali per stringere la morsa attorno alla capitale Kabul.
Una strategia che ricorda molto da vicino quella nordvietnamita del carciofo e che ha portato negli ultimi tempi i talebani ad estendere la loro influenza, poco alla volta, dalle loro tradizionali zone di insediamento nel sud del Paese alle aree centrali. Fino alla provincia di Wardak – ad una manciata di chilometri a sud di Kabul – non a caso citata dallo stesso Said nello stesso documento pubblicato su Al Falluja come uno snodo fondamentale nella marcia talebana verso la reconquista della capitale. A Wardak gli americani hanno schierato lo scorso gennaio la 3ª Brigata della 10ª Divisione da Montagna, la prima unità del surge, inizialmente destinata all’Iraq e poi ridiretta in Afghanistan, per rintuzzare l’offensiva talebana e riprendere il controllo di alcuni distretti caduti nei mesi precedenti sotto l’influenza degli studenti coranici. Probabilmente entro l’estate a dar manforte alla 3ª Brigata giungeranno altri soldati americani dei 17.000 in più che il presidente Obama ha deciso di mandare in Afghanistan entro la fine di quest’anno.
Oltre che sulla provincia di Wardak, il surge americano si concentrerà soprattutto sulle provincie di Kunar – nella parte orientale dell’Afghanistan e storica roccaforte dell’Hezb e-Islami di Hekmatyar – e di Hellmand e Kandahar – nel sud. Gli americani rafforzeranno inoltre la loro presenza anche nelle aree meridionali della provincia di Farah, nella regione ovest sotto comando italiano. La notizia, annunciata dal ministro della Difesa La Russa alle commissioni Difesa di Camera e Senato, è stata adesso confermata anche dal capo di stato maggiore dell’Esercito Castagnetti. I soldati americani, pare assieme anche a unità fresche del British Army, si dispiegheranno nei distretti di Gulistan, Bakwa e Bala Baluk, aree estremamente critiche perché soggette all’infiltrazione talebana proveniente dalla provincia di Hellmand e scarsamente presidiate dai militari italiani e della NATO. Il comando regionale ovest italiano, infatti, si trova a dover controllare tutto questo settore, un territorio grande quanto il nord Italia, con poco meno di 3.000 uomini. L’obiettivo è allora aumentare la presenza sul terreno e la cosiddetta “densità operativa” per togliere ai talebani un prezioso retrovia.
Tutto questo porterà a una rimodulazione del contingente italiano di stanza nell’ovest del Paese. Per adesso è stato completato il rischiaramento del secondo battaglione di manovra in aggiunta al battle group congiunto con gli spagnoli che già da tempo opera nell’area e che gravita soprattutto nelle zone centro-settentrionali della regione di Herat. La nuova unità, basata sul 187° reggimento della Brigata Folgore, è di stanza nella base El Alamein di Farah, una struttura di nuova realizzazione attigua alla base del contingente americano di Enduring Freedom, ed è dislocata prevalentemente nell’area meridionale, dove fino a poco tempo fa operavano solo le forze speciali della Task Force 45. Nella base El Alamein è stata di recente dislocata anche una compagnia di blindati da combattimento Dardo, particolarmente utili come deterrente grazie al loro elevato livello di protezione ed al cannone da 25 mm di cui sono dotati.
Sempre di recente, nell’area sono stati realizzati altri due avamposti – Tobruk, nel distretto di Bala Baluk, e Tarquinia, nel distretto di Shouz – che si affiancano così a quello di Delaram, da tempo in funzione, nell’estrema propaggine meridionale della provincia di Farah al confine con la provincia di Hellmand. In vista delle elezioni del prossimo 20 agosto, tutto il dispositivo verrà rafforzato con l’invio di altri 400 soldati. In particolare, lo stato maggiore della Difesa ha deciso di inviare nel settore ovest un ulteriore battaglione di manovra, sempre della Brigata Folgore, ma la località esatta dove l’unità verrà schierata non è stata ancora resa nota. In più, a Farah saranno spostati una parte di elicotteri da combattimento Mangusta e da trasporto Chinook, attualmente di stanza a Herat, che assieme e tre elicotteri AB412, poi rimpiazzati da altrettanti AB205, ed un plotone del 66° reggimento della Brigata Friuli, formeranno un nuovo Aviation Battalion
 
 
 
 
 
 
 
AGI News
» 2009-05-09 16:45
 
 
 
MARINA MILITARE: IL ‘MOROSINI’ APRE A DONNE
 
 
 
VENEZIA – Anche il “Morosini”, la prestigiosa scuola della Marina militare di Venezia, non è più un forte del “machismo”. Dal 2010, prossimo anno scolastico, aprirà per la prima volta nei suoi 70 anni alle donne. La svolta, ugualmente ad altre scuole militari, come la “Nunziatella” di Napoli, era già prevista, inserita in quel processo che ha portato tutte le forze armate ad aprirsi al personale femminile. Oggi a Venezia, nel giorno del giuramento degli allievi del ‘Morosini’, è arrivata la conferma da parte del capo di Stato maggiore della Marina, ammiraglio Paolo la Rosa. “E’ un tabù che cade” ha ammesso l’alto ufficiale. “Forse le Forze Armate italiane – ha aggiunto – sono arrivate tardi, rispetto ad altri Paesi, ad aprire anche alle donne. Ma siamo più avanti come organizzazione”. Per l’anno scolastico 2009-2010 sono già in aumento le domande di partecipazione al bando di concorso (50 i posti disponibili) per accedere al “Morosini”. Un terzo di queste – non se ne conosce il numero – sono di ragazze. Per il primo anno, in ogni caso, dovrebbero essere solo cinque le allieve in gonnella del collegio navale veneziano, che ha assunto lo status di Scuola Militare nel 1998. L’estate scorsa erano iniziati i lavori di adeguamento della scuola, per poter ospitare anche le allieve. Tempo qualche mese, quindi, e tra le calli del centro storico lagunare i ‘birilli’, come da sempre vengono chiamati per il loro tipico e impeccabile abbigliamento gli studenti del Morosini, saranno tra affiancati da giovani e intraprendenti ‘birille’. I dirigenti del “Morosini” hanno già anticipato che quando la scuola militare sarà a regime con gli adeguamenti non ci saranno limiti nel numero di iscrizione delle ragazze. Presente sull’isola di Sant’Elena dal 1937, come “Collegio Navale della GIL”, l’Istituto ha assunto dal 1988 lo status di Scuola Militare ed accoglie studenti dell’ultimo triennio, sia del liceo classico che di quello scientifico. Una volta superate le prove psico-attitudinali e le visite mediche, per l’ammissione vengono presi in esame la media scolastica dell’ultimo anno ed il voto dei test di ammissione. In totale gli allievi della scuola sono 225, divisi in classi di 25 ciascuna. La giornata tipo degli studenti si svolge tra studio e sport, con un occhi attento alla vela e alla voga alla veneta. Alla fine dell’anno scolastico, per gli allievi dei primi due corsi è possibile salire a bordo della nave scuola “Amerigo Vespucci” o della “San Marco”, per una campagna di istruzione estiva in crociera nel Mediterraneo.
 
 
 
 
 
Da Il resto del Carlino
 
 
 
NEL CENTENARIO DEL NOBEL PER LA FISICA ALLO SCIENZIATO
Elettra Marconi inaugura il museo dedicato al padre Guglielmo
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Al grande scienziato è stato intitolato uno spazio che ospita una mostra sulla storia della radio, dalle prime sperimentazioni fino ad oggi. Madrina dell’evento la figlia, la Principessa Maria Elettra Giovanelli Marconi
Ancona, 7 maggio 2009 – In una cornice d’eccezione è stata inaugurata oggi la sala museale intitolata al ‘Contrammiraglio Guglielmo Marconi’ alla presenza dell’Ammiraglio di Divisione Mario Fumagalli, Comandante in Capo del Dipartimento Militare Marittimo dell’Adriatico.
All’interno della sala, che si trova ad Ancona in via Cialdini 1, è stata allestita una mostra attraverso la quale “si snoda – si legge in un comunicato – il viaggio nella storia della radio dalle prime sperimentazioni di Marconi fino ai nostri giorni con forti collegamenti con la Marina Militare e con la città di Ancona, da dove lo scienziato effettuò le trasmissioni dal Monte Cappuccini nel 1904. Un tributo al grande fisico che fu anche Ufficiale dell’allora Regia Marina e che a lungo collaborò con essa”. Alla realizzazione del museo hanno contribuito la Regione Marche, la Provincia e il Comune di Ancona
E’ stata predisposta per l’occasione anche una postazione promozionale della Marina Militare ed una postazione delle Poste Italiane Spa, cui hanno aderito al progetto predisponendo l’annullo postale per la circostanza. La figlia dell’illustre scienziato, la Principessa Maria Elettra Giovanelli Marconi, è stata la madrina dell’evento, alla presenza del Presidente della Fondazione ‘Marconi’ Prof. Gabriele Falciasecca e delle autorità civiche locali e militari.
‘’Sono molto legata alla Marina Militare – ha dichiarato Elettra Marconi – che è stata sempre il grande amore di mio padre. Questa celebrazione mi ha offerto l’opportunità di ritornare ad Ancona, che avevo avuto modo di apprezzare in una precedente occasione, e dove mio padre nel 1904 aveva sperimentato delle trasmissioni radio dal Colle dei Cappuccini. Egli amava profondamente l’Italia e ha sempre rifiutato le proposte di Usa e Gran Bretagna, che gli proponevano di cambiare cittadinanza”.
‘’Come un grande italiano” è stato invece ricordato dall’ammiraglio Fumagalli, che ha anche evidenziato come la spinta delle sue scoperte, derivasse dalla “volontà di salvare vite umane attraverso la trasmissione radio, messa a punto grazie alle navi, agli uomini e alle attrezzature della Regia Marina”.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Da la Nazione red. Siena
 
 
 
DA SIENA A KABUL
 
 
 
 
Folgore, missione per la pace Con il supporto on line de la Nazione
A presto ragazzi: i parà della Folgore partono per Kabul. Hanno salutato la città e il colonnello Zizzo ha chiesto aiuti per gli afgani. la Nazione regala ai militari l’accesso ai quotidiani on line, un canale aperto per far sentire il contignente vicino a casa
Siena, 7 maggio 2009 – I paracadutisti del 186esimo reggimento Folgore partono per l’Afganistan. Una missione di sei mesi – da oggi a Natale – a Kabul, dove saranno impegnati nel controllo del territorio. Il che, vista l’aria che tira da quelle parti, significa dover far fronte a ogni tipo di situazione. Motivo per cui il comandante del reggimento, il tenente colonnello Aldo Zizzo, pronuncia con una certa enfasi la parola ‘empatia’. “Saremo ospiti in casa d’altri – spiega – e dovremmo portare rispetto anche a usanze che potremmo non condividere”. E’ racchiuso in questo messaggio il senso di un impegno ‘duro e pesante’ (ancora parole di Zizzo), di fronte al quale i parà mostrano, come sempre, pochi timori e grande concentrazione.
Uomini scelti e addestrati per calarsi in una realtà lontana e difficile, dove la prima preoccupazione è passare per quel che si è: portatori di pace, di aiuti e di conforto, non nemici. Appunto, serve stabilire un’empatia con le popolazioni locali. Sei mesi, poi, sono lunghi e le difficoltà non mancheranno. Per i parenti rimasti a casa e per i paracadutisti aqquartierati a Kabul. E qui entra in gioco il grande affetto che da sempre lega le città dove i militari sono di stanza. Siena, sede del comando della Folgore, non è stata da meno e ieri ha schierato tutte le sue autorità alla cerimonia di saluto. Nella caserma di Santa Chiara, i militari hanno voluto mostrare il lato amichevole: interventi asciutti, poche parole e poi un gradito vin d’honneur a base di ravioli, verdure crude e tacchino arrosto.
Al fianco delle autorità, poi, si schiera la gente comune, quella che da oggi vivacizzerà il gruppo di supporto creato per dar manforte alle famiglie dei militari volati all’estero. Sei mesi saranno lungo anche per moglie e figli. Il comandante Zizzo ha invece chiesto alle autorità di contribuire ai progetti a favore della popolazione afgana. Nell’attesa, invece, c’è chi ha già deciso di schierarsi al fianco dei parà e aiutarli in questa dura missione.
E’ il nostro giornale che nell’anno in cui ricorrono i 150 anni dalla fondazione ha voluto donare una targa ricordo alla Folgore, ma soprattutto offrire ai militari l’accesso gratuito all’edizione on line di tutte le testate del gruppo editoriale. Un modo pratico per far sentire il contingente un po’ più vicino a casa. L’annuncio lo ha dato ieri a Siena il vice direttore de La Nazione, Mauro Avellini, intervenendo alla cerimonia di saluto. “Ci sono molte affinità fra i parà e il nostro giornale – ha detto Avellini – siamo entrambi portatori di valori importanti per il nostro Paese”.
Guarda le immagini del saluto alla città
 
 
 
 
 
 
 
Il Giornale di Vicenza 06/05/2009
 
 
 
 
 
L’emergenza è finta. Test a camp Ederle
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
L’ESERCITAZIONE.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Questa mattina viene inaugurato il nuovo centro operativo della caserma americana, che ospita una prova organizzata con la prefettura Il col. Daiga: «Prova del nostro impegno per la sicurezza» Il Presidio: «Dimostra che le caserme sono un pericolo»
 
 
 
 
 
 
 
 
Veduta aerea della caserma Ederle e dei terreni di via Aldo Moro. COLORFOTO ARTIGIANA
 
 
 
 
 
Vicenza. Il nuovo centro operativo della caserma Ederle è stato aperto lunedì e già oggi verrà usato per un’esercitazione che ha come obiettivo quello di testare la collaborazione operativa tra la comunità americana e gli organismi italiani di pronto intervento nel far fronte ad una situazione d’emergenza.«Il nuovo centro operativo è prova tangibile dell’impegno dell’esercito statunitense nel salvaguardare la sicurezza pubblica – dichiara il colonnello Daiga, comandante della guarnigione -. La sua attrezzatura moderna e il suo personale altamente qualificato miglioreranno ulteriormente la nostra collaborazione operativa con le agenzie italiane in risposta ad una situazione di emergenza».Il centro operativo è simile al centro coordinamento soccorsi della prefettura di Vicenza: presenta postazioni di lavoro con telefoni e computer per il personale appositamente designato per fornire ai leader informazioni critiche in tempo reale che li aiuteranno a rispondere velocemente ed efficacemente ad una situazione d’emergenza. L’esercitazione di oggi prevede la presenza di due rappresentanti della prefettura e quattro medici dell’ospedale San Bortolo.Ogni anno la caserma Ederle organizza anche un’esercitazione di difesa civile, denominata “Lion Shake”, diretta dalla prefettura. Nel 2008 la comunità americana ha lavorato congiuntamente agli organismi italiani locali delle forze dell’ordine, di intervento tecnico e sanitario nello svolgimento della decima edizione di “Lion Shake”. A differenza del “Lion Shake” che prevede la presenza di molti partecipanti e veicoli d’emergenza, l’esercitazione di oggi viene denominata una prova “table-top” (per posti di comando), durante la quale tutto il personale interessato si troverà nel nuovo centro operativo per testare una serie di procedure d’intervento per lo più al computer.
 
 
 
 
Polemici i No Dal Molin: «Il col. Daiga ha poco da rassicurare l’opinione pubblica – si legge in un comunicato del Presidio permanente – le emergenze bisogna prevenirle, non curarle. Il fatto che domani, all’interno della caserma Ederle, si terrà un’esercitazione d’emergenza mette in luce che le installazioni militari statunitensi non sono affatto prive di rischi; altrimenti, a che servirebbe l’esercitazione? E, del resto, ricordiamo bene l’incidente di un anno fa all’oleodotto Nato, che causò lo sversamento di cherosene nei fiumi».
 
 
 
 
 
RIENTRATA A PISA LA BANDIERA DI GUERRA DELLA 46^ BRIGATA AEREA
 
 
 
 
 
Martedì 5 maggio gli onori militari al vessillo simbolo del reparto che si trovava da circa due mesi presso la base di Herat in AfghanistanMagg. Giorgio Mattia – 46^ Brigata Aerea – Pisa del 05/05/2009
Alle ore 11,15 di martedì 5 maggio un picchetto armato ed una rappresentanza del Reparto di Volo pisano hanno reso gli onori militari alla Bandiera di Guerra della 46^ Brigata Aerea che è atterrata sulla pista dell’aeroporto militare di Pisa ‘S. Giusto’, trasportata a bordo di un velivolo C-27J del 98° Gruppo di Volo. Ad accompagnare la bandiera, il comandante della 46^ Brigata Aerea, generale di brigata aerea Vitantonio Cormio. Il vessillo aveva lasciato l’Italia alla volta dell’Afghanistan domenica 1° marzo per essere esposta nell’ufficio del Comandante della Joint Air Task Force (JATF). Al Regional Command West (RC-W) di Herat era giunta accompagnata dal generale di divisione aerea Gian Franco Camperi, Capo di Stato Maggiore della Squadra Aerea, e dal generale Cormio (per vedere la news dell’evento clicca qui).Ad Herat la 46^ Brigata Aerea opera con una cellula di velivoli C-130J che si alternano, a partire da settembre 2008 con i velivoli C-27J. Gli aerei operano nella cellula denominata Task Group ‘Albatros’, dipendente dalla JATF, la componente aerea del RC-W della missione NATO International Security Assistance Force (ISAF) in Afghanistan.La Bandiera di Guerra della 46^ è la più decorata tra i Reparti dell’Aeronautica Militare Italiana ed in particolare ha ricevuto, nel tempo, le seguenti onorificenze:1943 – Medaglia d’Oro al Valor Militare1945 – Croce di Guerra al Valor Militare1992 – Medaglia d’Oro al Valor Aeronautico1996 – Croce d’Argento al Merito dell’Esercito2003 – Decorazione di Cavaliere dell’Ordine Militare d’Italia2008 – Medaglia d’Oro al Merito CivileUna Bandiera di Guerra (o bandiera militare) è una variante della bandiera nazionale utilizzata dalle forze militari basate a terra, comprese le forze aeree. L’equivalente navale, spesso una versione più grande delle Bandiere da Guerra da esporre sulle navi, viene chiamata Insegna di Battaglia. In Italia le bandiere di Guerra sono affidate agli Enti militari, agli Stati Maggiori dell’Esercito Italiano, della Marina Militare, dell’Aeronautica Militare, al Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri ed ai Corpi Armati dello Stato (Guardia di Finanza, Corpo Militare della Croce Rossa Italiana e Corpo Militare Ausiliario dell’Esercito Italiano – Sovrano Militare Ordine di Malta).
 
 
 
 
La Bandiera di Guerra presenta delle caratteristiche particolari rispetto alle normali bandiere:- Freccia: costituisce la parte superiore dell’asta; presenta il simbolo della Repubblica Italiana, l’incisione del nome dell’ente/reparto, l’anno in cui è stata rilasciata, e il nome di un eventuale donatore. – Asta: Ricoperta di velluto verde, con delle bullette che avvolgono a spirale la lunghezza dell’asta.- Drappo: In seta di forma quadrata, di grandezza 99x99cm, di colore verde, bianco e rosso (33cm per colore), eccezion fatta per la bandiera di guerra della Marina Militare che presenta al centro della parte bianca lo stemma delle quattro Repubbliche Marinare, coronate. – Fiocco: in seta di colore blu largo 8cm e lungo 68cm. È ricoperto di nero in caso di lutto. – Cordoncino argentato: legato insieme al fiocco tra la freccia e l’asta. Ha una lunghezza di 68 cm. Le bandiere di guerra sono custodite nell’ufficio del Comandante dell’ente a cui appartengono, alla sua destra, e a questa vanno tributati i massimi onori e in caso di spostamenti trattata in modo speciale. Va difesa dai militari fino all’estremo sacrificio.
 
 
 
 
 
Published on Tempi (http://www.tempi.it)
 
 
 
 
 
 
 
 
Nel deserto dei talebani
di Samuele Sanvito
 
 
 
 
 
 
 
 
Viaggio a Herat e Farah, fra le regioni più critiche dell’Afghanistan, con un gruppo di parlamentari italiani al seguito delle nostre truppe. Ecco cosa vuol dire ricostruire la vita dove la vita è a rischio in ogni istante
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Da Herat
 
 
 
 
 
 
 
Herat, domenica 3 maggio. L’Hercules C130 inizia le procedure di atterraggio. Piove a dirotto, e quando l’aereo finalmente sbuca dalle nuvole, il pilota si accorge di essere oltre la pista. Dà furiosamente gas per far riprendere quota al bestione, virata secca di 360 gradi, e riprova. Questa volta, scombussolati, atterriamo. Intanto a terra, proprio durante quei minuti di tensione in cui i passeggeri del velivolo militare si aggrappavano alle cinture di sicurezza con lo stomaco sottosopra, a circa tre chilometri dall’aeroporto una pattuglia di soldati italiani stava osservando una Toyota Corolla station wagon bianca (statisticamente il modello più utilizzato negli attentati terroristici) farsi incontro al blindato a velocità sostenuta. Troppo sostenuta. Partono le procedure abituali: un gesto, il clacson, il lancio di un razzetto di avvistamento. Niente, l’autista sembra non intendere. Oppure ha inteso benissimo e sa quel che fa. I militari sparano in aria, poi sul ciglio della strada. Alla fine sparano sul cofano. E l’auto si ferma. A bordo l’afghano alla guida e due donne guardano storditi il corpo senza vita della bambina di 13 anni, centrata da un proiettile e morta sul colpo.Inizia con la notizia di questo tragico incidente la visita di alcuni parlamentari italiani in Afghanistan, guidata dal vicepresidente delle Camera Maurizio Lupi e fortemente voluta da Gianfranco Paglia, ex parà della Folgore, medaglia d’oro al valore per aver pagato con la perdita dell’uso delle gambe la salvezza dei commilitoni in Somalia. Si avverte subito che la vita non è semplice qui. I nostri militari sono stanziati principalmente a Herat e Farah, due fra le regioni più critiche del paese, e anche se la missione è di carattere umanitario, ogni situazione può nascondere un’insidia letale. Il generale Rosario Castellano, comandante del Rc-West, reduce da Somalia, Kosovo e Iraq, ammette che questa è la missione più difficile della sua carriera. In Afghanistan servono uomini che sappiano rispondere al fuoco nemico.Lasciato Camp Arena, la base di Herat, dopo la Messa delle 10, veniamo caricati quattro alla volta su grandi fuoristrada blindati e partiamo per la città. Ci si presenta agli occhi uno spettacolo disumano. Le case e gli altri edifici, costruiti in prossimità della strada, sono nudi container o sono costruiti con fango e paglia. E non hanno finestre. Non ci sono fogne, a parte i canali di scolo ai lati della strada. Qui si vive come bestie. Nel fango se piove, nella polvere se c’è il sole. La scorta ci accompagna all’ospedale pediatrico di Herat, frutto del lavoro del Prt gestito dagli italiani e guidato dal professor Marco Urago, che spiega a Tempi che «in Afghanistan l’aspettativa di vita dei bambini è un dramma. Su mille bambini ne muoiono 165 alla nascita e un quinto non arriva ai 5 anni». L’ospedale “italiano” di Herat oggi accoglie più di cento bambini. È qui che raggiunge la delegazione Mohammad Rafiq Mojaddadi, il sindaco della città. A Tempi Mojaddadi dice che «la presenza dell’esercito italiano a Herat è vista come la presenza di un popolo fraterno, disponibile ad aiutarci concretamente. Gli italiani ci danno una mano a diffondere la sicurezza e stabilire la pace». Quanto al futuro del paese, il sindaco sceglie il basso profilo di chi ha visto troppi sforzi crollare e troppe ambizioni restare deluse: «L’unica cosa che possiamo fare per riunire il paese e favorirne lo sviluppo è costruire giorno per giorno rispetto alle esigenze che ci sono».Si rientra a Camp Arena dopo cena, al buio. Durante il tragitto riusciamo a scucire qualche parola ai nostri angeli custodi in tuta mimetica. Salvo, 25 anni, battaglione San Marco (i marines italiani), è armato fino ai denti. Dice che non c’è un motivo preciso per cui abbia deciso di entrare nell’esercito. È meridionale, come la maggior parte di questi soldati. Fin da piccolo desiderava far parte delle missioni militari. E poi così si guadagna da vivere. Di Canio, invece, lavora all’ufficio stampa dell’esercito. A ogni spostamento scatta foto e gira video. Ma i commilitoni dicono che è il più bravo paracadutista in circolazione: più di tremila lanci. In prossimità della base fa spegnere macchine fotografiche e telecamere. A volte – spiega – certe immagini possono diventare importanti informazioni per i terroristi afghani.Una volta tornati alla base sani e salvi, si tira un sospiro di sollievo e ci si leva giubbetto antiproiettile ed elmetto. I soldati, dietro alle torce, perlopiù si dirigono all’internet point e ai telefoni. A casa ci sono mogli e figli da sentire, da tranquillizzare. Da guardare in videoconferenza.Il mattino seguente saliamo a bordo di due elicotteri Ch-47. Destinazione Farah, nel sud dell’Afghanistan, teatro se possibile ancora più delicato di Herat. I soldati prendono il loro posto: due gunners alle mitraglie davanti, uno a quella dietro. Si vola con il portellone abbassato. Sorvoliamo le piantagioni di oppio, mentre i nostri soldati confessano che il compito più difficile che è stato affidato loro è proprio convincere i contadini a sostituire l’oppio con altre coltivazioni, soprattutto lo zafferano. I terroristi – spiegano – regalano i bulbi di tulipano ai contadini, che devono solo piantarli e annaffiarli, mentre al raccolto ci pensano direttamente i guerrasantieri, perciò con poco sforzo il guadagno è assicurato.Intorno a Farah c’è solo deserto. Qui il campo è in costruzione e ci opera uno dei più famosi battaglioni dell’esercito italiano: il 187esimo reggimento paracadutisti della Folgore. La prima cosa che visitiamo è la tenda del colonnello Gabriele Toscani, dove è issata la bandiera ereditata dal secondo reggimento che fece la battaglia di el Alamein (sopra sono appuntate le medaglie del battaglione, tra cui anche quella d’oro per el Alamein, 1942). Dopo il breefing coi soldati pranziamo nella tenda con loro. Al nostro tavolo c’è il maggiore Di Masi. Sposato, due figli, durante l’ultima missione ha dovuto abbandonare il campo perché il suo bambino ha iniziato a stare male per la mancanza del padre: quando i figli iniziano a crescere – dice – vedono i telegiornali e si rendono conto di dove sono e cosa fanno i loro papà. Alle 14 gli elicotteri riaccendono i motori. Il 187esimo saluta gli onorevoli italiani a suo modo, come fa da sempre, al grido di «Folgore!».
Source URL: http://www.tempi.it/prima-linea/006607-nel-deserto-dei-talebani
Links:[1]http://www.tempi.it/files/pdf/Dossier_Tav.pdf[2] http://www.tempi.it/galleria_immagini/006620-nel-deserto-dei-talebani[3] http://www.tempi.it/files/pdf/Dossier_Tav.pdf[4]
 
 
 
 
 
 
http://www.tempi.it/006606-perch-la-strategia-obamiana-non-promette-bene[5] http://www.tempi.it/006605-l-ispiratore-della-spedizione-dei-deputati
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il Giornale.it n. 107 del 2009-05-05 pagina 7
 
 
 
 
 
 
 
 
Anniversario Oggi festa per l’esercito, i militari «soffiano» su 148 candeline
 
 
 
 
 
 
 
di Daniele Carozzi
L’esercito festeggerà a Milano i 148 anni della sua fondazione con due eventi: la cerimonia ufficiale, prevista oggi al Sacrario e lo spettacolo all’Auditorium comunale domani sera, con musica, danza artistica e premiazioni. Alle 10 di questa mattina sarà officiata da monsignor De Scalzi, nella basilica di Sant’Ambrogio, la messa in ricordo dei caduti e, al termine, una corona d’alloro verrà deposta al Sacrario militare dove sono tumulate le salme di 5mila milanesi che hanno perduto la vita durante le guerre. Oltre alle autorità militari rappresentate dal generale Gian Marco Chiarini, comandante del Corpo d’Armata di Reazione Rapida, e dal generale Camillo de Milato comandante dell’esercito Lombardia, sono attesi alla celebrazione il sindaco di Milano Letizia Moratti, il presidente della Provincia Filippo Penati e il presidente della Regione, Roberto Formigoni. Domani alle 20 e 30, all’Auditorium comunale di largo Mahler, la ricorrenza assumerà invece il tono di una vera e propria festa grazie all’intervento delle star dei musical di Riccardo Cocciante, Fabrizio Voghera e Gian Marco Schiaretti, il cantautore Rosario Morisco, protagonista al festival di Sanremo 2008, il gruppo swing Blue Dolls e i ballerini Anikò Pustzai e Alejandro Ferrante. Lo spettacolo, condotto da Angela Calvini e Tony Martucci, vedrà anche la premiazione dell’editrice Fiorenza Mursia, dell’architetto Alberto Artioli e del vicepresidente della Regione Lombardia, Gianni Rossoni. Altri premi, per varie motivazioni, saranno consegnati a Emilio Fede, Michelle Hunziker, Giulia Bongiorno, Anna Tatangelo e al maestro Vince Tempera per i suoi 40 anni di carriera.
© SOCIETÀ EUROPEA DI EDIZIONI SPA – Via G. Negri 4 – 20123 Milano
 
 
 
 
 
 
 
 
«ESERCITO: COMPIE 148 ANNI, CELEBRAZIONI A TRIESTE»
 
 
 
 
 
 
 
(AGI) – Trieste, 4 mag. – L’Esercito ha celebrato oggi a Trieste il suo anniversario, in ricordo di quel 4 maggio 1861 quando veniva abolita l’antica denominazione di Armata Sarda e sorgeva l’Esercito Italiano. La cerimonia, organizzata dal Comando Militare Esercito del ‘Friuli Venezia Giulia’ per il 148′ anniversario della costituzione dell’Esercito Italiano, si e’ svolta nella bellissima cornice di villa ‘Necker’ a Trieste, sede del Comando militare regionale, alla presenza del Comandante Militare Regionale Generale di Brigata Andrea CASO, di numerose autorita’ civili e militari ed ai rappresentanti delle associazioni combattentistiche e d’arma regionali. Nel pomeriggio al Circolo Ufficiali e’ stata consegnata una medaglia commemorativa a Lucia Oddo, vedova del Magg. Stefano Rugge deceduto in missione di pace in Macedonia nel 2002. Nel Friuli Venezia Giulia vi e’ una presenza di circa 10.000 uomini e donne dell’Esercito. I militari sono effettivi presso il Comando Militare Esercito, nelle sedi di Trieste e Udine, presso la Brigata Ariete (Pordenone), la Brigata ‘Julia’ (Udine), la Brigata Pozzuolo del Friuli (Gorizia), il Comando Brigata Genio (Udine), il 5′ Rigel (Casarsa della Delizia), il 7′ Reggimento Trasmissioni (Sacile) e presso l’8′ Reggimento Trasporti (Remanzacco). La Brigata Alpina ‘Julia’ e’ appena rientrata dalla missione di pace in Afghanistan, mentre la Brigata Pozzuolo del Friuli e’ in fase di rientro dal Libano dove verra’ sostituita dalla Brigata Corazzata Ariete. (AGI)
Cli/Ts/Pgi
 
 
 
 
 
 
 
Esercito: spedizione sul Monte McKinley
 
 
 
 
 
 
 
Il 25 maggio è prevista la partenza della spedizione sul Monte McKinley, via Cassin Ridge; il Monte McKinley, con una altezza di 6.194 metri sul livello del mare, è la vetta più elevata dell’America settentrionale; fa parte della grande catena dell’Alaska e per prominenza può essere considerata la terza montagna del mondo.La spedizione rappresenta una “joint venture” di Esercito, Regione Valle d’Aosta e Guide Valdostane: all’impresa, che avrà la durata di 25 giorni, parteciperanno infatti due caporali dell’Esercito Italiano, Arco Farina ed Elio Andreola, e due alpinisti valdostani, Marco Camandona e Matteo Giglio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
In Afganistan è successo un brutto incidente Basco Grigioverde esprime il suo cordoglio ai parenti della piccola vittima, è vicino a tutti i militari attori dell’increscioso fatto, ma si sottrae da quello che sarà la purolenta fogna mediatica che accompagnerà la vicenda nei prossimi giorni, per cui riporta solo quanto dichiarato dal ministro FRATTINI. In Italia il ministro degli esteri Franco Frattini ha appreso con “profondo sgomento” la notizia del tragico incidente. “L’impegno italiano in Afghanistan – ha detto – resta rivolto al ristabilire la stabilità e la sicurezza della regione a vantaggio del benessere della popolazione civile afghana”.
 
 
 
 
 
 
 
Afghanistan/ Parà italiani scoprono deposito di armi
di Apcom
Importante operazione esercito afgano con supporto Folgore
 
 
 
 
 
 
 
 
–>Roma, 28 apr. (Apcom) – Oggi, nel corso di una importante operazione che ha visto impegnato l’esercito afgano con il supporto dei paracadutisti della Folgore, in un villaggio a circa 30 Km a nord-est di Farah, è stato rinvenuto un grosso quantitativo di esplosivi ed armi. Il materiale, che è stato sequestrato e verrà distrutto, era pronto per la fabbricazione di ordigni esplosivi o autobombe. Sempre oggi, a Bala Morghab, un villaggio a circa 120 chilometri a nord di Herat, nel corso di una “shura”, l’incontro dei vari capi tribù, al quale ha partecipato anche il generale Rosario Castellano, comandante della Regione Ovest, quattro insorti si sono presentati spontaneamente per consegnare alcuni fucili. Il gesto, chiaramente simbolico, può essere interpretato come un segnale positivo nel processo di stabilizzazione dell’area, e sembra indicare la volontà di trovare una via pacifica alla soluzione dei conflitti. –>
 
 
 
 
 
 
 
Sabato terzo raduno regionale delle Forze Armate
L’esercito marcia su Brescia
 
 
 
 
 
 
 
 
di MILLA PRANDELLI-
 
 
 
 
 
 
 
BRESCIA 2009-04-29
 
 
 
 
 
 
 
di MILLA PRANDELLI- BRESCIA -ARRIVERANNO A BRESCIA a migliaia per celebrare la loro passata e attuale appartenenza alle Forze Armate, ma soprattutto per testimoniare il loro amore per la Patria e per la divisa. La Leonessa d’Italia sabato e domenica ospiterà il terzo raduno regionale delle associazioni combattentistiche e d’arma, i cui componenti, insieme ai bresciani e alle autorità militari e civili, ricorderanno il 148esimo anniversario della fondazione dell’Esercito Italiano e il 160esimo anniversario delle Dieci Giornate di Brescia. «PER LA PRIMA volta – spiega il generale di Brigata Camillo de Milato, comandante militare dell’Esercito in Lombardia – abbiamo scelto di portare il raduno a Brescia per l’importanza che riveste nella Regione Lombardia e per il forte senso d’amore che ha sempre espresso per l’Esercito». La due giorni bresciana sarà intensa. Sabato mattina alle 10 si svolgerà un convegno intitolato “Il risorgimento italiano con riferimento a quello bresciano”, dove illustri nomi parleranno di una dei più significativi momenti del Belpaese. Alle 17 un momento che non mancherà di attrarre anche i più piccoli perché molti paracadutisti saranno lanciati sopra la città e atterreranno a Campo Marte. La sera, infine, 7 fanfare militari si esibiranno in piazza Loggia o, in caso di cattivo tempo, all’auditorium San Barnaba. Il cuore delle manifestazioni, è previsto per domenica mattina quando migliaia di persone si raduneranno in piazzale Arnaldo per poi sfilare fino a piazza Duomo e partecipare alla Santa Messa. Per l’occasione saranno presenti il comandante generale di Brigata Camillo de Milato, il presidente del comitato organizzatore generale Mario Sciuto, il presidente della Provincia Alberto Cavalli e il sindaco di Brescia Adriano Paroli. ALLE 11 SI terrà la cerimonia ufficiale, che prevede l’alzabandiera e gli onori ai caduti per la Patria, che saranno resi da un picchetto fornito dal comando militare Esercito Lombardia di Milano e scanditi dalle note delle fanfare presenti. A Brescia sono attese, per l’occasione, migliaia di persone, anche perché in ambito regionale le associazioni combattentistiche e di Arma contano ben 120mila iscritti, da sempre vicini alle Forze Armate e alla popolazione, come ha spiegato il generale di brigata de Milato, sottolineando, per esempio l’altruismo dell’Ana (Associazione nazionale Alpini) di Brescia, che aiuta con donazioni e raccolta di materiale i bambini dell’Afganistan, ma anche l’operato degli uomini e delle donne che «quotidianamente si misurano con sfide sempre nuove per servire al meglio la collettività». Le celebrazioni si concluderanno martedì 5 maggio a Milano con una serata di gala.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
«LA FORZA, l’amore e la saggezza di Nicola Ciardelli rivivono grazie all’associazione che porta il suo nome, lui è un antidoto a questa spirale di violenza….
di FEDERICO CORTESI
2009-04-28di FEDERICO CORTESI«LA FORZA, l’amore e la saggezza di Nicola Ciardelli rivivono grazie all’associazione che porta il suo nome, lui è un antidoto a questa spirale di violenza. Il messaggio del suo sacrificio è di amore, fraternità e servizio».
 
 
 
 
 
 
 
Parole toccanti quelle dell’ex arcivescovo Alessandro Plotti pronunciate durante la toccante omelia alla messa celebrata ieri mattina sul piazzale El Alamein della caserma «Gamerra» per commemorare il terzo anniversario dell’attentato di Nassiriya in cui perse la vita il trentaquattrenne maggiore dei paracadutisti della Folgore, che pochi giorni prima era diventato padre di Niccolò. Il battesimo del bambino venne celebrato proprio da monsignor Plotti nella chiesa di San Nicola insieme ai funerali dell’eroico ufficiale.
 
 
 
 
 
 
 
DOPO LA CERIMONIA, alla quale hanno partecipato le massime autorità locali, si è svolto un nutrito programma di iniziative promosse dall’associazione Nicola Ciardelli Onlus alla «Gamerra» dove ha sede il Centro Addestramento Paracadutisti. Dopo la presentazione del libro «Dal Libano all’Iraq», scritto dal capitano Vincenzo Zampella e un convegno su «Gli impegni di pace delle Forze Armate italiane all’estero», coordinato dal professor Maurizio Vernassa (Università di Pisa), sono state fatte anche alcune ascese con una mongolfiera, fissata a una corda nel piazzale della caserma, sulla quale sono stati fatti salire i bambini. Proprio per l’iniziativa in ricordo di Ciardelli la «Gamerra» ha aperto le porte alle cittadinanza che ha potuto così visitare anche il museo della Folgore. IL PROGETTO primario dell’Associazione Nicola Ciardelli Onlus – presieduta dalla sorella Federica – è «La casa dei bambini di Nicola». Al momento la casa è una – ma presto si spera possano aggiungersi altri immobili – : si tratta di un grande cascinale su due livelli (per complessivi 800 mq), situato sulle colline di Careggi, a Firenze, messa a disposizione dalla Croce Rossa Italiana, dove sarà realizzato un centro terapeutico per bambini bisognosi di cure da tutto il mondo, con camere o mini-appartamenti. I lavori dovrebbero iniziare entro l’anno e l’attività partire non oltre il 2010. All’iniziativa collaborano anche l’ospedale pediatrico Mayer e la Regione Toscana.
 
 
 
 
 
 
 
Il Giornale.it n. 95 del 2009-04-21 pagina 6
 
 
 
 
 
 
 
 
Partigiani disertori «No al corteo che ricorda la Rsi»
 
 
 
 
 
 
 
di Gianandrea Zagato
Melegnano, i reduci contestano il sindaco Bellomo che invita «alla pacificazione e non alla divisione»
Ancora una volta c’è l’imbarazzo della scelta. Degli insulti, naturalmente. E pure degli slogan deliranti e tragici frutto di una strumentalizzazione politica giocata nelle strade e nelle piazze del 25 aprile.Accade a Melegnano, dove il Pd tradisce lo spirito della giornata e non abbandona il cliché della retorica pomposa e vacua dell’antifascismo militante. Motivo? Tre righe di una lettera di un soldato della Repubblica sociale condannato a morte che il sindaco Vito Bellomo ha pubblicato sul manifesto dedicato al 25 aprile insieme alle parole di un partigiano. Risultato? Insulti, indignazione e l’Anpi che decide di non partecipare alla manifestazione.Ma leggiamo l’ultimo saluto scritto dal giovane milite della Rsi poche ore prima della fucilazione senza processo: «…li perdono: perdonateli anche voi! Noi abbiamo tentato seguendo una strada, altri seguendone un’altra. Faccia Iddio che il sangue versato da entrambi non abbia invano bagnato la terra». Testimonianza, ultima testimonianza che – insieme al messaggio scritto dal partigiano – il sindaco e la giunta di Melegnano hanno titolato “25 aprile, non odio ma amore per l’Italia”». Troppo, evidentemente. «Provo vergogna per la giunta» commenta Nicola Borzi, portavoce Pd, mentre Fabio Raimondo, assessore alle politiche giovanili osserva che «citare quelle due frasi significa volere unire tutta la cittadinanza, invitarla a scendere in piazza con il tricolore e non con le bandiere rosse».Un gesto, una volontà che ha provocato la scelta del Pd «di strumentalizzare questa ricorrenza» e la decisione dell’Anpi di disertare «probabilmente ricattata dalla sinistra» spiega il sindaco Bellomo. «Noi volevamo festeggiare la libertà e la democrazia, rilanciare i valori che sono alla base della costituzione» aggiunge il primo cittadino documentando come fosse idea condivisa anche dall’associazione partigiani quella di «celebrare insieme la “pacificazione nazionale”».E, allora, rileggiamo anche la testimonianza del partigiano riportata sui manifesti affissi nel Comune di Melegnano: «… muoio per la mia Patria, spero che il mio esempio serva ai miei compagni… perdono coloro che mi giustiziano perché non sanno che l’uccidersi tra fratelli non produrrà mai la concordia». Già, per i pasdaran dell’antifascismo è sempre meglio dividere che unire.
 
 
 
 
 
 
 
gianandrea.zagato@ilgiornale.it
 
 
 
 
 
 
 
 
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Giano Accame, celebrati a Roma i funerali
Posted By Redazione On 18 Aprile 2009 @ 14:59 In 3, Cronaca, Loano.
 
 
 
 
 
 
E’ arrivato avvolto dalla bandiera della Repubblica Sociale Italiana il feretro del giornalista e intellettuale Giano Accame, per il quale oggi si sono svolti i funerali nella chiesa di Santa Maria della Consolazione a Roma. Decine le personalità politiche e intellettuali ai funerali dell’ex direttore del Secolo d’Italia.
Tra le corone di fiori, ai due lati dell’altare, quella del presidente della Camera Gianfranco Fini e del sindaco di Roma Gianni Alemanno, che ha partecipato alla cerimonia seduto sulla panca in prima fila, assieme alla moglie Isabella Rauti. Oltre a Rita, moglie di Giano Accame, i figli Barbara, Zini e Nicolò.
“Ha sempre rispettato l’altro, che non considerava né nemico né avversario – ha detto durante l’omelia il rettore della chiesa padre Alberto Beltrando – il suo occhio introspettivo poteva anche fare paura ma aveva dentro un’oasi di pace”. Tra gli intellettuali e giornalisti presenti, Marcello Veneziani, Gino Agnese, Giampiero Mughini, l’editore Giuseppe Ciarrapico e tanti politici esponenti della destra e del Pdl come Francesco Storace, Teodoro Buontempo, Marco Marsilio, gli assessori capitolini alla Cultura Umberto Croppi e allo sport Alessandro Cochi.
La bara è uscita dalla chiesa al suono dell’inno di Mameli suonato da una piccola orchestra in chiesa, poi, all’esterno decine di braccia alzate per il saluto romano al grido di “Camerata Giano Accame, presente”. La salma sarà tumulata a Loano.
 
 
 
 
 
 
 
Da Il Tempo.it
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Giano Accame, ultimo ragazzo di Salò
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Addio all’intellettuale di destra amato a sinistra. Esempio di coerenza e democrazia
Schivo com’era non mi aveva fatto sapere niente della sua malattia. Sicché alla sua morte non ero neppure lontanamente preparato, tanto che contavo di andargli a fare visita tra qualche giorno. Non mi sorprende pensandoci adesso che non c’è più: Giano Accame era fatto così. I suoi dolori privati (e quanti ne aveva avuti!) se li teneva per sé come se provasse fastidio a coinvolgere gli amici nelle sue pene, a farli partecipi di ciò che poteva turbarli. Era un uomo antico che manifestava con parsimonia i suoi sentimenti, la delicatezza del suo animo, le intime gioie come le sofferenze più acute. E soprattutto era votato ad una impersonalità attiva che lo portava a privilegiare la diffusione delle idee, la conoscenza, una certa visione del mondo e della vita piuttosto che la rappresentazione di se stesso. Perciò con coerenza non cercava il proscenio, ma piuttosto i sentieri impervi che lo portavano di frequente laddove non c’era nessuno, uno spazio ideale e culturale che ha dovuto faticare non poco per far uscire dall’ombra. L’attraversamento del bosco, metafora jungeriana alla quale Accame era particolarmente affezionato, gli ha fatto incontrare i suoi simili e coloro che erano profondamente diversi da lui. Con tutti è riuscito, in sessant’anni di attività intellettuale e politica, a stabilire un dialogo che superasse le lacerazioni proprie della modernità fino a trovare sintonie quasi irreali in un modo dominato dalle apparenze. È stato così che s’è imposto, nonostante le diffidenze dominanti, all’ammirazione di coloro che non ha mai reputato nemici e neppure avversari, ma soltanto di opinioni dissimili dalle sue. E per questa via, certamente non agevole, forse più di altri della sua generazione ha contribuito alla legittimazione di quella che può darsi impropriamente chiamavamo “cultura di Destra” al tempo delle contrapposizioni radicali e delle feroci discriminazioni civili. Ma il cosiddetto “superamento degli steccati” per Accame non è mai stato l’alibi per annacquare le proprie idee, per contrabbandare la sua particolare concezione della storia e soprattutto la percezione che aveva interiorizzato del Novecento. Si metteva all’ascolto e riusciva a cogliere le contraddizioni degli interlocutori più attrezzati, ma in buona fede, volgendoli a vantaggio della cultura dei “vinti”, degli esclusi, di coloro che non avrebbero mai dovuto avere cittadinanza nell’Italia egemonizzata dall’ideologia marxista ed azionista. A dire la verità, le definizioni non piacevano molto ad Accame il quale, da intellettuale raffinato, era capace di intendere le ragioni degli altri, di storicizzarle, di farle confluire nel grande mare di una cultura nazionale da ricomporre pena la fine della stessa idea di nazione. C’era un’ansia pacificatrice in Accame, insomma, che non si esauriva nell’attività di giornalista, di saggista, di animatore culturale, di agitatore di questioni “cruciali”, di rivisitatore di autori scomparsi dai cataloghi dei grandi editori, di raccontatore di avventure dello spirito prima che delle idee come la Rivoluzione conservatrice tedesca, il “fascismo immenso e rosso” che non coincideva con quello storico, di un “socialismo tricolore” tutto da inventare quale pilastro di una nuova rivoluzione che conciliasse solidarietà e libertà, mercato e comunità, istanze individuali e bisogni collettivi. Un’ansia che si profondeva soprattutto nel cercare tra le pieghe della vicenda nazionale le ombre di una grandezza perduta non in chiave sciovinistica, quanto per dare un senso all'”unità di destino” che un Paese deve necessariamente avere se non vuole rinunciare ad essere soggetto storicamente rilevante. Quando nel 1980 gli chiesi di scrivere la prefazione al mio saggio su Carlo Costamagna, suo amico e maestro, fu particolarmente felice perché l’occasione gli parve propizia a saldare un vecchio debito di riconoscenza con uno dei più grandi pensatori del Novecento, ma anche perché, attraverso lo studioso ligure, poteva dimostrare quanto la cultura italiana fosse immersa in quella europea capovolgendo l’assunto secondo il quale era invece estranea ad essa. E dunque la rivendicazione della continuità tra le esperienze intellettuali degli anni Trenta e la modernizzazione di un pensiero “tradizionalista” ben presente nel dopoguerra italiano è stata per Accame quasi una sorta di missione tesa a “gettare” i semi di una rinascita politica attraverso la fioritura del dibattito intellettuale. A tal fine fu vicino, negli anni Settanta, alla corrente culturale della Nuova Destra; diresse con questo spirito il “Secolo d’Italia” dal 1988 al 1991; scrisse libri che hanno lasciato il segno; sostenne dibattiti sulla modernizzazione delle istituzioni fedele a quel presidenzialismo colto a piene mani dalla collaborazione con Randolfo Pacciardi ed il movimento Nuova Repubblica. L’eredità di Accame è nella sua opera, ma anche nell’esempio offerto alle generazioni più giovani. A ottant’anni era un vecchio ragazzo, fedele agli ideali della sua giovinezza e ad una storia che viveva nelle sue carni. Non dimenticherò le pieghe amare sul suo volto quando si sentiva tradito da coloro nei quali aveva riposto fiducia. E ricorderò sempre il suo sorriso quando scopriva le sue verità nelle parole di chi gli era lontano. Ci mancherà come può mancarci un maestro perduto.
17/04/2009
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Cultura. Morto Giano Accame, addio al grande intellettuale.
 
 
 
 
 
 
 
 
Alemanno: per me è stato un maestro
 
 
 
 
 
 
 
 
 
giovedì 16 aprile 2009
All’età di 80 anni è morto a Roma lo storico, giornalista e intellettuale Giano Accame. Nella sua lunga carriera è stato direttore del Secolo d’Italia dal 1988 al 1991. I funerali sabato 18 aprile nella capitale.di Arianna LucianiNato a Stoccarda, nella Germania meridionale, da madre tedesca e padre italiano, ufficiale di Marina, il 30 luglio del 1928, Giano Accame è stato un importante intellettuale, giornalista, scrittore e storico italiano. Pensatore ‘eretico’ della destra, apprezzato a destra quanto a sinistra, per le sue posizioni ‘diverse’, tanto da meritarsi la nomina di fascista di sinistra. A Claudio Sabelli Fioretti, in un’intervista del 2004, ha detto: “Una sera ero a cena da Mughini. C’erano Paolo Mieli, Fiamma Nierenstein, Andrea Marcenaro e sua moglie Franca Fossati. La Fossati commentò con il marito: ‘Bravo quel compagno!’ Sembra a volte che gli estremi si tocchino” .Morto a Roma il 15 aprile, aveva un record unico tra i giovani di Salò: arruolatosi la mattina del 25 aprile 1945, “la sera ero già in galera. Non ho mai fatto il miles gloriosus anche per questo. Avevo 16 anni”, ha detto di recente in un’intervista all’Ansa. Cresciuto a Loano, passa l’infanzia a Monfalcone e frequenta quasi tutte le scuole a La Spezia. Poco prima di compiere 17 anni si arruola nella Marina per la Repubblica sociale italiana, ma come racconterà lui stesso a Sabelli Fioretti nella già citata intervista, è stato arrestato subito mentre tentava di andare da Brescia a Milano su una Topolino. Dopo una dozzina di giorni di prigionia, riesce a fuggire. La sua carriera politica inizia nel 1946, quando a Loano fonda la sezione del Fronte degli Italiani, una formazione che, circa un paio di mesi dopo, confluisce nel Movimento sociale italiano; prosegue il suo impegno politico, in un periodo – ricorda lo stesso Accame a Sabelli Fioretti – “in cui destra e sinistra si parlavano”.
 
 
 
 
 
 
 
 
LA CARRIERA GIORNALISTICA – Rimane nei vertici dell’Msi fino al 1956, quando intraprende la carriera giornalistica : prima collabora con “Tabula Rasa”, fucina di pensatori della destra e giornale di opinione. Passa poi, come capo redattore, al settimanale “Cronaca italiana” nella redazione locale toscana, e nel 1958 entra nella redazione de “Il Borghese”, il periodico politico fondato nel 1950 da Leo Longanesi e che tra i suoi collaboratori ha annoverato, tra gli altri, Indro Montanelli, Ardengo Soffici, Giovanni Spadolini e Marco Travaglio. Qui Accame rimane per 10 anni, fino al 1968, anno in cui lascia per contrasti interni, stesso anno in cui lascia anche l’Msi, di cui è stato dirigente e uno dei più stretti collaboratori di Randolfo Pacciardi, il padre del presidenzialismo italiano. È poi stato redattore di alcune tra le più importanti riviste della destra italiana – “Fiorino”, “L’Italia settimanale” – ha collaborato con “Il Sabato”, “Lo Stato”, “Pagine Libere”, “Letteratura”. Dal 1988 al 1991 è stato direttore de “Il Secolo d’Italia”, che per ricordarlo domani pubblicherà quattro pagine dedicate ad Accame. Alla notizia della morte del direttore, la redazione ha ricordato “la sua indipendenza di giudizio, il suo spessore intellettuale e la sua generosità, un tratto così specifico e raro in chi è capace di profondità di pensiero. Nel suo primo editoriale sul Secolo, il 16 dicembre di ventuno anni fa, scriveva – ricorda il quotidiano – di amare ‘la gente fedele, dignitosa e fiera’ alla quale sentiva di appartenere comunque, nonostante gli scarti di ‘insofferenza e di impazienza’ che lo avevano portato su un percorso tutto suo, spesso lontano da quello del partito”. “Ricordiamo, ancora – continua il giornale – la sua capacità di guardare oltre la notizia, di trasformare il giornalismo in missione e in messaggio con l’ironia e l’autoironia che non manca mai a chi è veramente ‘del mestiere’ e con la capacità di apprezzare i talenti più giovani. In tutto questo ci è stato maestro, per questo lo ringraziamo” .Durissimo con Gianfranco Fini, al quale non risparmiò critiche quando quest’ultimo, a Gerusalemme, definì la Repubblica di Sarò ‘il male assoluto’. Ha reagito duramente e, al convegno organizzato da Francesco Storace all’Hotel Hilton di Roma, ha sottolineato che il grosso problema di Fini è l’intelligenza che gli manca. LIBRI E PUBBLICAZIONI – È stato ricercatore per gli Annali dell’economia italiana (Ipsoa) di Epicarmo Corbino e Gaetano Rasi. Fino all’ultimo, ha diretto la rivista online www.passarealbosco.it. Autore prolifico, nella sua carriera ha scritto “Socialismo tricolore” (Editoriale Nuova, Milano1983), “Una storia della Repubblica. Dalla fine della monarchia a oggi” (Rizzoli, Milano 2000), “Il fascismo immenso e rosso”, “Ezra Pound economista. Contro l’usura”, “La destra sociale”, “Il potere del denaro svuota le democrazie” e “Dove va la destra? – Dove va la sinistra?, interviste a Giano Accame e Costanzo Preve”, tutte per le Edizioni Settimo Sigillo di Roma, dal 1990 al 2004. Molti i volumi che ha curato, tra cui “Homo Oeconomicus”, insieme a Roberto Michels, “L’idea partecipativa” con Filippo Carli, “Giuseppe Mazzini, Interessi e Principii”. Su di lui esiste uno speciale in “Letteratura – Tradizione” n. 42 (2008), per i suoi ottant’anni, con contributi di Massimo Bacigalupo, Claudio Bonvecchio, Luigi G. de Anna, Simone Paliaga, Giuseppe Parlato, Caterina Ricciardi, Mario Bernardi Guardi, Giuliano Borghi, Mary de Rachewiltz, Gianfranco de Turris, Giorgio Galli, Carlo Gambescia, Luciano Garibaldi, Sandro Giovannini, Mario La Floresta, Sergio Pessot, Luca Leonello Rimbotti, Marcello Staglieno, Piero Vassallo, Marcello Veneziani, Ernesto Zucconi, Alain de Benoist, Tim Redman, Demetres P. Tryphonopoulos.
 
 
 
 
 
 
 
 
LE REAZIONE DEL MONDO POLITICO – Il primo è stato Gianni Alemanno, che ha ricordato la figura di Accame come politico e intellettuale: “Per me è veramente una scomparsa gravissima perché è stato un maestro. È stato un intellettuale – ha aggiunto – di grandissimo spessore che ha attraversato tutta la storia del dopoguerra con posizioni sempre molto ricche e significative, uno dei grandi maestri della cultura di destra”.”Uomo di grande coerenza e di feconda cultura”: lo ricorda così il vicepresidente del Senato, Domenico Nania. “Restano significative le sue intuizioni sul movimento ‘Nuova Repubblica’ con Randolfo Pacciardi in tempi durante i quali pochi ne parlavano e la sua conversazione con Landolfi sul ‘Socialismo tricolore’ che fornì una lettura nazionale del socialismo craxiano. Con Giano Accame – ricorda Nania – non scompare solamente un attento osservatore della destra ma anche un uomo che ha saputo vivere criticamente le alterne fasi del 900 italiano”.”I giovani hanno bisogno di grandi esempi e Giano Accame è stato uno di questi, uomo di cultura, d’azione e testimone di amore per la sua terra e per la sua gente”, ha detto il presidente di Azione Giovani Roma, Cesare Giardina. “Siamo addolorati dalla sua scomparsa – afferma inoltre – Con i suoi articoli ed i suoi libri si sono formate le generazioni che ci hanno preceduto, ci siamo formati noi e siamo sicuri che si formeranno le generazioni che ci seguiranno”.Secondo il Movimento per l’Italia con Daniela Santaché e Fabio Sabbatani Schiuma, la “morte di Giano Accame è la perdita di una figura storica della destra italiana. Siamo rattristati e ci stringiamo al dolore della famiglia. Giano Accame – continua Schiuma – ha rappresentato un faro culturale per intere generazioni e il suo essere innanzitutto un galantuomo ha fatto si che in tanti si possano essere confrontati direttamente con la sua visione della politica, della storia e della destra: un vero e proprio maestro”. Schiuma “è vicino al figlio Nicolò, amico di sempre, addolorato per la perdita del proprio papà”.Per il ministro per le Politiche europee, Andrea Ronchi, con la morte di Giano Accame scompare un grande esempio di coraggio: “È un grave lutto per la cultura italiana la morte di Giano Accame, giornalista, scrittore e intellettuale di spessore e fama internazionale. La sua perdita – continua – addolora tutti coloro che hanno avuto occasione di leggerne gli scritti e seguirne la parabola, soffermandosi su un pensiero sempre moderno, maturo, indirizzato alla costruzione di una destra europea, libera e aperta all’innovazione. Un uomo capace di andare oltre le etichette. Un uomo che ha pagato la sua appartenenza politica nei circoli intellettuali ma che di questo – ha concluso – non si è mai lamentato, evitando qualsiasi sterile vittimismo e dimostrando sempre profonda serietà e coerenza”. Un “maestro di giornalismo e un uomo il cui esempio è stato prezioso per molti di noi”: così lo ricordano Paolo Corsini e Marco Ferrazzoli, rispettivamente presidente e segretario dell’associazione di giornalisti ‘Lettera22’, ricordando come “Giano fosse intervenuto, giusto un anno fa, al convegno inaugurale della nostra Associazione, dove tenne un discorso che consideriamo una sorta di suo ‘testamento'”. “Come professionista e come persona – lo ricorda ‘Lettera 22’- Accame ha sempre tenuto fede alle proprie convinzioni, pagando di persona, anche in termini di non adeguato riconoscimento dei suoi meriti di giornalista e saggista. Questa fedeltà, insieme alla sua indiscutibile capacità professionale, è stata però la qualità che ha fatto apprezzare Accame al di là dell’ambiente ‘di destra’ al quale apparteneva. E questo – concludono Corsini e Ferrazzoli – rimane oggi il suo insegnamento più prezioso: il coraggio di mantenere le proprie idee anche quando questo è scomodo è la base per condurre con chi la pensa diversamente un dialogo aperto, rispettoso e proficuo per la reciproca crescita culturale”.Da parte sua, l’assessore alle Politiche culturali del Comune di Roma, Umberto Croppi, sottolinea quanto Accame sia stato un modello di cultura critica: “La scomparsa di Giano Accame ci rattrista infinitamente. Con lui viene a mancare un intellettuale al cui Magistero si sono ispirati studiosi e intellettuali italiani ed europei, perché Accame rappresentava un modello di cultura critica da cui era impossibile prescindere. Erede di quella cultura umanistica allo stesso tempo erudita e non conformista – ricorda Croppi -, Giano Accame amava molto Roma, e Roma gli ricambiava il medesimo affetto”. L’assessore capitolino sottolinea inoltre che “l’eredità che ci lascia consiste nell’aver ridato integrità culturale alla figura del “pensatore scomodo”, del pensatore che non teme il potere e la sua pretesa di emarginarlo, di colui che si ribella alla ‘sovranità monetaria’ dall’alto di una eterogeneità assoluta, quella che Giano Accame ha sempre avuto la sapienza di incarnare. Anche per queste ragioni oggi la città di Roma lo rimpiange, nel riconoscimento di una cultura nazionale senza più barriere e senza più rancori”.Di “una bella persona e un testimone sincero dell’Italia del Novecento” parla invece il ministro della Gioventù, Giorgia Meloni, che aggiunge: “Saluto commossa Giano Accame. Con pacatezza, con rigore morale e con la sua lucida analisi intellettuale, egli ha rappresentato degnamente la ragione dei vinti nella guerra civile che lacerò l’Italia nel dopoguerra. Con la sua vita – aggiunge il ministro – ha rappresentato un esempio dignitoso e un faro culturale per l’intero popolo della destra italiana”.”Con lui se ne va un maestro di libertà intellettuale. Se il mondo fosse giusto, le parole dovrebbero finire qui, per lasciare spazio alla commozione e al dolore dei tanti che si sono formati sull’esperienza umana e culturale del giornalista e scrittore”. Così lo ricorda su Ffwebmagazine (www.ffwebmagazine.it), periodico online della Fondazione Farefuturo presieduta da Gianfranco Fini, il direttore Filippo Rossi. “Accame – prosegue – è stato un pensatore ‘eretico’, pronto a prendere posizioni controcorrente e a difenderle a spada tratta anche contro gli alleati di partito”. Con il suo “straordinario impegno di militanza intellettuale e personale per restituire alla destra italiana la piena legittimità nel dibattito politico e culturale”, ha compiuto il “percorso di un nazionalista moderno, socialmente illuminato, raziocinante e dialogico verso la costruzione di una destra normale, maggioritaria, a vocazione egemonica”.
 
 
 
 
 
 
 
 
Sabato 18 aprile, nella chiesa di Santa Maria della Consolazione al Foro romano, alle 10.30 si svolgono i funerali.
 
 
 
 
 
 
 
 
Arianna Luciani
Ultimo aggiornamento ( giovedì 16 aprile 2009 )
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Anziani: nonno George, 98 anni e paracadutista per un giorno
 
 
 
 
 
 
 
 
Si è lanciato da 3000 metri di altezza con un paracadute e alla Bbc racconta di non aver avuto affatto paura. Niente di strano se si trattasse di un paracadutista normale, invece l’impresa è stata compiuta da un nonno inglese di 98 anni, George Moyse, che ha deciso di lanciarsi con il nipote di 43 anni. Lo ha fatto a fin di bene, racconta, per raccogliere fondi per un istituto che si occupa dei soccorsi in mare nel Regno Unito. In realtà non si tratta del primo nonno paracadutista: qualche mese fa George Bush padre si era lanciato in caduta libera per invitare tutti gli anziani del mondo a non arrendersi alla vecchiaia. Tra i parà con i capelli grigi poi si contano anche due donne: Krystyna Zbyszynska, polacca, che a 84 anni ha deciso di provare il brivido del salto nel vuoto ed è diventata la paracadutista più anziana del suo Paese e Aileen Fritsch, una nonnina del Minnesota, che decise di festeggiare libera nel cielo i suoi 90 anni.
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Associazione Nazionale Volontari “Bir el Gobi”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“La Bandiera è il simbolo della Patria. Non importa se nel bianco ci sia stato lo Scudo Sabaudo o l’Aquila Repubblicana, sotto i suoi colori migliaia di eroi sono orti per difenderla: onoriamola!” Vol.G.F. Antonio Cioci.
Piccola Caprera – via Pozzolengo 3 – 46040 Ponti sul Mincio – Mantova – info@piccolacaprera.it – www.piccolacaprera.it
Concorso “Piccola Caprera”
Bando di concorso per il riconoscimento di merito alla memoria del Maggiore Fulvio Balisti, figura patriottica, valorosa ed eroica nelle due guerre mondiali.
Iniziativa effettuata con il patrocinio del Comune di Ponti sul Mincio (MN)
del Comune di Peschiera del Garda (VR) Città Turistica e D’Arte.
Tema del concorso: L’AMOR DI PATRIA
Presentazione
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il Museo Reggimentale “Piccola Caprera” al fine di ricordare il Maggiore Fulvio Balisti,
figura patriottica, valorosa ed eroica nelle due guerre mondiali, istituisce un
“riconoscimento di merito” da assegnarsi ogni anno, a partire dal 2009.
Il tema del concorso farà sempre riferimento al sentimento e al valore positivo dell’amor
di Patria, secondo le modalità descrittivo-interpretative espresse dalle finalità.
Il concorso è aperto a tutti gli studenti delle terze classi delle scuole secondarie di
primo grado degli Istituti delle province di Mantova, Cremona, Brescia e Verona, nonché
agli studenti dell’ultimo biennio degli Istituti di istruzione secondaria superiore delle
medesime province.
Finalità
L’istituzione del premio nasce dal desiderio di ricordare l’eroica figura del Maggiore
Fulvio Balisti attraverso il concetto di amor di Patria, sviluppato nell’intento di
incoraggiare le giovani generazioni a coltivare individualmente e collettivamente questo
Sacro Sentimento anche e soprattutto come valore ideale.
Spunti di riflessione:

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