Edilizia e ambiente. Piani casa regionali. Vediamo quello della Lombardia

5 Novembre 2009

Mino Mini

Edilizia. Rilancio dell’economia, difesa degli interessi dei piccoli proprietari, tutela dell’ambiente naturale e della qualità dell’ambiente antropico. 

PIANI A CONFRONTO

Eccoci all’esame del piano-casa della Lombardia titolato Azioni straordinarie per lo sviluppo e la qualificazione del patrimonio edilizio ed urbanistico della Lombardia. Avevamo in programma un confronto con il piano-casa del Lazio soprattutto in funzione dell’opportunità di recuperare territori caratterizzati dalla presenza di elevate valenze naturalistiche, ambientali e culturali o di metter mano al problema delle periferie demolendo e ricostruendo.
E’ opportuno ricordare, preliminarmente, che il cosiddetto piano-casa governativo si proponeva come fine il rilancio dell’economia. Trattavasi, cioè, di misure straordinarie per il settore edilizio. La loro traduzione in termini di legge regionale nasceva, secondo la vulgata ad uso degli amministrati, dall’esigenza di gestire tale rilancio senza demolire l’impianto legislativo urbanistico ed edilizio delle singole regioni.
Prendendo per buona tale vulgata i diversi piani casa si sarebbero caratterizzati secondo due filoni: un filone prettamente economicistico volto a promuovere le occasioni affinché l’industria delle costruzioni ed il suo vastissimo indotto si rimettesse in moto; un secondo filone orientato culturalmente che, approfittando della necessità di rimettere in moto il settore edilizio, individuasse nell’intervento straordinario il mezzo per avviare a soluzione il grave problema delle periferie e del degrado ambientale generato dall’edificazione selvaggia.
Il confronto iniziato con l’esame del piano-casa della regione Lazio si completa ora con l’esame del piano-casa della Lombardia. Confronto che privilegia, nell’intenzione di chi scrive, la visione del piano-casa come opportunità di recuperare , come già detto in apertura, territori di particolare pregio ambientale e culturale o di avviare a soluzione il problema delle periferie ricorrendo alla demolizione e ricostruzione.
Ogni piano-casa regionale impiega, in misura maggiore o minore, gli stessi istituti ovvero lo stesso complesso di principi e di norme statuiti dalla legge-quadro nazionale. In particolare quelli che maggiormente ci interessano: l’ampliamento della volumetria e la demolizione e ricostruzione. Gli stessi, però, sono solo strumenti più o meno potenziati che acquistano valore, nel confronto, non tanto per l’entità di volumetria che consentono di realizzare quanto per il fine che il legislatore regionale persegue.
Confrontiamo, in prima istanza, gli istituti incominciando dall’ampliamento del 20%: la Lombardia prevede che l’ampliamento del 20% degli edifici uni-bifamiliari possa attuarsi fino ad un massimo di 300 metri cubi ( in seguito mc.) per ogni unità immobiliare residenziale preesistente e non fissa la corrispondente superficie. Non pone limiti all’altezza per la quale dividere la volumetria per ottenere la superficie e non pone limiti di cubatura all’edificio se non quella derivante dal calcolo: l’unità immobiliare preesistente avrà come limite 1550 mc come risulta dal calcolo mc. 300 : 20 x 100 = mc. 1500. A rigore di termini: se si tratta di una bifamiliare con due unità immobiliari residenziali, il limite per l’edificio dovrebbe essere di 3000 mc. e l’ampliamento complessivo di 600 mc..
Anche in Lombardia, come nel Lazio, non risulta chiaro il concetto di tipo edilizio. Da qui il quesito: trattasi di tipi o pseudo-tipi isolati uni-bifamiliari, oppure anche gli edifici a schiera, purchè unifamiliari o bifamiliari, beneficiano della distinzione per unità immobiliari residenziali?
Chi ci segue ricorderà quel che affermammo in proposito circa la definizione di unità immobiliare residenziale data dall’ufficio tecnico erariale (U.T.E.).
L’equivoco si accentua nel caso di edifici diversi dai casi uni-bifamiliari. Per questi scatta il limite di 1200 mc. E l’ampliamento concesso non sarà superiore al 20%, ovvero 240 mc.. Ad esempio: un edificio di 400 mq. e di 1200 mc., potrebbe essere composto di tre unità immobiliari residenziali da 133,33 mq. ciascuna ma non potrà ampliarsi oltre 240 mc. per tutto l’edificio. Ne scaturisce una considerazione: se si intende, con il termine uni-bifamiliari, riferirsi a case isolate tipiche del suburbio è di tutta evidenza l’intenzione di potenziare il fenomeno suburbano rispetto a quello propriamente urbano privilegiando il “modello” della città diffusa priva di una qualsiasi identità e generatrice del fenomeno della conurbazione: un agglomerato indistinto di edifici che saldano tra loro diversi comuni antropizzando, senza soluzione di continuità, estese parti del territorio. Un caso tipico di conurbazione è quel continuum edificato che da Genova si estende fino a Torino e dilaga per tutta la Lombardia fino al Veneto. Fenomeno chiamato, dapprima MiTo, dalle due lettere iniziali di Milano e Torino, poi degenerato involontariamente in GeMiTo per l’aggiunta delle analoghe lettere di Genova.
Nel Lazio, come avemmo occasione di mostrare, si segue la stessa strada ma contenendo l’ampliamento del 20% entro i 1000 mc.; ovvero 200 mc. di incremento obbligati su 62,5 mq. L’altezza virtuale adottata dalla regione Lazio, pari a 3.20 m., preclude ogni possibilità di lucrare qualche metro quadrato in più dividendo la volumetria per un’altezza inferiore. Cosa che si può agevolmente fare secondo il piano-casa lombardo.
Vediamo l’istituto della demolizione e ricostruzione. La Lombardia non distingue questo istituto con un articolo a parte. Non ne individua la potenziale attitudine a divenire strumento risolutore del problema delle periferie, ma lo concepisce solo come applicazione di un indice di ampliamento subordinato ” a una diminuzione certificata del fabbisogno annuo di energia primaria per la climatizzazione invernale”. L’indice di incremento è statuito nella misura del 30% aumentabile al 35% “nel caso di interventi che assicurino un congruo equipaggiamento arboreo per una porzione non inferiore al 25% del lotto interessato….”.Estende, però, l’intervento di sostituzione edilizia anche ai centri storici o nei nuclei urbani di antica formazione investendo edifici “non coerenti con le caratteristiche storiche, architettoniche, paesaggistiche e ambientali dei suddetti centri o nuclei”. Quali siano queste “caratteristiche” lo stringato piano-casa della Lombardia non lo dice né, tampoco, fornisce criteri per la loro individuazione. Stante la fase di incultura che pervade il tempo presente basata sul gustarello e sul giudizio critico del ” mi piace … non mi piace” non vi è solo da temere l’individuazione arbitraria degli edifici ” non coerenti”; molto più preoccupante dovrebbe essere il risultato di queste sostituzioni.
Il Lazio, al contrario, individua nell’istituto della demolizione e ricostruzione lo strumento fondamentale per la realizzazione dei programmi integrati di riordino urbano e delle periferie al punto da prevedere, ad una determinata condizione, un incremento massimo del 40% della volumetria o superficie demolita. La condizione è la ristrutturazione urbanistica che preveda una dotazione straordinaria degli standard urbanistici e delle opere di urbanizzazione primaria ( strade residenziali, parcheggi, infrastrutture a rete etc. ) nonché – e questa è la caratteristica qualificante il piano – una quota destinata alla edilizia residenziale sociale.
E’ palese l’obiettivo di eliminare la ghettizzazione ( il testo la chiama concentrazione in circoscritti ambiti urbani ) dell’edilizia residenziale sociale.
Quanto sia lontano dal pensiero del legislatore lombardo il problema della qualificazione delle periferie, emerge dall’art.4 (Riqualificazione dei quartieri di edilizia residenziale pubblica). L’esordio di questo articolo è tutto un programma: in alternativa agli istituti dell’ampliamento del 20% e della sostituzione edilizia mediante demolizione e ricostruzione, ” i soggetti pubblici proprietari di edifici di edilizia residenziale pubblica ( in sigla E.R.P. ) possono realizzare anche in deroga alle previsioni quantitative degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, e ai regolamenti edilizi, nuova volumetria …. In misura non superiore del 40% della volumetria esistente nel quartiere”.
Avete capito bene: un quartiere E.R.P., la classica periferia degradata e degradante, si riqualifica ( ammesso avesse avuto, in tempi lontani, una qualche qualità ) non già demolendo e ricostruendo, ma aggiungendo nuova edilizia residenziale pubblica nella misura del 40% della volumetria esistente. Quale sarà il destino di quest’ultima il piano-casa non lo dice. Afferma, di fatto, un’altra cosa: per “riqualificare” un ghetto occorre intasarlo con quaranta edifici ogni cento, quattro ogni dieci, due ogni cinque di quelli esistenti.
Il piano della Lombardia, come si vede, al contrario di quello del Lazio mira, forse inconsapevolmente, a consolidare la ghettizzazione dell’edilizia residenziale pubblica o sociale aggravando la condizione di emarginazione dell’abitante delle periferie.
La diversità di concezione fra i due piani a confronto, balza soprattutto nel diverso approccio al problema ambientale. Secondo la regione Lombardia, in deroga alle ovvie limitazioni di salvaguardia dei parchi regionali, anche all’interno degli stessi possono essere realizzati tutti gli interventi di accrescimento, demolizione e ricostruzione, nuova costruzione in zone E.R.P. confinanti con parchi regionali purchè ridotti di un terzo. Salta, così, il principio di inedificabilità ulteriore in zone a parco. Si salvano solo le aree naturali protette.
La regione Lazio, invece, insegue, sia pure utopicamente (ma non troppo ) il sogno di redimere le aree di elevato pregio ambientale dalla edificazione selvaggia attuata con edifici di infima qualità architettonica ed edilizia demolendo “…porzioni di tessuti edilizi o di singoli edifici legittimamente realizzati in aree sottoposte a vincoli ambientali, paesaggistici e in aree naturali protette”. Ricostruendo in aree esterne a quelle vincolate stabilisce un incremento premiale fino ad un massimo del 50% del volume degli edifici demoliti. Nel litorale, dove la edificazione ha praticamente occupato chilometri di spiagge, l’incremento potrebbe essere del 60% a condizione che la nuova edificazione, da realizzare in arretramento di almeno 300 metri, abbia destinazione turistico-ricettiva.
Chi ci ha seguito sin qui, può trarre le proprie conclusioni dal confronto dei due piani-casa regionali. Ci troviamo in presenza di due concezioni che rispecchiano i due filoni di cui si è detto in apertura. Per quanto attiene alla Lombardia i problemi derivanti dal degrado urbano a seguito della marginalità delle periferie, dalla congestione ambientale determinata dal fenomeno della conurbazione etc. non trovano spazio in questi piano-casa concepito esclusivamente in chiave economica. L’imperativo che lo impronta sembra essere: favorire la costruzione di nuove volumetrie ovunque sia possibile in modo da promuovere il settore edilizio da sempre considerato motore trainante la ripresa economica. Nessun problema culturale affiora nel dettato di questo piano-casa; nessun dubbio si profila circa le conseguenze urbanistiche ed ambientali di un piano siffatto una volta realizzato. Per quanto attiene al Lazio, l’articolazione del piano-casa di ventinove articoli contro i sette del piano lombardo, mostra un impianto culturale -condivisibile o meno – che affronta i problemi del ripristino ambientale, del riordino urbano e delle periferie, della riqualificazione urbanistica , attraverso l’incentivazione del settore edilizio. Non ha l’agilità di quello lombardo e nell’affrontare i grandi problemi non offre tutti gli strumenti per divenire efficace nel concreto, ma non si può negargli il merito di aver fatto qualche passo avanti verso una concezione meno grezza della città e dell’ambiente. La strada da percorrere, però, è ancora lunga , difficile e non priva di rischi. Infatti le forze che dovrebbero intervenire nel processo di riordino e riqualificazione, purtroppo non sono intellettualmente preparate a tanto. Ed è proprio la mancanza di preparazione intellettuale in merito alla cultura della città ed ai processi che ne regolano la formazione e lo sviluppo che rendono pericolosa l’applicazione del piano del Lazio. Il rischio che si corre, infatti, ha del paradossale. Un piano casa come quello, se attuato con la visione meccanicistica della cultura imperante votata al conseguimento di risultati settoriali, primo fra tutti quello economico, rischia di curare il male ( il degrado ambientale e quello delle periferie ) con un farmaco ( il piano ) che, in mani inesperte può generare conseguenze disastrose.
Non va dimenticato che una città e, ad un grado diverso i quartieri che la compongono, così come il territorio di cui le città sono parti, sono cultura concreta, reale, espressa in termini di case, strade, edifici speciali per le città; espressa in termini di paesaggi nelle diverse accezioni ( urbano, agricolo, naturale etc.) per il territorio. Operarvi è sempre un atto culturale quando l’agire cosciente si inserisce nel processo di formazione in atto; si trasforma in barbarie distruttiva quando l’agire, viziato dal settorialismo o dall’ideologia, opera arbitrariamente pur di conseguire un risultato parziale legato alla contingenza.
 
 

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