Università & Università. Ma che Università?

29 Dicembre 2010

Enea Franza

 

Le Università Italiane e la scienza malata

Siamo sicuri che il modello privatistico e delle fondazioni, volto al conseguimento di interessi e di profitti, sia la strada giusta per rivitalizzare le Università? – Sfaceli e abusi  del modello pubblico mettono in discussione la condotta etica e professionale dei responsabili,  l’idoneità degli strumenti di controllo e la deontologia di quanti vi sono preposti, le coperture istituzionali e politiche ma non anche il ruolo della funzione pubblica degli studi che è quello che in realtà è venuto a patirne i mali – Ricerca & ricerca in via esclusiva: cosa si cela dietro questa apparenza? – La prima ricerca sacrificata dalla ricerca profittevole in termini finanziari e di sfruttamento di mercato è la ricerca pura – Gli studi delle più diverse discipline e indirizzi che fine faranno dal momento che non rientrano nell’ottica dell’utile e del profittevole in termini di mercato scientifico – tecnologico?

Il mondo delle Università nel nostro Paese è composito e comprende 61 tra enti statali (o comunque promossi da enti pubblici) ed oltre 28 tra istituti di istruzione superiore post-secondaria non statali, alcuni dei quali promossi da enti pubblici ed altri da soggetti privati. Le Università non statali sono legalmente riconosciute ed autorizzate con provvedimento avente forza di legge; esse sono abilitate a fregiarsi della qualificazione di Università o istituto universitario ed a rilasciare titoli accademici relativi all’ordinamento universitario, aventi valore legale identico a quelli rilasciati dalle Università statali. Nell’insegnamento universitario lavorano (dati al 2009) circa 103.800 professori di cui 60.882 in ruolo, distinti tra 25.435 professori ordinari, 17.567 professori associati e la parte restante come ricercatori.
Si tratta, senza dubbio, di un comprato importante per il quale la spesa sostenuta nel nostro Paese è al di sotto della spesa media nei Paesi Ocse e copre circa lo 0,9% del Pil. Sono tanti o pochi questi gli insegnati nelle Università Italiane e, soprattutto, come si può misurare la professionalità dei docenti? In particolare, porre tale ultima questione significa, a ben vedere, porsi un problema molto più grande di quello che attiene alla questione (pur importante) dell’individuazione del quantum di spesa (sia essa pubblica che privata), e se essa sia ottimale rispetto alle necessità della ricerca e del relativo sviluppo.
Cerchiamo di chiarirci le idee. La ricerca, anche se può sembrare strano, è in definitiva un’attività di produzione, il cui obiettivo è quello di produrre conoscenza. Infatti, cosi come gli operai producono beni di consumo, i minatori materie prime, gli agricoltori prodotti agricoli, gli studiosi intesi come formaturi/professori/scienziati producono conoscenza. Allora, cosa differenzia uno scienziato da un altro soggetto economico?
Bene, in primo luogo, la produzione scientifica dipende solo in parte dalla domanda di beni e servizi avanzata dal mercato, anzi molto spesso è da questa indipendente e risponde più ad un’aspirazione profonda dell’essere umano e, in concorso per essa, della famiglia, della società e delle istituzioni pubbliche che ad una richiesta – più o meno esplicita che sia – dei potenziali acquirenti o utilizzatori che caratterizzano i normali ambiti delle attività dei mercati e delle intraprese economiche..
Al riguardo, a descrivere il moto che anima la ricerca, ci vengono alla mente le parole del grande Tommaso Campanella: “… Anzi è chiaro che tutto il genere umano, non solo questo o quell’individuo, è tenuto a dedicarsi alle scienze. Infatti Dio creò l’uomo, affinché lo conoscesse, e conoscendolo lo amasse, e amandolo ne godesse; per questa ragione l’uomo è stato creato razionale e dotato di sensi. Invece l’uomo, se è vero che la ragione è fatta per le scienze, qualora non utilizzasse questo dono di Dio secondo il progetto divino, agirebbe contro l’ordine naturale di Dio – come suole notare Crisostomo – quasi non volesse usare i piedi per camminare”.
Il secondo aspetto – a nostro modo di vedere – particolarmente delicato della questione è che la scienza, a differenza di altre attività umane, è in via generale un bene comune che per sua natura è finalizzato alla condivisione comune e che, normalmente, ha un basso (o nullo) valore di mercato.
Mi spiego meglio. L’edificio della conoscenza si costruisce passo passo nel corso del tempo, senza interruzione, con lo sforzo di una molteplicità di soggetti ognuno dei quali porta la sua pietra e il valore dei contributi di tutti costoro per l’arricchimento delle conoscenze dovuto anche a nuove invenzioni e/o scoperte è nel momento della diffusione della “nuova conoscenza” normalmente molto basso in termini economici ma tuttavia spesso indispensabile – fatto salvo tutto il settore in espansione delle ricerche più avanzate e finanziate per obiettivi specifici e “paganti” ai fini di ottenere innanzitutto invenzioni e procedure scientifiche da brevettare immediatamente per scopi legati direttamente al circolo della produzione e del mercato. Ne segue che la scienza, per poter progredire ed avanzare, ha bisogno di condivisione. Nell’ambito della comunità scientifica, infatti, condividere e discutere l’informazione risulta di fondamentale importanza per accrescere la conoscenza stessa e permetterne lo sviluppo in un processo dialettico dagli sviluppi spesso inimmaginabili all’inizio del percorso.
Gli scienziati hanno l’esigenza di basare la propria ricerca su un’informazione di alta qualità e, nello stesso tempo, la scienza ed il progresso della ricerca esigono l’affermazione di strumenti adeguati per la valutazione delle informazioni. Il meccanismo di selezione che si è affermato è quello della pubblicazione delle ricerche: il vaglio critico della comunità scientifica a cui esse vengono sottoposte sono l’effettivo strumento di valutazione.
Il terzo aspetto è che la ricerca è organizzata come competizione tra élite pensanti, sul principio del vinca il migliore. Il modello è quello del combattimento tra galli a Bali, descritto da C. J. Geertz: “Come ogni forma artistica, perché di questo in fondo stiamo trattando, il combattimento di galli rende comprensibile l’esperienza comune, quotidiana, presentandola in termini di azioni ed oggetti, le cui conseguenze pratiche sono state rimosse e che sono stati ridotti o, se preferite, innalzati a livello di pure apparenze, dove il loro significato può essere più fortemente articolato e più esattamente percepito. Il combattimento è veramente reale solo per i galli. Non uccide nessuno, non castra nessuno, non riduce nessuno allo status di animale, non altera i rapporti gerarchici tra le persone né rimodella la gerarchia, non ridistribuisce neppure il reddito in maniera significativa ”.
Esistono delle eccezioni rispetto a tale modello, come accennato in precedenza, condensabili in particolare in quelle che costituiscono l’ambito di ricerche (come nel caso della fisica delle particelle o dell’esplorazione spaziale) in cui la necessità di fortissimi investimenti iniziali necessitano un impiego comune di cervelli e denaro. Ma, a ben vedere, tali principi, che indubbiamente si sono dimostrati essere capaci di garantirne lo sviluppo ottimale, si possono ridurre ad uno solo: quello della libertà di ricerca. Insomma, la scienza per progredire deve essere libera.
Ma se i presupposti citati sono veri, che senso hanno gli investimenti pubblici nella ricerca? O meglio, la pretesa pubblica di selezionare tra le ricerche e gli scienziati quelli che siano effettivamente meritevoli e ad essi poter affidare i finanziamenti pubblici ha un senso?
Bene, il grande fisico ed inventore ungherese Leo Szilard (Budapest, 11 febbraio 1898 – La Jolla, 30 maggio 1964) sostiene se che c’è un modo effettivo per rallentare il progresso della scienza questo non potrebbe che essere quello di creare un istituto con finanziamento annuale e nominare comitati di scienziati per selezionare le ricerche meritevoli. In tal modo, sostiene Szilard, i ricercatori si concentrerebbero sui problemi ritenuti più promettenti e tali da portare a risultati tangibili entro breve termine ed invece di dedicarsi alla ricerca lavorerebbero per ottenere i finanziamenti. Risultato? Bene, in breve, si seguirebbero le ricerche alla moda e si prederebbe tempo nelle pratiche burocratiche . E’ quello che stiamo facendo noi con la ricerca e i finanziamenti alle Università ?
Se torniamo ai giorni nostri e guardiamo cosa sono oggi le Università, allargando lo sguardo oltre la realtà italiana, verso le grandi università americane, ci colpisce che là, accanto a veri e propri santuari dedicati alla riflessione scientifica (come ad esempio Harvard, Yale e Princeton.. ), ne troviamo altre, la maggior parte a dire il vero, dove di ricerca non se ne fa affatto . E’ nota agli addetti ai lavori la distinzione tra teaching universities e research universities, ovvero, tra le università dedicate al mero insegnamento delle materie e quelle votate alla ricerca. Le prime non necessitano di tanto denaro, ma di buoni comunicatori ed insegnanti, le seconde assorbono molto denaro. Tanto per farsi un’idea del denaro che gira nelle Università di prestigio americane, Harvard, Yale e Princeton dispongono di fondi di dotazione pari al capitale di una multinazionale (Harvard, con i suoi 22 miliardi di dollari, è l’Università più ricca del pianeta, mentre Yale e Princeton dispongono ciascuna della metà di questa somma); in proporzione al numero degli studenti, i fondi di dotazione di Princeton, Harvard e Yale ammontano rispettivamente a 1.300.000, 1.065.000 e 947.000 dollari a testa.
Da dove viene tutto questo denaro? Rinviando a qualche lettura specialistica e cercando di fare uno sforzo enorme di sintesi, possiamo affermare che il denaro accumulato viene dagli ex studenti di quelle bellissime università e dalle loro famiglie. Le rette, molto elevate, garantiscono poi che a poter accedere all’insegnamento siano solo persone ricche, molto ricche.
In altre parole, a finanziare l’alto livello delle Università di prestigio americane sono le élite dominanti. Anche la formazione non sfugge a tale regola, estremamente conservativa, ed è mirata alla riproduzione dell’attuale classe dirigente. Le altre Università americane – e spero che i politici nostrani se ne rendano conto – sono ben lontane dall’essere templi della cultura e del sapere, e si dibattono spesso in crisi finanziarie inimmaginabili che tolgono valore al titolo che rilasciano. Esse, in effetti, sono sovvenzionate solo in minima parte dagli scarsi finanziamenti pubblici ed anche per tali piccole realtà i denari arrivano in prevalenza da qualche benefattore o industria.
Il modello è riproducibile e, soprattutto, vale la pena seguirlo ?
Per la verità, non crediamo che siano in qualche modo replicabili le eccellenze formative delle grandi università americane (e alle tre prestigiose università citate, occorre almeno aggiungerne un’altra decina), perché questo modello è scaturito da una serie di coincidenze storiche non riproducibili, che ha fatto sì che molte delle migliori menti pensanti del pianeta si concentrassero nelle citate università americane. Ciò non di meno, questo è un punto cruciale. Soprattutto, riteniamo che non sia utile proseguire su quel modello. In effetti, in quelle Università – come per altro sta accadendo alla scienza – il denaro (che venga dal pubblico o che venga dal privato) viene impiegato nelle ricerche che sono, nell’ambito attuale accademico, le più alla moda.
Mi spiego meglio, perché sono certo di essere stato troppo oscuro!
Veniamo alla ricerca. E facciamo un caso tutto italiano, ma che non è molto lontano da quello che succede da più parti, quello della fondazione Telethon: “Alla base di tutto ci sono i soldi – spiega Maramai patron dell’iniziativa – perché per fare ricerca ci vogliono molti soldi. Con questi finanziamo i nostri istituti e i progetti esterni. É come costruire un edificio. Al primo piano di questa casa ideale c’è la Valutazione, fatta da un comitato di scienziati indipendenti e senza conflitti di interesse che valutano i progetti. Al secondo piano c’è l’Organizzazione, che è l’anima della Fondazione. Ci sono persone che lavorano tutto l’anno – continua il direttore amministrativo – per far si che tutto quello che sta dietro alla Ricerca funzioni bene”.
Bene, riassumendo e generalizzando, il modo di stimolare la ricerca è da un po’ di tempo divenuto quello di concentrare le risorse scarse verso gli studi che sembrano capaci di dare “frutti a breve”. Un imperativo categorico per coloro che vogliano intraprendere la dura strada del ricercatore è dunque indirizzarsi verso campi di ricerca che siano finanziabili, e non importa se i benefattori siano privati o che il denaro derivi da impieghi statali. La logica è concentrarsi sulle questioni ritenute universalmente centrali. Il risultato? Interi campi della ricerca scientifica non vengono esplorati, in quanto non sono ritenuti profittevoli o, anche semplicemente, perché non attirano l’attenzione degli stessi ricercatori, che se avessero causalmente l’idea strana di investigare in quell’infruttuoso campo di certo non troverebbero un cane disposto a finanziarli.
Secondo vulnus. Come si costruisce l’interesse in un settore della ricerca? Bene, la strada oggi percorsa è quello delle pubblicazioni scientifiche sulle grandi testate quali Nature e Science. Insomma la selezione di ciò che è di interesse scientifico per l’umanità e ciò che non lo è lo fanno le riviste che si occupano di scienza. Loro selezionano tra migliaia di articoli quelli ritenuti più meritevoli e di certo interesse per la scienza. Il meccanismo funziona? Certo di non poter dare una risposta su una problematica tanto complessa, mi resta solo da segnalare che dei tanti articoli che vengono inviati da tutto il mondo solo una piccolissima parte sale agli onori delle pubblicazioni, mentre il più grande numero viene escluso (addirittura il 90%). Adesso sappiamo tutti che all’aumento delle valutazioni aumenta anche la possibilità di errore di misura delle valutazioni stesse. Il problema è allora calcolare l’errore accettabile. Bene, alcuni ricercatori avrebbero dimostrato che i giudizi degli esperti sugli articoli esaminati (accettare, rivedere, respingere) hanno percentuali di errore che non si allontanano molto da una distribuzione casuale. Cioè, in altri termini, i giudizi non sono affidabili, ovvero gli articoli che hanno il giudizio “accettare” non sono necessariamente i più meritevoli. Assurdo no?
Bene, l’ulteriore problema che intacca o quantomeno può intaccare in misura non piccola la ricerca scientifica, è che i fondi per fare ricerca vengono attribuiti a coloro che abbiamo prodotto ricerche valide e promettenti. Ma, come visto, la valutazione viene fatta dalla comunità “a”scientifica attraverso il meccanismo probabilmente viziato e sicuramente poco oggettivo in una cui misura precipua è costituita dalle voci relative alle pubblicazioni e alle conseguenti citazioni.
Insomma, forse sarà il momento di tornare a ripensare il modelle istituzioni universitarie, della finalità della loro cultura e riconsiderare le perciò Università come “paradisi” di studio, insegnamento, ricerca, pensiero presuntivamente liquidati perché definiti puri astratti ed inutili ….. in quanto poco o per niente coinvolti nel processo metodologico rivolto al raggiungimento presso che esclusivo di ricadute immediate e lasciare ad altri livelli (le industrie e/o le imprese a partecipazione pubblica) il compito di sviluppare l’ambito della ricerca applicata e le tecnologie?

 

1. Distinti in professore ordinario (o professore di prima fascia), professore associato (o professore di seconda fascia), ricercatore universitario con attribuzione, in caso di affidamento di corsi curriculari, del titolo di professore aggregato per il periodo di durata degli stessi corsi e ricercatori a tempo determinato.
2. Dati OCSE 2005
3. Clifford James Geertz (San Francisco, 23 agosto 1926 – Pennsylvania, 30 ottobre 2006) è stato un antropologo. statunitense .
4. Leo Szilard “ La voce dei delfini e altri racconti”; Feltrinelli, Milano
5. Si stima che negli Usa ci siano circa 4.352 tra colleges, universities, and junior colleges.. 6 Ma mi permetto di suggerire: Fantasia R.: La formazione dell’aristocrazia nel sistema universitario americano. Le Monde diplomatique, nov. 2004 e, Lemann N.: What Harvard taught Larry Summers. Elite universities serve the faculty better than students. Dont’t mess. Time, febbr. 2006.