Dubai e i fantasmagorici miraggi

14 Febbraio 2011

Mino Mini

 

LA CITTA’ D’ORO PER GLI AFFARI D’ORO

 

Nell’agosto scorso il Borghese  (07 luglio su L’Europa della Libertà: Architettura e urbanistica: falsa volontà di potenza con palazzi sempre più alti per macinare sempre più solitudine) ebbe a trattare, assai di sfuggita, della città di Dubai nell’ambito del tema relativo ai grattacieli. Il gennaio di quest’anno, con un reportage condotto per Il Giornale, Marcello Veneziani ha trattato di questa Manhattan del deserto producendosi in apprezzamenti tali da spingerci a confutare, non tanto i suoi gusti che lo portano a sentirsi riconciliato “con la creatività umana e la modernità spettacolare” , quanto la valenza che attribuisce a questo fenomeno insediativo da qualcuno considerato il paradigma della città del futuro.

                                                                                             

Dice Veneziani: “Pensavo di vedere paesaggi disumani e invece ritrovo il trionfo dell’ingegno umano, la potenza creativa che, mediante la ricchezza degli emiri venuta dal nulla, petrolio e finanza, trasforma il deserto in civiltà” L’enfasi deve averlo tradito. Di grazia, dove sarebbe la civiltà? Se stiamo all’antropologia civiltà è sinonimo di cultura. In quanto tale la sua “funzione” – per dirla meccanicisticamente – o il suo fine è quello di cercare e trovare una risposta al problema dell’essere e dell’esistenza. Risposta che si traduce nella “costruzione del mondo”. Ma quale mondo è quello di Dubai? Ce lo dice, equivocando, l’urbanista George Katodrytis che a Dubai ci lavora. Nel suo “Metropolitan Dubai e la nascita della Fantasy architettonica” ce la descrive come “… il prototipo della città post-globale la cui funzione non è tanto quella di risolvere i problemi ma stimolare i desideri … può essere considerata il prototipo emergente della città del XXI° secolo: una serie di protesi urbane e di oasi nomadi, altrettante città isolate che si estendono sulla terra e sull’acqua”.
Dov’è l’equivoco ? Nel descrivere Dubai come “ città post-globale”. Se così fosse sarebbe espressione materializzata, in termini di edifici, strade, spazi urbani, del superamento della crisi della modernità e quindi manifestazione di una nuova cultura. Invece nello “stimolare i desideri” non fa che tradurre in concreto quanto affermato da Th. Hobbes – quello dell’ ”homo homini lupus”- nel 1651, all’inizio della modernità, nel cap. XI de Il Leviatano: “ La felicità in questa vita non consiste nel riposo di uno spirito soddisfatto. Poiché non esistono in realtà né il fine ultimo ( finis ultimus ), né il bene supremo ( summum bonum ) di cui si parla nelle opere degli antichi moralisti […], la felicità è un procedere continuo del desiderio da un oggetto all’altro; ed il conseguimento del primo è solo la strada che porta al secondo […] Così metto al primo posto, quale inclinazione di tutta l’umanità, un desiderio perpetuo e senza requie di acquisire spazi di potere, desiderio che si estingue solo con la morte”.

                                                                                              

Quindi Dubai, che ha per funzione di stimolare “i desideri perpetui e senza requie” è la quintessenza della modernità e, in quanto tale, città della globalizzazione o mondializzazione. Pertanto si identifica con il mondo della tecnica, del mercato, del turismo, dell’informazione al servizio del totalitarismo economicista. In quanto “prototipo emergente della città del XXI° secolo” essa è una serie di superbe e spettacolari “performances” tecniciste da inscrivere a buon diritto nel Guinnes dei Primati : il Burj Khalifa, attualmente il più alto grattacielo del mondo (828 metri) che presto sarà superato da un altro, sempre a Dubai, alto più di un chilometro; Il Mall of Arabia il più grande centro commerciale del mondo (440.000 mq); il Dubai World Central-Al Maktoum International che sarà il più grande aeroporto del mondo a sostituire il Dubai International Airport che è il 15° aeroporto passeggeri più trafficato al mondo ed il 7° per il traffico cargo; il Jebel Ali il porto più grande del mondo e, ovviamente, il più grande del Medio Oriente e 7° porto più trafficato del mondo; Hydropolis Dubai, l’albergo a forma di medusa situato a trenta metri sotto il livello del mare che offre agli occupanti delle sue 220 suites di lusso lo stesso spettacolo del mondo marino che il dottor No mostrò a James Bond; le tre isole artificiali a forma di palma più grandi del mondo nominate l’ “ottava meraviglia” del pianeta. Delle tre la più grande Palm Deira, ancora in costruzione, sarà estesa per 46,35 kmq. Potrebbe contenere, nella sua estensione, tutto il comune di Venezia comprendente Lido, Pellestrina, Favaro Veneto, Mestre, Carpenedo, Zelarino, Chirignago, Marghera e tutta la laguna. Rende meglio la descrizione se si considererà che Dubai con i suoi 4,114 kmq di deserto è più piccola di 1238 kmq della provincia di Roma. E non è finita: l’emiro di Dubai Mohammed bin Rashid Al Maktoum, detto confidenzialmente Sheik Mo, possiede la più grande scuderia del mondo dove alleva purosangue e “vaddassè” un super yacht – il Project Platinum – di 160 m. con sottomarino incorporato e ponte di atterraggio. E potremmo continuare elencando ciò che è in progetto o in fase di realizzazione; tutto “world class” , naturalmente, per essere il numero uno nel Guinnes dei Primati. Ma ripetiamo retoricamente la domanda: cosa c’entra tutto questo con la civiltà ? Per quanto stupefacenti e spettacolari questi primati sono soltanto una manifestazione della tecnica e non si tratta nemmeno di una tecnica araba che crea una città araba dando, con ciò, luogo ad un “prodotto” di cultura e quindi di civiltà – araba, naturalmente – per dare quella citata risposta al problema dell’esistenza. Infatti il Burj Khalifa è una creazione del famoso studio americano Skidmore Owings & Merril, noto come SOM, che vanta settantaquattro anni di attività nel settore degli edifici complessi in grande scala; il Burj al Arab, l’albergo a forma di vela che svetta in mezzo al mare fino a 321 m. di altezza è progettato dall’inglese Tom Wright per lo studio WS Atkins & Partners; l’Hydropolis Dubai è opera dell’architetto tedesco Joachim Hauser; il Dubai Sport porta la firma di Arif & Consulting Bintoak – Architetti e Ingegneri. C’è pure un gruppo di architetti italiani che fanno capo a David Fisher, laureato con lode a Firenze, che ha progettato la Rotating Tower di 420 m. di altezza; L’edificio ha la caratteristica di ruotare di 360 gradi, indipendentemente per ogni piano, per effetto della forza del vento assumendo configurazioni casuali o anche coordinate. Le tre isole a forma di palma – l’ottava meraviglia del mondo – sono realizzate con tecnologia olandese e belga perfezionata da secoli di pratica nei Paesi Bassi per contendere terra al mare. Dubai è in definitiva una gigantesca operazione economica attuata con tecnologia occidentale e “potenza creativa” occidentale con l’obiettivo di realizzare concretamente la Generic City preconizzata dall’archistar Rem Koolhaas dove la prevalente attività ivi contemplata è quella dello shopping. Insomma il meglio della tecnica ed il peggio della concezione urbana dell’occidente, però una stupefacente, fantasmagorica macchina acchiappaburini – per dirla alla romana – paradiso dei consumi di lusso del Medio Oriente e dell’Asia Meridionale. In ultima ratio un megalattico centro turistico-commerciale in grande stile. Abbagliante “Città d’oro” capace di rendere ciechi davanti alle evidenti manchevolezze dell’insediamento la cui analisi e descrizione richiederebbero spazi che l’articolo non ci consente. Ci sembra, invece, assai più interessante tentare una succinta analisi del fenomeno Dubai.
Dice Veneziani: “ Avverti che tutto è frutto dell’uomo, niente era in natura. Non c’è paesaggio naturale, oltre il sole e il mare, tutto è costruito dall’uomo … il Nulla riempito dall’uomo”.
E’ senz’altro una bella immagine prometeica, ma priva di sostanza territoriale. Vediamolo questo Nulla su una banalissima carta geografica oppure servendoci di una visione satellitare su Google. La penisola arabica nella sua estremità sud orientale protende, con una punta, a speronare l’Asia iranica che si incava per riceverla. Quell’incavo si chiama Stretto di Hormuz. A nord- ovest di esso c’è il Golfo Persico in cui sfociano il Tigri e l’Eufrate – sedi delle prime civiltà dell’uomo – e dove si affacciano ad est la Persia e ad ovest l’Arabia Felix oggi Saudita; a sud est, oltre lo Stretto, si apre il Golfo di Oman che si dilata sul mare Arabico su cui affacciano, con l’Oceano Indiano, le coste del Pakistan e la costa occidentale dell’India. Sin dalla più remota antichità, la particolare posizione territoriale dello Stretto, analoga a quella dei Dardanelli a “guardia” dei quali vigilava la fatale Troia, ebbe un’importanza fondamentale in quanto tutto il traffico in entrata e in uscita dal Golfo attraverso gli stretti corridoi di navigazione all’imboccatura dello stesso, doveva passare parallelamente alla costa degli attuali Emirati che, fino ai primi anni del secolo scorso, mantennero il nome rivelatore di Costa dei Pirati. Dove la natura aveva creato, su quella costa, il porto naturale in acque profonde più grande del Golfo, sorgeva Dubai, covo di pirati e contrabbandieri conviventi con i pescatori di perle che aveva alle spalle il deserto d’Arabia, davanti il mare e nessun insediamento urbano vero e proprio.
Finché non si scoperse nel Golfo e nelle sue isole l’oro nero che costituisce il 40% delle forniture mondiali di greggio, caricato su superpetroliere che necessitavano di fondali profondi, esso dovette fluire attraverso lo Stretto divenuto cerniera della porta di accesso al mare Arabico ed importante snodo strategico di rilevanza mondiale.
Per comprendere il fenomeno Dubai, occorre rifarsi agli anni in cui l’improvvisa ricchezza aveva proiettato i produttori di petrolio sulla scena economica mondiale alla ricerca di una piazza finanziaria, possibilmente mediorientale, dove depositare e gestire la montagna di petrodollari prodotti dall’oro nero. Fu individuata in Beirut sul Mediterraneo, ponte fra la civiltà europea e quella mediorientale, che aspirava a svolgere in Medio Oriente il ruolo che in Europa e nel mondo era esercitato dalla Svizzera. Nel 1975, come è noto, nel contesto delle ricorrenti guerre arabo-israeliane e della cacciata dei palestinesi dalla Giordania, scoppiò la guerra civile fra cristiani maroniti e musulmani che creò instabilità nel Libano e successivamente la fine del ruolo di Beirut come piazza economico-finanziaria. Ruolo che gli interessi degli Emirati e dell’Arabia Saudita spostarono nell’isola di Bahrain situata nel Golfo fra l’Arabia e il Qatar. Ma la nuova situazione non resse a lungo. La politica che il Kuwait e gli Emirati Arabi adottarono incrementando unilateralmente le vendite di petrolio oltre i limiti fissati dall’O.P.E.C. e provocando un ribasso dei prezzi del greggio, generò la reazione dell’Iraq di Saddam Hussein che, gravato di debiti ingenti, non riusciva a ricostruire il paese dopo la guerra con l’Iran degli anni ’80. E fu la prima guerra del Golfo e la fine del ruolo di Bahrain che creò un vuoto economico nel Medio Oriente. Vuoto che Dubai si trovò pronta a riempire per la lungimiranza di Sheik Mo. Resosi conto che i modesti giacimenti del suo emirato si sarebbero, prima o poi, esauriti, impiegò tutte le sue risorse per creare un futuro basato su una diversa economia. Con la spregiudicatezza di chi un tempo gestiva la pirateria ed il contrabbando d’oro, puntò tutto sul rendere reale l’appellativo con cui Dubai era conosciuta fino all’India: la Città d’oro. Turismo, commercio e finanza connessi in sistema interdipendente furono i tre obiettivi su cui fondò l’avvenire della sua città. Sin dal 1979, istituì una zona franca attorno al porto di Jebel Ali attirando profughi e capitali dall’Iran caduto sotto il regime di Khomeini. Altri arrivarono dall’India e dal vicino Pakistan. Nel decennio successivo, sostituita Bahrain, Dubai divenne anche un centro di riciclaggio di denaro, proveniente da fonti non proprio cristalline, investito nell’edificazione della Città d’oro e nelle attività più o meno lecite connesse al turismo. Tutt’oggi il riciclaggio è in pieno svolgimento ed è noto che l’Emirato è toccato dal flusso in uscita della via dell’Hormuzgan che smista, via Pakistan e Belucistan, la droga prodotta in Afganistan (vedi Limes 5/2005: L’Iran tra maschera e volto).

                                                                                           

Oggi Dubai è la principale piazza finanziaria del Medio Oriente. La società d’investimento Dubay World gestisce 875 miliardi di dollari di fondi sovrani degli EAU in 60 paesi. I sauditi, che dopo l’11 settembre riportarono in patria un terzo del proprio portafoglio di un trilione di dollari in investimenti esteri, pare abbiano “sepolto” diversi miliardi sotto i “castelli di sabbia” di Dubai. Anche ricchi europei ed asiatici si sono tuffati nella bolla finanziaria di questo emirato.
Ritorniamo, ora, a Veneziani che si chiede: “… perché da noi non è possibile inventare dal nulla città future, isole artificiali, vertiginosi grattacieli?
Probabilmente perché il Nulla desertico di Dubai da noi non c’è. Abbiamo costruito troppo e quel troppo l’abbiamo pensato e realizzato male. In più : non ci sono le condizioni base per realizzare città come Dubai. Non ci sono le condizioni territoriali ; non c’è la unicità decisionale impersonata da un emiro che agisce da sovrano assoluto; non c’è la forza lavoro sottopagata al limite dello schiavismo; non c’è l’afflusso scoperto, senza controllo, del denaro sporco né investitori pronti al rischio per realizzare un sogno quando i costi sono certi e i benefici ipotetici. In compenso non ci sono, per ora, gli squilibri sociali forieri di rivolte che vedono il 76,2% della popolazione senza diritti, tenuti a bada da oltre 150.000 mercenari, che forse o già è sensibile al vento di tempesta sociale proveniente dall’Algeria, dalla Tunisia, dall’Egitto che sconvolge il mondo musulmano. Da noi il vento di tempesta soffia dalle procure, urla nei telefoni, fischia nei buchi delle serrature e alimenta le fiamme del ressentiment che cova nella psiche emotivamente instabile di masse di borderliners.
E’ vero quanto Veneziani afferma in chiusura del suo reportage: “ … non pensiamo più in grande,non siamo più in grado di fondare, ogni novità è un cascame, i nuovi quartieri fanno schifo, le nuove chiese istigano all’ateismo; è possibile che non troviamo un linguaggio per il futuro e siamo prigionieri del passato?”
E’ possibile trovare un linguaggio per il futuro, ma occorre uscire dal deserto della modernità e oltrepassare la crisi delle scienze e della ragione filosofica.

 

Leggi:   Mino Mini, 07 Luglio 2010, 

Architettura e urbanistica: falsa volontà di potenza con palazzi sempre più alti per macinare sempre più solitudine