Quale tramonto per l’Urbe? Le colpe degli urbanisti e degli architetti

10 Maggio 2011

Mino Mini

Roma dal mito alla “inventata”postmodernità

LA CITTA’ PRÊT A HABITER

Dalla sacralità del luogo allo stoccaggio speculativo e al degrado dei quartieri di periferia? Dicamolo alla moda: oh, yes, this is a very formidabile and lovely idea. A new “ville”, a new city makes interior design simple, fun and affordable. The best budget: jerry-building (construction of inferior buildings for a quick profit). Fantastic!

Alzò lo guardo al terso cielo di primavera da dove gli era giunto il segno – la ierofania in forma di dodici avvoltoi – che gli aveva rivelato il luogo e protese le braccia verso l’infinito azzurro. Pervaso di orgoglio e tristezza invocò la divinità a testimone della sacertà della vittima che aveva dovuto, dolorosamente, sacrificare ad espiazione del sacrilegio commesso contro la sacralità del luogo. Girò attorno lo sguardo e ripercorse le varie fasi dell’antichissimo rito di fondazione che ripeteva e rievocava la creazione del mondo “in illo tempore”: il “palus” piantato sulla cima del colle a costituire l’ ”ombilicus” della futura città punto di intersezione dei tre mondi – celeste, terrestre ed infero – e centro sacrale di osservazione e misurazione dello spazio e del tempo. Intorno a questo perno aveva fatto ruotare, ad una certa distanza (“modulus”) una correggia di pelle di bue per il tracciamento al suolo di un cerchio secando il quale l’ombra del palo avrebbe permesso di misurare il tempo ed orientare “secundum coelum” il cardo e il decumano ovvero la croce di fondazione. Successivamente, circoscrivendo il “templum” così delimitato, aveva tracciato in forma quadrata il “sulcus primigenius” aggiogando all’aratro un toro, all’esterno del solco, ed una vacca all’interno dello stesso. Aveva stabilito con il quadrato di 1200 piedi di lato ( il “modus” pari ad un quarto di centuria) la misura secondo la quale mettere in rapporto le cose (gli enti) in sé e gli enti con il mondo (cosmo). Era stato allora che il suo gemello, il suo stesso sangue, aveva scavalcato il “sulcus” violando, consapevolmente o meno, la sacralità del luogo diventando “sacer” e vittima. Proprio a lui, fondatore e sacerdote, era toccato il compito di ristabilire l’armonia tra cosmo e terra sacrificandolo. Poteva, ora, attribuire il doppio nome alla città: quello segreto che la legherà all’esistenza del mondo lo stava rivelando alla divinità chiamata a testimone, l’altro lo avrebbe gridato agli uomini dando inizio alla misura del tempo futuro “ab urbe condita”.
A         M        O         R
M                               O
O                               M
R         O        M         A
R         O        M         A
O                               M
M                               O
A         M         O        R
 Il lungo incipit che può aver disorientato chi ci sta leggendo è la storia intessuta nel mito – il racconto sacro direbbe Mircea Eliade – della nascita di Roma duemilasettecentosessantaquattro anni fa. Per gli scettici e gli increduli cyborg o fyborg (“functional cyborg” di Alexander Chislenko) che popolano le periferie urbane del nostro tempo, possiamo operare una scissione: confiniamo i due gemelli fondatori di Roma nel mito per dare, invece, concretezza storica al rito di fondazione efficacemente documentato sia dai reperti storici che dal rilievo delle strutture territoriali (1). Del resto quella città nata, secondo il mito, in una primavera di sangue, continuò nei secoli a creare il mondo fondando città orientate “secundum coelum” sull’impianto cardo-decumanico, centuriò quasi tutto il territorio fino ad allora conosciuto “secundum naturam” sulla base della misura stabilita sul Palatino (“palus latinus”) e diede vita alla più alta istituzione politico-territoriale che l’uomo abbia mai concepito: l’impero.

Tutto questo è molto bello ed interessante, ma questo strano articolo in un mensile come il Borghese dove ci porta?
L’intento è quello di instaurare un confronto tra le città nate quando gli uomini avevano immanente il senso del sacro e realizzavano le loro città come continuazione della creazione del mondo in armonia con il cosmo e la natura e quelle odierne nate, impositivamente, per soddisfare la brama di profitto di pochi speculatori. Roma si presta quant’altre mai allo scopo per la sua specificità.
E’ un confronto assai ardito perché, come è ovvio, le condizioni del 2011 non sono quelle del settecentocinquantatre a.C. e gli uomini di allora non possono, certo, essere paragonati ai cyborgs di oggi. Ma non è questo il senso del confronto che ci interessa, bensì quello relativo alla capacità delle due città di controllare i fenomeni urbani. In una visione organica quale quella che improntava la fondazione delle città antiche, come abbiamo visto nell’incipit, l’uomo si era dotato di una misura per valutare la propria creazione in rapporto al mondo; nella visione settoriale del mondo moderno, dominata dal totalitarismo economico, invece, il cyborg si è mostrato totalmente incapace di controllare i processi da lui stesso scatenati. Siamo in presenza della classica sindrome dell’apprendista stregone che dopo aver favorito lo sviluppo demografico ha preteso di controllarlo creando l’uomo nuovo a servizio del processo di produzione e consumo che caratterizzò il fordismo con l’alienazione dell’individuo e la sua consolazione nel consumismo. Sia in America, terra del liberismo sfrenato, che nella ex Unione Sovietica dove il fordismo, ancorchè incompletamente applicato, fu salutato da Lenin come metodo di supporto della rivoluzione bolscevica.

Per questo uomo nuovo che si moltiplicava in continuazione la visione economicista dell’esistenza portò alla concezione della casa come bene di consumo e della città come una sorta di supermercato delle abitazioni. Mentre prima le case nascevano per iniziativa individuale e su misura delle esigenze del futuro abitante, nella nuova visione nacquero per il mercato prêt a habiter già confezionate per un cliente preformato dal processo economico. Furono, allora, realizzate case, più altre case ed ancora case riunite in agglomerati informi, quasi zone di stoccaggio, nella rincorsa frenetica al soddisfacimento non già delle fondamentali esigenze abitative, ma del mercato. Nei paesi privi dell’antica civiltà urbana questa metastasi edificatoria si estese senza misura dando origine alle cosiddette megalopoli ed alle gigantesche conurbazioni con decine di milioni di abitanti; dove, invece, sussistevano le antiche città ma si era perduta la visione organica del mondo, diede origine alle periferie che oggi soffocano e corrompono gli antichi insediamenti distruggendo e divorando quella mirabile creazione, espressione del connubio uomo-natura, che era il paesaggio.

Negli anni a cavallo tra i ’60 e i ’70 il fordismo entrò in crisi – ricordate Marcuse e l’uomo ad una dimensione? – Si scoprì che i beni ed i servizi prodotti dall’economia non erano l’unica forma di ricchezza, ma ne esistevano altre e fondamentali a scapito delle quali si attuava, parassitariamente, la crescita vorticosa, in termini di accumulo di denaro, che gli apprendisti stregoni avevano scatenato generando degrado nella qualità della vita.
Nacque, da tale consapevolezza, alquanto immatura, un movimento di reazione che si definì postmoderno. L’uso del prefisso post, però, non indicava il superamento, ma solo la romantica reazione interna alla modernità ereditando, peraltro, da questa tutti gli errori di concezione del rapporto uomo-natura. Sia come sia il postmoderno lanciò la nuova parola d’ordine, decrescita, che altro non era che un’inversione di marcia non un andare oltre. In urbanistica gli americani la stemperarono in “un-growth” ovvero non crescita o a-crescita. Al dunque si trattava di riprogettare la città su dimensioni più ridotte, in sostanza un mercato più controllato. E’ il concetto che, varcato l’oceano, ha ispirato da noi le dichiarazioni dei relatori comunali nei vari workshop “Ritorno alla città” di Roma Capitale di cui demmo relazione su queste pagine. In esse si proponeva, come indirizzo futuro, il contenimento del consumo di territorio guidando l’intervento degli speculatori nella densificazione dei terreni già compromessi come destinazione edificatoria, ma non totalmente occupati. In definitiva si proponeva di edificare lo stesso numero di case ma su una minore quantità di superficie di terreno edificabile.
Siamo ritornati da dove eravamo partiti. La città nata secondo l’antichissimo rito etrusco che nella sua vicenda millenaria ha vissuto due vite, sta ora soffocando sotto la pressione di quella periferia prodotta dal potere economico colluso con il potere politico. Si è costruito troppo e con un consumo scriteriato di territorio, ma si lamenta ancora una carenza di circa 50.000 abitazioni per l’housing sociale. Ai lembi del GRA (Grande Raccordo Anulare) che cinge la città e immediatamente fuori di esso i veri padroni di Roma, quelli che producono per il mercato prêt a habiter e ne governano gli orientamenti, hanno eretto migliaia di metri cubi di edilizia residenziale che non riescono a vendere. Alemanno, per fronteggiare l’emergenza housing sociale potrebbe comprare gli appartamenti invenduti – e probabilmente lo farà – permutando in beni comunali, ma poi dovrà evitare che i nuovi acquisti si saldino all’edificato esistente e ciò determinerà la loro ghettizzazione. La storia di Roma moderna, però, dimostra che prima o poi, a meno di soluzioni alternative, la saldatura avverrà a danno dell’Agro romano.
Come realizzare la a-crescita, dunque? Come impedire che lo strapotere economico realizzi i propri piani di espansione della città quando lo stesso condiziona – talvolta a livello familiare – le decisioni politiche?
Lo proponemmo su queste stesse pagine: il mondo della produzione edilizia può riscattarsi sul piano civile demolendo e ricostruendo. Riconvertendo l’orribile metastasi edificata in una vera città. Riavviando il processo vitale che trasforma nel tempo ogni insediamento. E non c’è città bisognosa di trasformazione più della periferia romana dove potrebbe attuarsi quella densificazione alternativa all’espansione nell’Agro romano.
Ma … c’è sempre un ma.
Occorrerebbe la concomitanza di più fattori: in primis dei costruttori imprenditorialmente più coraggiosi e civilmente più responsabili, in seconda istanza dei politici almeno più lungimiranti, ancorchè non famelici ed infine e soprattutto architetti culturalmente protesi – oltre la modernità – a concepire la città del terzo millennio. Una città “a-mors”, sottratta alla morte nell’amore che i veri architetti e i sinceri amministratori per essa dovrebbero nutrire, sopra ogni cosa che li circonda e li condiziona. Ma, campa cavallo mio, campa ……
(1) Cfr. Marco Baistrocchi – Arcana Urbis ECIG; Giancarlo Cataldi – Attualità e
Persistenza delle strutture pianificate antiche nella periferia di Roma In: A.A. V.V. – Il Centro storico di Roma Cangemi Editore