Ernesto Bozzo. La coerenza civile di un soldato e di un eroe. Promemoria per il prossimo 8 settembre e per gli “strapazzi” antifascisti

09 Agosto 2011

Fonte: Filippo Giannini

Ernesto Botto +

 

Messaggio di coerenza di un eroe che non tradì

 

<< ….  Io non ho studiato il diritto costituzionale e non saprei giudicare di un problema tanto difficile, ma ragionando col mio buon senso di persona incolta e considerando che gli angloamericani erano bloccati in Lucania, mi sembra che per tutta la penisola al Nord della linea del fuoco non vi fossero che due alternative: o il territorio diveniva zona di occupazione dei tedeschi, i quali lo avrebbero trattato con la durezza propria di tutte le occupazioni, inasprita dal risentimento per la defezione dell’alleato, o vi si costituiva qualcosa come un governo italiano che adempisse tutte le funzioni proprie di un governo, come pagare lo stipendio agli impiegati, amministrare la giustizia, provvedere alla raccolta e al razionamento dei viveri, mandare avanti le scuole, regolare i trasporti, eccetera. Di necessità un tale governo non poteva essere nemico dei tedeschi, dato che nasceva sotto i loro occhi. Che alla sua testa si trovasse Mussolini o un altro, per me non faceva differenza …..
….. Intendevo di rimettere in sesto, con quanto ci restava e con quanto potevamo allestire di nuovo, alcuni gruppi capaci di tenere il cielo e di contrastare nei limiti del possibile le sterminate formazioni degli angloamericani. E questo dissi parlando dalla radio agli aviatori nel mio discorso del 12 ottobre che non sarà stato un modello di eloquenza né di chiaroveggenza politica, ma nel quale misi tutta l’anima mia, la mia passione di pilota, il mio amore per la nostra terra, la mia coerenza e fierezza di soldato fedele alla parola data dalla Patria. Che noi potessimo ancora vincere non lo speravo, ma speravo che il nostro sacrificio avrebbe in qualche misura tutelato dinanzi agli stranieri amici o nemici il decoro delle armi italiane.
Due giorni dopo, il 14 ottobre 1943, sentii alla radio che il governo del Sud aveva dichiarato guerra alla Germania (**), e non lo credetti. Non capivo che senso ci fosse a dire che si era cessata la guerra perché non avevamo più i mezzi per continuarla, e poi trovare i mezzi per farla contro l’ex alleato. Il governo del Sud era nelle mani degli angloamericani ancor più di quanto il nostro fosse nelle mani dei tedeschi; quella dichiarazione l’aveva scritta Alexander e poi l’aveva data da firmare a qualche italiano. In questa certezza non credetti allora che una frattura della disciplina nazionale mi ponesse nella condizione di ribelle, e non lo credo neppure oggi. Non so come la cosa possa venir prospettata dal punto di vista del diritto; lo stato di fatto è che noi aviatori nel cielo e gli altri corpi a Nettuno e quindi sulla Linea Gotica difendevamo il suolo italiano contro eserciti che vi erano penetrati con la forza delle armi, mentre nel Sud vi erano autorità italiane che dopo la resa non potevamo giudicare libere dei propri atti. Nella parte nostra del territorio i tedeschi non erano entrati da nemici ma da alleati fin da principio del conflitto e perciò non erano invasori, come li chiamavano la radio anglo-italiana di Bari.
….. Feci tutto ciò che la mia carica esigeva e tutto quanto era necessario per mantenere efficienti le mie squadriglie. Avevo intorno a me collaboratori valenti, primo fra tutti il capitano Adriano Visconti, il quale, come sapete, a guerra finita fu assassinato con una raffica di mitra nella schiena nel cortile d’una caserma a Milano. Aveva abbattuto 35 apparecchi.
Noi non facevamo il doppio gioco, facevamo un gioco solo, mortale, nel cielo in pochi mesi uno dei miei gruppi sopra 72 piloti ebbe 42 Caduti e 17 feriti, e gli altri gruppi ebbero perdite poco inferiori e avremmo voluto che non sorgesse la necessità di difenderci alle spalle sulla terra.
….. Molti di noi hanno subito gravi condanne per aver inferto o eseguito sentenze capitali contro individui colpevoli di assassinio di militari o di civili della Repubblica Sociale o per atti di grave sabotaggio. Cosa dovevamo fare per restare nelle nostre regole? Dovevamo dire agli attentatori <continuate pure; noi siamo qui per servirvi da bersaglio>? Per aver fato ciò che in quelle circostanze era impossibile non fare, o anche aver dato una formale adesione al governo del Nord, innumerevoli fra noi furono fatti fuori – come dicono i partigiani – dopo che gli angloamericani ebbero occupato tutto il territorio e la guerra era finita. Molti vennero abbattuti in massa dopo aver consegnato le armi dietro promessa della vita: a non parlare delle donne esposte al ludibrio della canaglia e poi uccise. Spettacoli da togliere per sempre a una persona pulita il gusto di vivere.
Mentre crepitavano i mitra dei fucilatori, mentre Trieste, l’Istria, le isole cadevano nelle mani degli slavi e le foibe carsiche si intasavano di carne italiana, le nostre città imbandieravano a festa le proprie macerie. Fu quella non solo per le vittime afferrate o rincorse, non solo per chi fuggiva o si nascondeva, ma per tutti gli italiani non impazziti, l’ora del sudore di sangue.
Credevano nella loro contestazione d’aver acquistato il diritto di montare sulla carretta del vincitore e di dividerne l’alloggio per essersi fatti suoi ausiliari all’ultim’ora o per avere in precedenza tradito il proprio paese. Personalmente i miei colleghi superstiti ed io riscuotemmo dagli angloamericani, che tra loro ci chiamavano Italians gentlemen, il medesimo rispetto che avevamo riscosso dai tedeschi, piccolo fatto che avrebbe potuto confermarmi d’essere stato nel giusto, se ne avessi avuto bisogno.
In effetti non mi pento di nulla di ciò che ho fatto. Dinanzi alle medesime circostanze agirei domani come ieri ho agito, e sono convinto che se si vorrà edificare qualcosa di resistente, nelle armi come in ogni altro campo, bisognerà rifarsi ai principi nei quali noi crescemmo e che sono antichi come il mondo, bisognerà ricostruire dalle fondamenta ciò che l’odio fraterno e la follia autolesionista hanno distrutto. Per me, con tutta l’anima spero di non vedere il Paese ancora una volta alla prova, spero che mi sia risparmiata la trepidante angoscia di vedere in tensione la fune che si spezzò allo sforzo e che fu rattoppata. >>

 

COLONNELLO ERNESTO BOTTO (*)

Filippo Giannini – Dopo che il colonnello pilota Ernesto Botto ricevette un questionario dal Ministero della Difesa, a guerra conclusa e in pieno periodo epurativo, così rispose:

<< Dopo l’8 settembre io agii come la mia coscienza mi comandava. Chi vuol sapere di più sul mio conto consulti il mio libretto personale. Non appartengo più alla famiglia delle Forze Armate, non vedo alcuna possibilità di rientrarvi e non desidero rientrarvi. Da quando mi avete liquidato sono un borghese, e consentite che vi parli confidenzialmente, per rispondere alle vostre domande e con la speranza che dopo avermi ascoltato non mi manderete altri questionari.
Il punto di partenza, indispensabile a capire tutto il resto, è una confessione che debbo decidermi a fare per quanto scandalosa possa sembrarvi; debbo cioè confessare che io, sino all’8 settembre giudicato da tutti un modello di disciplina, mi sono sempre comandato da solo, e questo per la essenziale ragione che nessuno avrebbe potuto comandarmi di fare ciò che ho fatto. Voi sapete che nella guerra di Spagna persi una gamba per ferite riportate in combattimento aereo. Non ero iscritto al partito fascista, bastandomi di essere un soldato dell’Italia, e, avendo trascorso fra motori e carlinghe tutta la mia età cosciente, non mi ero mai preoccupato di sapere se esistessero per un paese civile altri modi di governarsi diversi dal fascismo; avevo chiesto di andare in Spagna perché per me il sapore della vita è nel volo, un sapore tanto più intenso quando il volo è di guerra. Dal momento che vi era la possibilità di battagliare per aria in una guerra in cui il mio paese era interessato, non potevo mancare all’appuntamento.
Amputato al terzo superiore del femore, avrei potuto congedarmi. Mutilato e Medaglia d’Oro. La mia posizione era tetragona a qualsiasi vento di fortuna. Alla Patria avevo dato e per essa fatto abbastanza da vivere moralmente e materialmente di rendita sul mio passato sino ai più tardi anni. Avrei potuto divenire uno di quei personaggi rappresentativi che vengono invitati alle cerimonie patriottiche e ai quali l’oratore rivolge un lirico saluto riscuotendo gli scroscianti applausi del pubblico.
Volendo restare nell’Esercito, avrei potuto divenire un ufficiale calamaio vivente tra placide scartoffie, e la mia presenza avrebbe onorato qualunque Distretto. Volendo restare nell’Aeronautica, avrei potuto divenire insegnante di cattedra in una delle nostre Scuole, impartire ai futuri piloti meteorologia o aerodinamica o tattica aerea o balistica. Ma con qualche adattamento tecnico la gamba superstite poteva bastarmi per i comandi: scelsi quindi l’ufficio di istruttore alla Scuola di Alta Acrobazia facendo per primo l’acrobata. C’era una manovra, ideata da me, che il mio Colonnello battezzò “Maria prega, Gesù provvede”, e nei raduni aerei internazionali quando decollavo con la mia pattuglia e cominciavamo ala contro ala i nostri caroselli, la moltitudine assiepata col naso in su restava senza fiato. Non era ambizioso virtuosismo, era addestramento alla battaglia aerea, nella quale bisognava giocare con le tre dimensioni come pescicani in lotta nella profondità del mare. Vi assicuro che in quel tempo all’estero, a vedere come ci guardavano ovunque si andava, c’era soddisfazione a essere Italiani. Nessuno poteva comandarmi di fare questo; me lo comandai da solo. Aggiungo che comandandomi da solo sentivo di obbedire alla Patria, la quale parla direttamente al cuore dei figli suoi che la natura ha fatto più forti e chiede loro di darsi completamente, ognuno nell’arte propria e nel modo che fa a lei più onore.
Nel giugno del ’40 mi trovavo in Sicilia e compii con la mia pattuglia la prima azione aerea su Malta; scendemmo a volo radente sul campo e col fuoco delle mitragliatrici liquidammo un buon numero di apparecchi. Poi fui mandato in Africa e cominciai a giostrare contro gli Hurricane. Qualche volta ne abbattei, qualche volta fui abbattuto. Ma la mia specialità è questa, che quando nel cielo del nemico sono colpito nell’apparecchio o nella persona, o nell’uno e nell’altra insieme, trovo modo, non so neppure io come, coi comandi impazziti e il cervello pieno d’ombra e di lampi, di raggiungere le nostre linee e di atterrare dalla parte giusta. Naturalmente l’atterraggio finisce di ridurre in pezzi l’apparecchio, sicché i soldati corrono a tirarmi fuori per morto dai rottami. Invece sono vivo: con qualche altro osso rotto, perdendo sangue da qualche foratura, ma vivo. E quando l’ospedale mi ha rappezzato alla meglio, non prendo la licenza di convalescenza, ma ritorno al mio campo e alla prima occasione monto coi colleghi di squadriglia su un Macchi, mi allaccio il paracadute e parto a tutta manetta con la speranza di far la festa a qualche Liberator o a qualche Spitfire.
Nessuno avrebbe potuto comandarmi di fare questo; me lo comandai da solo.
E anche prima della guerra di Spagna e prima della mutilazione era stato così. Ci sono tanti modi di fare l’ufficiale d’Aeronautica e io di mia volontà avevo sempre scelto il modo più… sportivo.
L’8 settembre mi trovavo a Gorizia dove comandavo quel campo; e a un tratto seppi che la guerra era finita. Gli italiani erano allo stremo delle forze e si arrendevano senza condizioni al nemico. Da quell’istante mi considerai congedato. Il governo, finita la guerra, non aveva più bisogno di me e io potevo disporre di me stesso. Se il Paraguay fosse stato in conflitto con l’Urugay e io mi fossi offerto, restando italiano, di far la guerra aerea per il Paraguay, nessuno avrebbe potuto impedirmelo. Ma non era necessario attraversare l’Oceano: c’era a portata di mano la Germania – fino a ieri alleata dell’Italia la quale si era con essa impegnata a non fare pace separata – che continuava la guerra contro gli angloamericani sino a ieri nemici dell’Italia; e immediatamente dissi agli ufficiali tedeschi della zona che, restando italiano, io continuavo la guerra con loro. Vi prevengo che avevo e conservo un alto concetto dei combattenti tedeschi, tra i quali avvicinai le più nobili figure di ufficiali che nella mia vita abbia incontrato, e incontrai ufficiali di tutte le nazioni e di tutti i continenti. Eccellenti valutatori d’uomini, ho constatato per lunga esperienza che essi hanno cordiale cameratismo e profonda stima per i buoni combattenti italiani. Oltre questi motivi personali, il patto d’alleanza con la Germania non mi era sembrato assurdo come oggi molti dichiarano, e rimango convinto che riguardo ad essa, anche per il futuro noi abbiamo più valide ragioni di intesa che di contrasto. La cosiddetta inimicizia ereditaria verso il secolare nemico (che non ci fu nemico se non quando lo attaccammo e ci fu più volte amico) eccetera, mi sembra un’idea da ragazzini sventati o da vecchi cocciuti.
La mia decisione sorse la sera stessa del comunicato Badoglio, dalla ormai connaturata abitudine di comandarmi da solo, e cioè, come ho detto, di obbedire senza interposta persona alla voce della Patria. Voi intendete, Signori del Ministero, che avrei potuto squagliarmi come facevano quasi tutti, tornare a casa e pensare ai fatti miei. Ossa rotte ne avevo abbastanza, campagne anche, e medaglie anche. Mi trovavo in una botte di ferro e nessuno aveva più di me il diritto di appartarsi a coltivare l’orticello. Ma avevo ancora del fiato e volli continuare a combattere.
Come, non dipendendo più dal governo della capitolazione, non mi interessava cosa questo facesse per trarsi fuori dalla mischia, così sentivo che il mio atto non infrangeva alcuna disciplina morale né nazionale. Gli aviatori angloamericani seguitavano bombardare le nostre città e se potevo sfasciare qualche loro apparecchio impedendogli di assassinare dei civili italiani, era tanto di guadagnato. E intendevo di farlo per conto mio, come iniziativa personale, convinto di non fare male, anzi di far bene. Naturalmente l’opera mia sarebbe stata poco più di nulla a confronto del bisogno, perché in uno stesso momento non potevo librarmi più che in un punto dello spazio, e per breve parte del giorno o della notte, mentre l’intera volta d’aria sulla penisola era in pericolo durante le 24 ore; e se avessi potuto dividermi in tanti pezzetti e condurre con essi uno sciame di aerei che tenessero tutto il nostro cielo, sarei stato felice di annientarmi così, affinché le donne e i bambini e tutti gli inermi fossero immuni da offesa.
Per gli altri la Patria è un’idea, ma per noi piloti che dall’alto la abbracciamo ogni giorno con la vista essa è anche una misteriosa creatura che ha i suoi lineamenti e i suoi sorrisi. Il suo corpo era allora in ogni parte contuso e dolente ad opera degli aviatori nemici ai quali non potevo oppormi che uno contro mille; e tuttavia quell’uno doveva essere presente nel cielo italiano.
Nei giorni seguenti vidi che altri, ufficiali e soldati, la pensavano come me. Anch’essi avevano ancora del fiato e volevano continuare a combattere; sicché, invece di essere solo, eravamo un gruppo di italiani i quali considerandosi smobilitati per cessazione delle ostilità, di propria iniziativa restavano alleati della Germania, anche perché non sembrava loro sportivo piantare in asso il compagno di squadra nel momento più caldo della gara.
Poi venne il governo della Repubblica Sociale.
Io non ho studiato il diritto costituzionale e non saprei giudicare di un problema tanto difficile, ma ragionando col mio buon senso di persona incolta e considerando che gli angloamericani erano bloccati in Lucania, mi sembra che per tutta la penisola al Nord della linea del fuoco non vi fossero che due alternative: o il territorio diveniva zona di occupazione dei tedeschi, i quali lo avrebbero trattato con la durezza propria di tutte le occupazioni, inasprita dal risentimento per la defezione dell’alleato, o vi si costituiva qualcosa come un governo italiano che adempisse tutte le funzioni proprie di un governo, come pagare lo stipendio agli impiegati, amministrare la giustizia, provvedere alla raccolta e al razionamento dei viveri, mandare avanti le scuole, regolare i trasporti, eccetera. Di necessità un tale governo non poteva essere nemico dei tedeschi, dato che nasceva sotto i loro occhi. Che alla sua testa si trovasse Mussolini o un altro, per me non faceva differenza: l’importante era che quelle funzioni venissero assolte da qualcuno e che non divenissimo una gente inselvatichita, una terra senza legge e senza timor di Dio né rispetto degli uomini. Ma so bene che per voi chiunque per la continuità della vita civile rimase sotto i bombardamenti al suo posto di lavoro, si rese reo di collaborazionismo, anche il podestà che amministrava un Comune, anche il dottore che dirigeva un ospedale. Poiché quel governo si costituì e dichiarò di conservare l’alleanza germanica e di condurre innanzi la guerra, noi militari non eravamo più individualmente alleati dei tedeschi, ma divenivamo le Forze Armate di quel governo. Il nostro posto di lavoro era il combattimento. In questo modo c’erano due Italie: una che aveva finito la guerra, l’altra che la continuava, e io non vedevo alcuna necessità che esse venissero in urto fra loro. Sopra la Linea Gustav noi gridavamo a quelli del Sud: “Sta bene, voi siete sfiniti e avete mollato, noi siamo ancora freschi e seguitiamo il nostro lavoro: alla fine ci riuniremo e formeremo di nuovo un corpo solo”; e non capivamo perché quelli rispondessero con delle ingiurie, tanto più che, oltre tutto, avevano scelto per sé una parte meno faticosa della nostra.
Mussolini sapeva che gli aviatori avevano fiducia in me e mi volle alla testa dell’Aeronautica. Fu il più grande sacrificio della mia vita, perché non posso soffrire il lavoro d’ufficio. Ma tutti insistevano, parlavano di abnegazione, dicevano che per far camminare una macchina bisogna che qualcuno si rassegni ai posti scorbutici, e insomma accettai, a condizione che anche da sottosegretario potessi volare. Intendevo di rimettere in sesto, con quanto ci restava e con quanto potevamo allestire di nuovo, alcuni gruppi capaci di tenere il cielo e di contrastare nei limiti del possibile le sterminate formazioni degli angloamericani. E questo dissi parlando dalla radio agli aviatori nel mio discorso del 12 ottobre che non sarà stato un modello di eloquenza né di chiaroveggenza politica, ma nel quale misi tutta l’anima mia, la mia passione di pilota, il mio amore per la nostra terra, la mia coerenza e fierezza di soldato fedele alla parola data dalla Patria. Che noi potessimo ancora vincere non lo speravo, ma speravo che il nostro sacrificio avrebbe in qualche misura tutelato dinanzi agli stranieri amici o nemici il decoro delle armi italiane.
Due giorni dopo, il 14 ottobre 1943, sentii alla radio che il governo del Sud aveva dichiarato guerra alla Germania (**), e non lo credetti. Non capivo che senso ci fosse a dire che si era cessata la guerra perché non avevamo più i mezzi per continuarla, e poi trovare i mezzi per farla contro l’ex alleato. Il governo del Sud era nelle mani degli angloamericani ancor più di quanto il nostro fosse nelle mani dei tedeschi; quella dichiarazione l’aveva scritta Alexander e poi l’aveva data da firmare a qualche italiano. In questa certezza non credetti allora che una frattura della disciplina nazionale mi ponesse nella condizione di ribelle, e non lo credo neppure oggi. Non so come la cosa possa venir prospettata dal punto di vista del diritto; lo stato di fatto è che noi aviatori nel cielo e gli altri corpi a Nettuno e quindi sulla Linea Gotica difendevamo il suolo italiano contro eserciti che vi erano penetrati con la forza delle armi, mentre nel Sud vi erano autorità italiane che dopo la resa non potevamo giudicare libere dei propri atti. Nella parte nostra del territorio i tedeschi non erano entrati da nemici ma da alleati fin da principio del conflitto e perciò non erano invasori, come li chiamavano la radio anglo-italiana di Bari.
Non importa ora dirvi quel che feci fino a quando rimasi al sottosegretariato. Litigai più di una volta con Mussolini e con non so quanti Ministri, ma questo non c’entra. Feci tutto ciò che la mia carica esigeva e tutto quanto era necessario per mantenere efficienti le mie squadriglie. Avevo intorno a me collaboratori valenti, primo fra tutti il capitano Adriano Visconti, il quale, come sapete, a guerra finita fu assassinato con una raffica di mitra nella schiena nel cortile d’una caserma a Milano. Aveva abbattuto 35 apparecchi.
Noi non facevamo il doppio gioco, facevamo un gioco solo, mortale, nel cielo in pochi mesi uno dei miei gruppi sopra 72 piloti ebbe 42 Caduti e 17 feriti, e gli altri gruppi ebbero perdite poco inferiori e avremmo voluto che non sorgesse la necessità di difenderci alle spalle sulla terra.
Non riesco a capire come si possa oggi imputare a colpa aver compiuto atti che in guerra ogni comandante deve compiere se è degno e capace del suo compito. Se avessi colto un tizio nell’atto di sabotare i nostri apparecchi, coi quali ci lanciavamo, una squadriglia contro uno stormo, per tentare di salvare dei ponti, delle stazioni, delle vite italiane, lo avrei fucilato senza un attimo di esitazione. Ringrazio Iddio di non averlo dovuto fare, ma se lo avessi fatto e, per averlo fatto, voi mi condannaste all’ergastolo, non potreste con ciò convincermi di aver commesso un delitto, perché un atto necessario e disinteressato non può essere un delitto.
Io sono ignorante di diritto penale come di diritto costituzionale, ma sono convinto che la Legge non può contrastare alla coscienza di un uomo normale e naturalmente onesto. Molti di noi hanno subito gravi condanne per aver inferto o eseguito sentenze capitali contro individui colpevoli di assassinio di militari o di civili della Repubblica Sociale o per atti di grave sabotaggio. Cosa dovevamo fare per restare nelle nostre regole? Dovevamo dire agli attentatori <continuate pure; noi siamo qui per servirvi da bersaglio>? Per aver fato ciò che in quelle circostanze era impossibile non fare, o anche aver dato una formale adesione al governo del Nord, innumerevoli fra noi furono fatti fuori – come dicono i partigiani – dopo che gli angloamericani ebbero occupato tutto il territorio e la guerra era finita. Molti vennero abbattuti in massa dopo aver consegnato le armi dietro promessa della vita: a non parlare delle donne esposte al ludibrio della canaglia e poi uccise. Spettacoli da togliere per sempre a una persona pulita il gusto di vivere.
Mentre crepitavano i mitra dei fucilatori, mentre Trieste, l’Istria, le isole cadevano nelle mani degli slavi e le foibe carsiche si intasavano di carne italiana, le nostre città imbandieravano a festa le proprie macerie. Fu quella non solo per le vittime afferrate o rincorse, non solo per chi fuggiva o si nascondeva, ma per tutti gli italiani non impazziti, l’ora del sudore di sangue.
Soltanto noi soldati, che viviamo nella quotidiana confidenza della morte, abbiamo rispetto della vita umana; solo per necessità noi usiamo violenza e solo su chi è in grado di esercitarla sopra di noi; noi soltanto siamo gente civile; i politici delle fazioni sono al nostro confronto dei selvaggi. E in quella atmosfera di incubo, tratto un rapido episodio: a Milano il 30 aprile mentre la folla si beava alla vista di Piazzale Loreto accadde in Piazza del Duomo questa scenetta. Un partigiano in costume western e fazzoletto rosso aveva fermato una jeep condotta da un negro, al quale diceva a gesti di voler salire. Il negro gigantesco e panciuto, rideva fingendo di non capire e alle insistenze del partigiano si voltò, ridendo, sul sedile, gli sferrò un calcio che lo mandò ruzzoloni, ridendo si voltò e riprese la marcia. Ogni figura un fatto. In quei giorni a Torino, occupata dai partigiani nel breve intervallo fra l’esodo dei tedeschi e l’arrivo degli alleati, un famoso capo dei Garibaldini si era istallato col suo stato maggiore all’albergo Principi di Piemonte e circolava per la città su una scintillante macchina lunga come una locomotiva. Appena giunti, gli ufficiali inglesi si insediarono nell’albergo e, poco amanti della promiscuità, senza discorsi misero nella strada il personaggio, la sua gente e i suoi bagagli.
La casistica di questi fatterelli emblematici potrebbe continuare. In una cittadina del Veneto s’accese una mezza sommossa perché nel giro di poche ore diverse persone furono investite dalle jeeps che andavano a rotta di collo. Ma cosa credevano quei disgraziati? Che i liberatori al volante si prendessero scrupolo di chi in città o in campagna si trovava sulla loro pista? E ora volevano scacciarli dopo averli invocati e aiutati? I partigiani, oggetto di quelle attenzioni, li vedo ancora, dopo l’evento guardarsi intorno stupefatti, e il viso diceva meglio delle parole: <Ma allora!…>. Credevano nella loro contestazione d’aver acquistato il diritto di montare sulla carretta del vincitore e di dividerne l’alloggio per essersi fatti suoi ausiliari all’ultim’ora o per avere in precedenza tradito il proprio paese. Personalmente i miei colleghi superstiti ed io riscuotemmo dagli angloamericani, che tra loro ci chiamavano Italians gentlemen, il medesimo rispetto che avevamo riscosso dai tedeschi, piccolo fatto che avrebbe potuto confermarmi d’essere stato nel giusto, se ne avessi avuto bisogno.
In effetti non mi pento di nulla di ciò che ho fatto. Dinanzi alle medesime circostanze agirei domani come ieri ho agito, e sono convinto che se si vorrà edificare qualcosa di resistente, nelle armi come in ogni altro campo, bisognerà rifarsi ai principi nei quali noi crescemmo e che sono antichi come il mondo, bisognerà ricostruire dalle fondamenta ciò che l’odio fraterno e la follia autolesionista hanno distrutto. Per me, con tutta l’anima spero di non vedere il Paese ancora una volta alla prova, spero che mi sia risparmiata la trepidante angoscia di vedere in tensione la fune che si spezzò allo sforzo e che fu rattoppata.
Le immaginate, se nei primi fatti d’arme avessimo la peggio, le facce degli italiani, di quelli che vorranno la vittoria e di quelli che punteranno sulla sconfitta? E la faccia dei nostri eventuali alleati?
Come vecchio ufficiale, nella nuova situazione che si è determinata dopo tante rovine volute, mi sarei fatto in disparte da solo, e non era necessario che mi metteste alla porta. Ho cercato nella mia vita civile una professione che mi consente di tirare avanti e faccio voti che i giovani i quali affluiscono e affluiranno nella famiglia conoscano un giorno, recandosi in qualunque parte del mondo, la fierezza nazionale che noi conoscemmo e riscuotano la stima che noi riscuotemmo nella nostra giovinezza. >>
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*) Ernesto Botto (Torino, 8 novembre 1907- Torino, 9 dicembre 1984) fu ammesso all’Accademia Aeronautica di Caserta nel 1929. Nel 1931 entrò in servizio permanente effettivo e nello stesso anno venne nominato sottotenente del Ruolo Naviganti. Nel 1933 venne promosso tenente istruttore alla scuola caccia di Castiglione del Lago. Assegnato al 1° Stormo, poi nel 1936 al 57° diventò capitano nello stesso anno. Nel 1937 fu assegnato al 4° Stormo nella Guerra di Spagna. Il 27 ottobre 1937, nel corso di uno scontro a Fuentes de Ebro fu colpito alla gamba destra per cui gli fu amputata una parte e sostituita con un arto artificiale, da cui il soprannome gamba di ferro. Ritornato in Patria per un lungo periodo fu considerato non in grado di pilotare, ma nel 1938, dopo essersi allenato a pilotare nonostante le sue condizioni, gli fu affidato di comandare la 73° Squadriglia Caccia. Nel 1939 fu promosso Maggiore, poi nel 1940 in Libia, nel corso del conflitto, subì una ferita alla testa che lo rese definitivamente inadatto al volo. Nel 1941 venne promosso tenente colonnello e nel 1943 comandante della Scuola Caccia di Udine, poi a Gorizia. Collaborò alla ricostituzione nel Nord Italia della specialità aerosiluranti oltre a fondare l’Aeronautica Nazionale Repubblicana. Il 6 marzo 1944 fu nominato da Mussolini Sottosegretario di Stato e Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Nazionale Repubblicana. Nel 1945, dopo il conflitto, venne degradato a tenete colonnello per poi andare in congedo nel 1947. Da Wikipedia – Enciclopedia Libera).
**) Il governo Ferruccio Parri (capo della resistenza) succeduto a quelli di Badoglio e Bonomi, trovò il modo di far scendere in guerra di nuovo l’Italia, un Paese prostrato da cinque anni di disastroso conflitto. Il 14 luglio 1945 dichiarò guerra al Giappone ancora giuridicamente alleato e praticamente sconfitto. Dopo pochi giorni colpito da due bombe atomiche fu costretto alla resa definitiva. Ecco come Giano Accame etichetta l’impresa: <<L’infamia di quella decisione maramaldesca nei confronti di un popolo con cui non avevamo alcun motivo di contrasto (altro che pugnalata alla schiena della Francia nel 1940), fu sottoscritta da tutti i partiti che accusavano il fascismo per aver portato l’Italia in guerra>>. Non ci risulta che con il Paese del Sol Levante sia stato firmato alcun trattato di pace, quindi l’Italia dovrebbe ancora essere in stato di guerra col Giappone. (http://cronologia.leonardo.it).