<<l’Uniforme, il seriale, l’anonimo si sostituiscono all’unico, al determinato, all’individuale …>>. Così Remo Bodei in “Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze”, descrive il risultato di quella realizzazione di un “onnipotente meccanismo di riduzione dell’uomo a numero” di cui abbiamo detto nell’articolo di un mese fa. E continua rilevando come l’individuo venga <<standardizzato per mezzo di colossali programmi di riconversione delle coscienze e dell’inconscio (da piegare sistematicamente alle nuove direttrici dell’economia e della politica)>>.
E’ la mutazione dell’uomo che Gramsci, in “Americanismo e fordismo” definì <<un nuovo tipo di lavoratore e nuovo tipo di uomo>> ristrutturato nell’ <<equilibrio psico-fisico>>. Un mutante che << sente la necessità che tutto il mondo sia come una sola immensa fabbrica, organizzata con la stessa precisione, lo stesso metodo, lo stesso ordine che egli verifica essere vitale nella fabbrica dove lavora>> (da L’Ordine Nuovo).
Ordine progettato, realizzato e regolato dalla nuova figura scaturita dalla visione moderna del mondo come macchina: l’ingegnere, il prometeo della cultura meccanicistica, l’uomo della tecnica asservita all’economia. E’ lui che nella fabbrica instaura la disciplina del lavoro accentrato che – a dirla con Michel Foucault – “fabbrica” gli individui. Sarà sempre lui che trasferirà tale disciplina, che tanto successo ha raggiunto nel controllo e condizionamento degli individui, nella realizzazione dei nuovi insediamenti. Stalin lo definirà, a questo proposito, ingegnere dell’anima.
Sin dall’inizio della rivoluzione industriale, quando le esigenze della produzione portarono ad imporre l’accentramento della forza lavoro in luoghi diversi dall’abitazione, si pose il problema dell’insediamento di questi mutanti in continua crescita. Nella prima fase il problema fu affrontato dagli architetti. Gli unici che conoscessero l’arte di costruire la città perché in possesso di un linguaggio espressivamente e tecnicamente efficace ereditato dalla cultura tardo-barocca. Ma la nuova visione meccanicistica del mondo aveva messo in crisi tale linguaggio. Atto ad esprimere un mondo organico in cui l’uomo era sempre un individuo determinato in simbiotico rapporto con l’ambiente, si rivelava inadatto a rendere il mondo-fabbrica popolato da mutanti uniformi, seriali, anonimi e regolato da “leggi” economiche alle quali si attribuiva valenza universale.
Si ebbero, così, le città ottocentesche che furono definite “borghesi” come Parigi, Vienna ed altre sulla loro scia: estetizzanti nelle forme, ma inespressive della mutata condizione umana regolata dalla tecnica e governata dall’economia. Infatti gli elevatissimi risultati formali non bastarono, da soli, a giustificare la caduta di valore della città moderna da ambiente umano, espressione materializzata di civiltà, a valore economico di scambio. A Parigi ed a Vienna, ma non solo, apparve in tutta la sua brutale evidenza il limite dell’arte urbana tardo-barocca: la nuova concezione del terreno edificabile.
Nella sopraggiunta epoca moderna il suolo urbano venne inteso,non già come parte di un tutto – la città – subordinata, nella sua parzialità, alla realizzazione dell’organismo urbano, ma come bene indipendente con i suoi requisiti economici dovuti alla posizione, alla richiesta, ai vincoli regolamentari ecc. Iniziò da qui la speculazione fondiaria che trovò il suo brodo di coltura proprio nell’accrescimento della popolazione la cui esistenza era stata dissociata fra il luogo di lavoro, con la sua disciplina condizionante, e il luogo di residenza.
All’architetto costruttore del mondo si sostituì, allora, l’ingegnere. Padrone della nuova scienza delle costruzioni, oltre che “dominus” della fabbrica era anche costruttore di ponti e grandi strutture. Ciò lo faceva ritenere più adatto ad affrontare “sub specie oeconomiae” il problema di insediare e regolare l’informe accrescimento della popolazione. Il piano di Berlino del 1858 fu, infatti, redatto da un ingegnere dipendente del dipartimento di polizia, J.F.L. Hobrecht che impostò il piano di espansione della città da 480.000 a 4 milioni di abitanti inflazionando, sulla carta, il metodo della griglia di lotti amorfi edificati a “mietKasernen” d’affitto che già tanto squallore e tante epidemie avevano provocato nella città esistente. Il disegno formale della città rifece il verso ai modelli parigini e viennesi, ma senza alcuna considerazione dei caratteri di organicità che motivavano questi ultimi. In compenso Hobrecht diede avvio all’urbanistica, una tecnica di pianificazione in cerca di scienza per sostituire un’arte di costruire la città ormai sterile. Elaborò, infatti, con rigore prussiano la normativa ingegneristica degli standards urbanistici – da noi recepita 94 anni dopo – insieme al famigerato zoning che dissociò ancora di più – e dissocia tutt’ora
la vita dell’uomo affidando la coniugazione dei diversi momenti della sua esistenza alla mobilità veicolare.
Gli architetti, ridotti al rango di “estetisti”, decoratori di opere ingegneristiche, cercarono un possibile riscatto adottando, anch’essi, la visione meccanicistica del mondo, ma lo fecero con animo romantico pur dichiarandosi, secondo lo spirito del tempo, razionalisti. Fondarono il M.M. (Movimento Moderno) su basi ideologiche – non necessariamente politiche – e su tali ideologie tentarono di realizzare la periferia operaia, l’insediamento del mutante uomo nuovo, in contrapposizione con la periferia “borghese” realizzata “sub specie oeconomiae”.
I risultati sono tristemente noti.
Intanto dall’Europa il “virus” economicista, incubato dall’etica protestante, veicolato dalla nuova concezione del mondo macchina di matrice illuminista, si era diffuso nel pianeta contaminando civiltà spontaneamente organiche alterandone o distruggendone il peculiare equilibrio uomo-natura e asservendole alle “leggi” dell’economia applicate su scala globale. Prima fra tutte la legge di riduzione dell’uomo a numero, l’unico metodo per dominare il fenomeno della crescita inarrestabile della popolazione e tentare di affrontare il conseguente problema dell’inurbamento esteso ormai a scala planetaria.
Ancorché affascinante, la storia dell’inurbamento che va dalle città “borghesi” dell’ottocento alle 15 megalopoli da 25 milioni di individui che il McKinsey Global Institute ha censito in Cina analizzando il processo attraverso i passaggi dalla città industriale alla città dei servizi ed a quella dei divertimenti, è troppo lunga per essere riportata, sia pure sommariamente, in un articolo come questo. Basti dire che la organica città degli uomini di epoca pre-industriale, progressivamente scomparve sommersa dalle periferie abitate dai mutanti di prima generazione e da quelli succeduti all’uomo nuovo “fabbricato” dall’industria e di questo più “evoluti”. Il veloce processo di proletarizzazione che l’economia, più o meno consciamente, favorì, si valse di un altro tipo di condizionamento, assai più soft del precedente, esercitato dal consumismo. Lo stesso che nei tempi attuali, potenziato dalle protesi elettroniche e digitali, ha formato il mutante di ultima generazione: il cyborg.
Se potessimo, spazio permettendo,descrivere la storia dell’urbanistica, dalla trattazione emergerebbe la lunga serie di fallimenti della cultura moderna della città. Dal 1852, anno della trasformazione e infrastrutturazione di Parigi, in poi, perduta l’arte di costruire la città, nonostante la disponibilità e la ricchezza di mezzi ed il possesso di tecniche sofisticatissime e potenti, è dovuta ricorrere al condizionamento, alla distruzione dell’identità degli individui, al cambiamento della loro natura per riuscire a far sopravvivere i sette miliardi di abitanti del pianeta in insediamenti alienanti. Raggiunti i sette miliardi di abitanti è forse giunto il tempo del riscatto.
Il tempo della rivoluzione-evoluzione culturale per liberarsi dalla schiavitù imposta dal totalitarismo economicista. Non si tratta tanto del servaggio imposto dalle banche e dai “poteri forti” di cui tutti siamo ormai consapevoli, quanto della sottomissione ad una certa visione del mondo che perfino la scienza più avanzata e svincolata dalla tecnica ha relegato fra gli errori del pensiero. Il mondo non è quella macchina che il secolo dei lumi ci lasciò in eredità e le “leggi” dell’economia non sono leggi della natura, ma concezioni autoreferenziali. Funzionano – nemmeno tanto bene – solo in ambito virtuale talchè è necessario, per tradurle in pratica, costringere il mondo reale ad adeguarsi a schemi elaborati e controllati dal potere economico. Da qui il totalitarismo.
Infine: è indubbio che in campo settoriale la tecnica, ancella dell’economia, abbia raggiunto,sotto la guida della scienza, traguardi impensabili in passato e continui a raggiungerne ancora ogni giorno che passa, ma da sola non costruisce il mondo dell’uomo; costruisce, come abbiamo visto, l’uomo per il mondo della tecnica. Per uscirne occorre sottrarsi al condizionamento che viene esercitato soprattutto dall’ambiente. E questa volta non si tratta soltanto della fabbrica o del luogo di lavoro. Il condizionamento, da tempo, avviene nelle periferie, negli affollati agglomerati urbani, in quelle che impropriamente chiamiamo città. Il riscatto deve partire da lì.