Post 1945, tutte le guerre nate dalla pace

14 Febbraio 2018

Fonti: Hoepli.it, IBS.it, books.google.com

 

 

 

 

1946 – LA GUERRA IN TEMPO DI PACE

Sebestyen Victor    

 

 

La fine della Seconda guerra mondiale non fu immediata. Non ci fu nessun ritorno istantaneo alla pace: decine di milioni di profughi, sopravvissuti e prigionieri rimasero in preda alla fame, alle malattie, alle vendette dei vincitori. Le macerie delle città bombardate rimasero dov’erano per anni, soprattutto nella Germania sconfitta. Il primo anno del dopoguerra segnò anche il culmine delle tensioni tra Truman e Stalin, mentre in Cina vennero gettate le premesse per l’ascesa di Mao; si affermò il Congresso Nazionale Indiano di Gandhi, mentre in Medio Oriente prendeva corpo l’idea di uno Stato d’Israele. Quando comincia una guerra e quando finisce? Quali sono le tracce che non si possono cancellare? Ogni guerra genera altre guerre?

 

Editore: Rizzoli
Titolo: 1946 – La guerra in tempo di pace
Autore: Sebestyen Victor   
ISBN: 9788817086011
Collana: SAGGI STRANIERI’
Formato: Rilegato
Pagine: 330
    Traduttore: Didero D.; Zucchetti A.

 

RECENSIONI:

LA STAMPA.IT

l’«anno zero» dell’europa

1946, tra carrozzine e biancheria intima il mondo ricomincia

Macerie, fame, vendette, milioni di profughi: la fine della guerra non fu (subito) l’inizio della pace
Carlo Greppi

Victor Sebestyen «La guerra in tempo di pace» Rizzoli pp. 490, €28

«Credi che questa faccenda finirà, un giorno?». «Non so. Mio padre diceva che dipende dalla battaglia». «Quale battaglia?». «La battaglia di Stalingrado». […] «E che faranno, i nostri amici, quando avranno vinto la battaglia?». «Faranno un mondo nuovo». «Noi non potremo aiutarli. Siamo troppo piccoli. Peccato». Nel romanzo d’esordio di Romain Gary uscito nel 1945, Educazione europea , in questo dialogo tra due ragazzini costretti a crescere troppo in fretta, leggiamo le illusioni e le speranze del mondo in guerra. Le stesse che Curzio Malaparte, vedendone la fine, evidenziava così in Kaputt : «Preferisco che tutto sia da rifare, al dover tutto accettare come un’eredità immutabile».
Pianeta Terra, 1946. È la difficile transizione alla pace, è l’incubazione della Guerra fredda a colpi di prime crisi petrolifere e bracci di ferro spionistici e diplomatici, è un groviglio di occupazioni e liberazioni, pulizie etniche ante litteram, espulsioni di massa, è la carenza endemica di cibo. «I tedeschi – ci racconta Victor Sebestyen – la chiamavano Stunde Null, ora zero. È inutile dire che nella storia o nella vita non esiste niente di simile: tutto comincia in qualche modo, dal niente non nasce niente». Eppure il libro dello storico, scrittore e giornalista ungherese Sebestyen – arrivato in Italia da Rizzoli e risultato di molti anni di viaggi e ricerche – riesce a fotografare proprio quel momento, quello in cui sembra che tutto finisca, o che tutto abbia inizio.
Le pagine di 1946. La guerra in tempo di pace trascinano il lettore con maestria in oltre trenta «quadri» che si aprono con scene quasi cinematografiche, e che insieme compongono un affresco terribile e meraviglioso di un pianeta ancora in ginocchio, nell’immediato dopoguerra. L’andamento narrativo coinvolgente del libro ci fa respirare una storiografia divulgativa lontana da polemiche ideologiche: al contrario, l’autore propone prospettive complesse sugli eventi e sui processi storici che hanno segnato l’anno 1946. Colpisce, ad esempio, l’equilibrio del giudizio con cui affronta l’inestricabile dilemma del tentativo di denazificazione della Germania e della «ristrutturazione» imposta al Giappone e, sebbene sfortunatamente l’Italia manchi dall’affresco, l’indagine di Sebestyen si estende anche ai paesi dove erano dilagati i fascismi e i collaborazionismi europei.
L’autore è tuttavia ben conscio del fatto che, come il conflitto, anche il suo dopoguerra fu mondiale, e uno dei maggiori pregi di 1946 è proprio il suo farsi world history, intrecciando al contempo la storia politico-diplomatica di quattro continenti con quella «dal basso», focalizzandosi su come le popolazioni di allora provarono a uscire dalla carneficina del 1939-1945, in Cina come nel subcontinente indiano, nel nascente Stato d’Israele come in Iran. E anche su questa sponda del mondo, naturalmente.
«Qual è la condizione in cui è stata ridotta l’Europa? In vaste regioni, grandi masse tremanti di esseri umani tormentati, affamati, angosciati e smarriti guardano con sconcerto le rovine delle loro città e delle loro case, e scrutano foschi orizzonti temendo l’approssimarsi di qualche nuovo pericolo, tirannia o terrore», osservava Winston Churchill il 19 settembre del 1946. «Ma, come capita spesso – scrive Sebestyen riferendosi ai mesi successivi –, è nelle cose apparentemente piccole che si possono scorgere i primi segnali. […] nei grandi magazzini di Parigi frequentati dalle donne, la merce più venduta era, non c’è da stupirsi, la biancheria intima. Ma il secondo articolo più ordinato erano le carrozzine, un voto di fiducia biologico nel futuro». E allora, mantenendo lo zoom sulla nostra Europa, l’immagine che resta impressa è quella di un continente sgretolato, è vero, ma nel quale affiorava una straordinaria voglia di vivere. Ci ritorna più volte, l’autore ungherese: «molti cooperanti – spesso appartenenti a organizzazioni religiose – si dissero scioccati per come i campi [per gli sfollati] fossero luoghi di febbrile attività sessuale», racconta nel capitolo dedicato all’Amministrazione delle Nazioni Unite per l’assistenza e la riabilitazione (UNNRA), dal titolo «Rifugiati». Ed è proprio in queste pagine, tra le continue tensioni che opponevano cooperanti, politici e militari (che erano preparati a combattere, non ad assistere), che intercettiamo il problema oggi più attuale, doloroso, stringente. Nelle parole dell’amministratore di un campo troviamo forse anche la soluzione: «L’atteggiamento standard era quello di considerarlo come un problema logistico più che umanitario».
Ad aver bisogno di aiuto, allora, erano gli europei, oramai indissolubilmente legati tra loro anche dalla voglia di lasciarsi alle spalle la guerra, di dimenticare quel mondo in cui milioni erano i morti, e milioni stavano ancora vagando alla ricerca di una meta. Perché, per molti, una casa alla quale tornare non c’era.

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ART-LITTERAM.COM

1946. LA GUERRA IN TEMPO DI PACE di VICTOR SEBESTYEN

 
Il libro di Victor Sebestyen, che ho terminato di leggere in questi giorni, rappresenta un affresco ampio e dettagliato della nostra storia più recente, tutta incentrata su un solo anno, il 1946. Un anno zero come ve ne sono molti, ciascuno dei quali dà avvio a un nuovo inizio.
Il 1946 è l’anno in cui si gettano le basi del mondo così come lo conosciamo e lo abitiamo, siano esse la guerra fredda, la crisi del modello imperialista ottocentesco, l’inasprirsi del conflitto arabo-israeliano.
In Europa la situazione post-bellica è gravissima: non si produce nulla, milioni di persone soffrono di stenti e la fame. Le parole d’ordine sono: garantire a tutti l’istruzione gratuita, improntare un sistema di assistenza sanitaria e di assicurazione sociale, incoraggiare la piena occupazione, ricreare dal nulla un’economia che consenta all’Occidente di rialzarsi per prosperare di nuovo. È allora che il mondo conosciuto si divide in due blocchi sui quali vigilano le due superpotenze emergenti: Stati Uniti e Russia.
È anche l’anno in cui troppi conti sono da chiudere, affinché non scoppi di lì a poco un terzo conflitto mondiale, di cui sembrano esservi tutte le premesse:
1. L’Iran diviene una vera e propria terra di conquista per chi si contende lo sfruttamento dei suoi giacimenti di petrolio: Gran Bretagna, Stati Uniti e Russia.
2. destare preoccupazione sono l’escalation dell’aggressività dei sovietici, la pressione per avere in Turchia una base militare, il desiderio ossessivo di colmare il divario tecnologico-scientifico con l’Occidente.
3.  la questione greca, baluardo contro la diffusione del comunismo in Europa, non è né la prima né l’ultima.
Gli Stati Uniti corrono ai ripari con il piano Marshall: se l’Europa è troppo importante per lasciarla agli Europei, non possono permettersi che cada nelle mani della Russia di Stalin, complice il tracollo economico di quegli anni difficili. Il timore dell’infiltrazione comunista in Europa e in USA diviene una vera e propria ossessione ai limiti dell’isteria, come ben evidenzia il film Goodnight and goodluck (2005) diretto da George Clooney.
Fanno presto ad affiorare contraddizioni mai risolte e, di fatto, irrisolvibili. Da una parte occorre far ripartire l’economia, ma dall’altra porre in atto un serio processo di denazificazione. Ciò però significa, in Germania, mettere al bando intere categorie professionali. È plausibile licenziare i 2/3 del corpo docente di scuole e istituti universitari?
Non solo. Risulta di fatto improponibile perseguire ciascun criminale di guerra. Uno fra tutti l’imperatore Hirohito che sembra, almeno sulla carta, avere grosse responsabilità. Non è pensabile processare o addirittura giustiziare il simbolo del Giappone senza prospettare tutta una serie di conseguenze difficili da gestire.
Tra l’altro, in Occidente, l’idea stessa di impero diventa critica, e non solo per una questione di costi. La Gran Bretagna non ha assolutamente i mezzi per mantenere la sua presenza in Medio Oriente, deve scervellarsi non poco per andarsene dall’India senza perdere la faccia. Non si parla più di imperi ma di superpotenze e sono queste (Usa e Urss) a fare il bello e il cattivo tempo, assai sensibili nell’evitare di avere, intorno, altri concorrenti.
Già qui una riflessione di fondo si impone: perché è difficile vedere questa gran differenza tra l’imperialismo statunitense, sovietico, inglese, cinese e giapponese e l’avventura in Africa di Mussolini.
Un altro prodotto, non da poco, di quell’anno sarà l’inasprimento del conflitto arabo israeliano dovuto alla futura proclamazione dello stato di Israele:
Lo storico George Antonius difese con fervore le ragioni arabe: «Noi tutti proviamo solidarietà per gli ebrei e siamo scioccati di fronte al modo in cui le nazioni cristiane li perseguitano. Ma vi aspettate che i musulmani della Palestina siano più “cristiani” e più umanitari dei seguaci di Cristo?» (p. 281)
Come scriveva Manzoni, del senno di poi son piene le fosse e forse non era possibile evitare, in qualche altra parte del mondo, una questione ebraica. Anzi. Victor Sebestyen ricorda i pogrom del dopoguerra, contro gli ebrei sopravvissuti che tornavano alle loro case. L’Occidente ha risolto il suo problema esportandolo altrove, rendendo assai emblematico e sempre più attuale il sottotitolo del libro esaminato: la guerra in tempo di pace.

Davide Dotto