Mini: quale dibattito a Destra?

 

9 Dicembre 2008 

Mino Mini

 

 

Intervento al CONVEGNO del 6 Dicembre 2008

 

“La nostra Europa, dall’Atlantico agli Urali per il progresso dei Popoli”

 

 

 

          C’è insofferenza a destra. Con un articolo su “Il Giornale” titolato “Perché la Destra ha paura della cultura” Stenio Solinas ha innescato un dibattito che “ per farla finita con i piagnistei” ha visto l’intervento di diversi esponenti dell’area cosiddetta moderata. Tutti improntati ad individuare la base culturale che dovrà guidare il fare politico futuro. Base culturale che, però, sembra perdere di vista il significato originale del termine cultura. Uno dei più autorevoli vocabolari della lingua italiana dà questa definizione della cultura: il complesso delle manifestazioni della vita materiale, sociale e spirituale di un popolo o di un gruppo etnico.

 

        Ebbene in quanto architetto, anche se controcorrente, ravviso in questa definizione l’immagine della città anteriore alla rivoluzione industriale. Quella che, ad esempio, a Roma si può ravvisare in meno del 6% dell’edificato. La città, dunque, in termini di strade, spazi urbani, edifici speciali etc., altro non è se non cultura materializzata resa, cioè, concreta, tangibile.

 

         Parlare di cultura, allora, significa parlare di città. Ma se, come avviene a Roma e in tutta Europa – ma il fenomeno è universale – il 94% dell’edificato è periferia, ovvero un insieme di case senza città, dove la vita materiale della citata definizione di cultura viene spezzata e dissolta in più luoghi diversi costringendo l’uomo a doversi spostare in continuazione per ricucire i frammenti sparsi della propria esistenza dilapidando in questo modo il proprio tempo e le proprie risorse ed inquinando l’ambiente;

se la vita sociale si riduce ad esprimersi nei centri commerciali che scimmiottano le strade e i luoghi d’incontro di una vera città, oppure si manifesta negli stadi dove trova sfogo, nello scontro tra tifoserie, il conflitto tra opposte fazioni di emarginati;

se la vita spirituale, perso il senso del sacro, non si concretizza più in edifici aperti allo spazio urbano qualificandolo con la loro valenza simbolica e la rilevanza architettonica, ma gli stessi si rinchiudono entro un lotto recintato alla stregua di una qualsiasi casa da suburbio cercando di catturare l’attenzione dei fedeli con l’astrusità della loro architettura, ci domandiamo:  di quale cultura stanno parlando gli amici intervenuti nel dibattito su Il Giornale?

 

        A quale cultura, di destra o di sinistra appartiene la non città, la conurbazione, la periferia dove la vita sociale si esprime, prevalentemente, nelle diverse forme di conflitto autolivellante tra opposte fazioni di emarginati, siano essi ciò che resta dei proletari ormai imborghesiti per i quali, negli ultimi sessant’anni, furono realizzati dalla sinistra i ghetti di edilizia economica e popolare, siano, invece, i borghesi a loro volta proletarizzati in quanto “ normalizzati a taglia unica “, per i quali fu realizzata, dal liberismo economico, la espansione monofunzionale dell’edificato, siano, ancora, parte di questi ultimi che, in aperta disobbedienza civile, si sono autoemarginati realizzando – da noi – la pletora degli anomici insediamenti abusivi. Quella periferia dove la vita spirituale viene ottusa dallo sfrenato soddisfacimento delle pulsioni meramente animali togliendo all’uomo la coscienza della propria identità; dove la conseguenza di tutto questo è l’alienazione dell’uomo dal proprio ambiente, la paura continua delle giovani generazioni per il proprio futuro senza che possa individuarsi un fine, un obiettivo da dare all’esistenza altro che la ricerca consolatoria nello stordimento consumistico, l’evasione nella droga o nel furore della rivolta.

 

        Tutto ciò appartiene alla cultura meccanicistica di cui la sinistra e la destra liberista sono espressione. Incubatrice della vecchia e sclerotica modernità che concepisce il mondo come una macchina composta di parti smontabili a piacere, questa cultura si è rivelata prolifica nella componente economica, efficientissima fino all’incredibile nel campo della tecnica, feconda e prolifica nel settore della scienza disarticolata nelle diverse specializzazioni disciplinari, ma desolatamente sterile quando si è trattato di rimontare le parti smembrate dell’esistenza per costruire il mondo nuovo. Non c’è stata la capacità creativa in grado di ricondurre le forze inflattive scatenate dagli apprendisti stregoni della tecnica, dell’economia, della scienza nell’alveo dell’unità, ovvero della civiltà.

 

        Esiste, però, un’altra destra che non si colloca all’interno della cultura meccanicistica come terza via, ma si situa oltre, al di sopra delle logore e strumentali contrapposizioni di destra e di sinistra volta alla ricerca della dimensione intellettuale in grado di far compiere alla cultura il salto evolutivo che la liberi dal ciclo involutivo nel quale è imprigionata e dove rischia di perdere i risultati positivi conseguiti fino ad oggi declinando in una caduta progressiva della civiltà. Una destra che si proietta nella dimensione europea concependo l’Europa non, meccanicisticamente, come mera sommatoria degli stati che la costituiscono, ma come un organismo complesso che è molto di più che la somma delle sue parti. Un di più che inglobi, senza intaccarli nella loro identità, gli odierni stati europei in un nuovo nomos di grado superiore. Un organismo le cui proprietà peculiari non appartengono ai singoli stati componenti  ma possiede di questi,come patrimonio insostituibile, i loro geni.

 

        Il tempo, che l’economia di questo convegno consente di mettere a disposizione di ciascun relatore,  è troppo esiguo perché si possano dispiegare più estesamente i concetti che sono stati formulati. Soprattutto quello riguardante la visione dell’Europa nei suoi diversi gradi concettuali: della definizione dei suoi elementi costitutivi, della correlazione fra gli stessi a formare le strutture territoriali, il sistema delle stesse a formare le istituzioni etico-politiche, l’organismo compiuto. Si rinvia tutto ad un’altra occasione e in un’altra forma di comunicazione.

 

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