LIBERISMO AL BIVIO: SPECULAZIONI, CRISI ECONOMICHE E RUOLO DEGLI STATI

 6 Gennaio 2008                                                                                                              (fonte: Parvapolis)

Domenico Cambareri 

Titolo in “prima” : Gli Stati disarmati di fronte alle speculazioni di borsa. Il re è nudo e i popoli pagano

Ecco il regalo della Befana: cari politici, pensate a non fare più debiti, ma soprattutto pensate a non far pagare più i debiti e i furti degli altri alla comunità. Gli strumenti più sofisticati del mondo finanziario teso alla fraudolenza sono criminali come quelli delle mafie. Il liberismo al capolinea: esso non è un dogma. I  politici e i dottrinari devono ripensare ruoli e rapporti fra politica ed economia, sia a Washington che a Londra e altrove. Questo potrà segnare una svolta epocale.

I bambini questa mattina si staranno trastullando con i regali che hanno trovato, forse meno ricchi del solito, portati in dono dalla Befana. Gli adulti si trovano invece, già dal capodanno, alle prese con un anno che sotto il profilo economico si prospetta con il segno negativo in tutto il suo sviluppo, salvo contenute eccezioni. Il problema è che la crisi c’è, ma si continua a non capire come essa, dopo la sua nascita in un ambito ben delimitato della finanza, è effettivamente cresciuta a dismisura, assolutamente  anonima, invisibile ed ubiqua e metamorfica e onnipotente. L’uomo comune e il politico, non meno dell’economista e dell’esperto in investimenti finanziari, continuano a porsi mille e mille domande, domande che non trovano risposte adeguate.  Al di là dei tecnicismi e delle sofisticate elucubrazioni, a distanza di mesi dall’esplosione del fenomeno inizialmente delineato con termini netti perentori e ultrarassicuranti come pressoché esclusivamente americano, le spiegazioni date risultano ancora oggi a dir poco inadeguate, approssimate, non veritiere o parzialmente veritiere.
Il fatto è che tutto il mondo politico occidentale, il cui atteggiamento è condensabile in quelli che sono stati i ripetuti, rassicuranti messaggi del presidente americano Bush sulla solidità dei “fondamentali” dell’economia USA, ha fatto ala al diffondersi della crisi con un atteggiamento disorientato e disorientante, incapace, irresponsabile, Da questa macroscopica lezione di fallimento non osmotizzato, non dichiarato e addirittura celato,  vien fuori la presa d’atto della completa impotenza e subordinazione della politica davanti all’onnipotenza della dimensione operativa della finanza. Senza dubbio, nell’ambito stesso delle attività finanziaria vi sono state le prime vittime di quello che oggi è, nelle sue reali dimensioni, un disastro planetario economico e politico. Ciò è comprensibile, proprio in quanto la finanza è l’espressione più qualificata dell’ambito economico in cui si opera a 360° esclusivamente ed ininterrottamente in funzione dell’accrescimento dei profitti. Comprensibile non significa tuttavia, anche entro un’ottica assolutamente “neutra”, giustificabile e da giustificare nell’ambito delle tendenze e dei risultati e delle ulteriori previsioni e proiezioni dell’immediato futuribile dello stesso mondo finanziario. E di quello economico in generale. E, infine e soprattutto, di quello politico.
Il fatto è che il mondo politico non è stato messo a nudo da questa crisi finanziaria ed economica. Esso si è trovato, si è visto nella sua effettiva, reale condizione quale da tempo è: quello di essersi esso stesso messo a nudo, di essersi denudato. Nudità quale condizione di porsi-volontariamente-nell’assoluta-condizione-di-impotenza. Di impotenza di fronte ad avvenimenti di dimensioni grandi e meno grandi nati e provenienti dalla sfera dell’economia. Impotenza conclamata e resa assoluta dalla sua incapacità di esercitare chiari ruoli potestativi di fronte alla “separatezza” dell’economico. Impotenza conclamata e resa assoluta dalla sua incapacità di  verificare, anche nel caso più direttamente in questione, nel corso di tanti lunghi mesi di straripante crisi, l’inidoneità degli organi e degli organismi nazionali e internazionali, finanziari, economici  privati e pubblici di investigare, prevenire, individuare, arginare, reprimere, colpire in tempo con strumenti affidabili l’elusività dei processi criminosi di scomposizione e ricomposizione atomica della finanza virtuale mondializzata.  
Le scelte che in origine nascono e riposano in “meta-principi” ideologici; le scelte che sembrano riposare nel sonno degli immemori, che si impongono nella vita quotidiana come dogmi scontati, ovvii, indiscutibili – come peculiarità primarie eccelse ed irrinunciabili proprie del liberismo ed oggi del liberismo mondializzato – , quindi, nel momento in cui improvvisamente e realmente nascono crescono e si affermano  fenomeni culturalmente resi già illo tempore incontrastabili e incontrastati, queste scelte dunque fanno pagare il fìo. E’, insomma, l’essere arrivati al capolinea di un discorso che ha origine nel tempo e che per acritiche scelte ideologiche mai è stato seriamente affrontato, mai è stato criticamente affrontato. Dai politici, dai teorici della politica, dai dottrinari dello Stato in regime di economia liberista.
Ma può rendersi uno Stato idealmente e programmaticamente subalterno dell’economia?  Può uno Stato, può un’economia stessa, possono essi  rimanere vittime del modus operandi di settori delimitatissimi quanto qualificatissimi che perseguono fini esclusivamente di profitto speculativo senza neppur partecipare alla messa in opera del virtuosismo economico del “volano” investimenti-produzione-(lavoro)-guadagni?  Può un’economia liberista andare allo sbando per lasciar fare sempre e comunque in investimenti speculativi in cui si utilizzano i parametri del superfluo e del consumo fine a se stesso e dell’indebitamento improduttivo e spendaccione come “fondamentali” atti ad orientare gli “investimenti” dei clienti; per lasciar fare e paciosamente far pascolare  procacciatori di simili “investimenti”, i quali però investono esclusivamente nella velocità del ciclo virtuale della finanza internazionale e delle sue scatole cinesi, sfruttando sino all’estremo la sopportabilità e l’assorbimento di tutti i contraccolpi negativi da parte del sistema economico che alla fine, esausto, repentinamente ma non imprevedibilmente si trasforma da aperto in chiuso?
E’ tardi, ma mai è troppo tardi, per riaprire capitoli da lungo tempo sigillati. E’ tardi, ma mai è troppo tardi, per sottrarsi al coltivato fascino della “democrazia” americana. E’ tardi, ma mai troppo tardi, per abbandonare l’idolo inglese della Banca centrale con capitali privati. E’ tardi, ma mai è troppo tardi, perché si ritrovi il coraggio di affrontare l’origine di questi problemi in appositi luoghi di confronto che rifuggano la metafisicizzazione  dei modelli e degli opposti, la lotta sempre e comunque al mercato e al profitto, le utopie marxiste ma anche quelle dell’umanesimo del lavoro (le quali ultime possono però servire, anche egregiamente, come linea di tendenza, curvatura atta non a modellare l’economico ma a far riconoscere e rispettare da esso l’esigenza di fattori estrinseci al profitto ma ad esso comprimari e con esso interagenti sia nel contesto degli interessi generali del sistema economico sia di quello pubblico). E’ tardi, ma mai troppo tardi, perché lo Stato ripensi e ridefinisca, perché gli Stati ripensino e ridefiniscano diritti, doveri, ruoli che ad essi competono e spettano in un quadro di economia libera, atti a garantire la difesa degli interessi generali della collettività e dei singoli cittadini entro l’obbligante l’ottica per i governi e i parlamenti che includa la difesa del diritto delle future generazioni dalle manipolazioni provocate dagli indebitamenti pubblici e dai collassi nel/del sistema economico, le cui “sofferenze” poi sono spalmati su tutto il mondo produttivo e su quello sociale, quindi anche sulle stesse vittime e sui cittadini del tutto estranei.
E’ tardi, ma mai troppo tardi, perché l’acritico e apologetico modello del liberismo ad ogni costo e con tutti i costi cominci ad essere ridefinito e obliterato. Perché l’ambito dei poteri dello Stato, degli Stati, della politica, dell’esercizio di vigilanza e garanzia delle Banche centrali e degli organi di autogoverno delle Borse (che non possono essere resi autonomi  e  impermeabili di fronte all’azione autoritativa pubblica), sia non solo di indirizzo ma attività investigativa sempre in fieri. In tutto e per tutto. Adeguando e prevenendo il più possibile, incessantemente, con una rivoluzione legislativa e giuridica vera e propria, senza vischiosità, l’azione pubblica allo sviluppo concettuale delle modalità elusive e delle raffinatezza del relativo modus operandi degli investimenti finanziari. In particolare di quegli “investimenti” che si garantiscono  entro reinvestimenti “protettivi” non virtuosi di natura esclusivamente finanziario-monetaria e/o non soddisfano i requisiti  di onorabilità e credibilità certe del rientro del valore monetario concesso, garantendolo con scatole cinesi complementari, ovvero con cappi al collo dei beneficiari poco attenti. Per arrivare ad annullare in buona misura tutta questa casistica parassitaria e fallimentare, non necessita la risposta empirica ai singoli espedienti di volta in volta individuati. Occorre ripensare e ridefinire totalmente senza scandali e crociate la realtà effettiva del liberismo e dei suoi campi aperti. Occorre ripensare e ridefinire totalmente l’obbligo di garanzia dei diritti e degli interessi  morali e materiali della collettività e dello stesso sistema economico che lo Stato deve fornire, senza più giustapporli alle “crisi cicliche” , ai fallimenti camuffati pilotati e ritardati, alle ancor più devastanti e inattese crisi non cicliche. Occorre, insomma, che le perdite di altri non vengano fatte pagare, “spalmate”, ad altre persone.                                                                                                                                                                   E’ una sfida di crescita e di civiltà. E’ un obbligo di fronte a cui lo Stato, gli Stati oggi non possono più sottrarsi di adempiere. Altrimenti, ci troveremo ancora davanti non al dilemma né al contrasto ma alla cruda, banale realtà di avere organizzazioni statuali che si muovono in  assoluta diacronia storica rispetto al mondo economico e sociale che dovrebbero governare.
                                                                       

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