Pnesioni, parità tra donne e uomini o sanzioni dell’UE

 

25 Gennaio 2009

Fonte: Corriere della Sera.it

Enrico Marro

 

«In pensione a 65 anni? Meglio la scelta tra 62 e 67»

Economia Il caso Le proposte dopo la sentenza della Corte di giustizia europea che impone la stessa età di fine lavoro per uomini e donne
«In pensione a 65 anni? Meglio la scelta tra 62 e 67»
ROMA-Discriminate sotto molti punti di vista, le lavoratrici del pubblico impiego sarebbero invece favorite dalle norme previdenziali. La controversa questione è stata sollevata in seguito alla sentenza della Corte di giustizia europea del 13 novembre scorso. Vediamo i fatti. Le lavoratrici, in Italia, possono andare in pensione 5 anni prima degli uomini, nel pubblico come nel privato.
La legge fissa infatti per loro a 60 anni il diritto alla pensione di vecchiaia mentre gli uomini devono aspettare 65 anni. Una condizione che la Corte europea ha ritenuto discriminatoria, al termine di un contenzioso tra il governo italiano e la commissione Ue cominciato nel 2005. Per Bruxelles infatti, in base all’articolo 141 del trattato comunitario, avere una legislazione pensionistica che tratta in maniera diversa le persone in base al sesso non è possibile. Nel caso italiano, la discriminazione, disse la commissione, è-una volta tanto-ai danni degli uomini. Questi, infatti, sono costretti a lavorare 5 anni di più. Il nostro governo, durante la controversia durata ben tre anni, si è difeso argomentando, tra l’altro, che le norme a favore delle donne si giustificano con l’obiettivo di compensare il gentil sesso di tante altre condizioni meno vantaggiose rispetto ai maschi.
Ma la Corte ha respinto questa tesi, ribattendo che non è quella del pensionamento anticipato la strada per aiutare le donne, perché, oltretutto, così le si penalizza sul piano della carriera, della retribuzione e della conseguente pensione. Insomma un tira e molla che si è concluso appunto con la sentenza di condanna dell’Italia. Se il nostro governo non si adeguerà, dovrà pagare una multa di 9,9 milioni più una somma oscillante tra 22 mila e 70 mila euro per ogni giorno di ritardo nell’attuazione della sentenza. Per bloccare queste ammende l’esecutivo ha già risposto a Bruxelles che la sentenza sarà applicata e il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, ha già formulato una serie di proposte. Nel governo e nella maggioranza però le posizioni sono diverse. Il titolare del Welfare, Maurizio Sacconi, è per fare il minimo indispensabile: aumentare gradualmente (un anno ogni 18-24 mesi) l’età per la pensione di vecchiaia delle donne e solo per il pubblico impiego, visto che la sentenza si limita a esaminare il settore dello Stato. Frena anche il ministro delle Pari opportunità, Mara Carfagna, a favore di un intervento solo sulle dipendenti pubbliche e comunque «non prima del 2010».
Altri invece vorrebbero cogliere l’occasione della sentenza per parificare l’età pensionabile tra uomini e donne per tutti i lavoratori (quindi anche quelli del settore privato) reintroducendo la fascia di pensionamento flessibile prevista dalla riforma Dini del 1995 (poi abolita dalla legge Maroni), sia pure adeguata all’allungamento della speranza di vita. Il vicepresidente della commissione Lavoro del Senato, Giuliano Cazzola, propone per esempio di fissare una fascia di 62-67 anni all’interno della quale ciascun lavoratore, senza distinzione di sesso, potrebbe scegliere liberamente il momento di lasciare il lavoro. Ovviamente, più tardi andrebbe in pensione e più alto sarebbe l’assegno cui avrebbe diritto mensilmente.
A ben vedere sarebbe questa l’operazione che metterebbe sicuramente al riparo il governo da altre sorprese. Come dice infatti il rapporto Brunetta all’attenzione di tutto il governo, mantenere età diverse in base al sesso rischia di causare esiti paradossali: un lavoratore maschio potrebbe rivolgersi al giudice per ottenere la pensione di vecchiaia alla stessa età delle donne (60 anni o anche di più, nel caso si decidesse un aumento graduale) anziché 65. E il giudice dovrebbe disapplicare le leggi nazionali e far prevalere la normativa europea, «con una parificazione al ribasso dell’età pensionabile pregiudizievole per il bilancio dello Stato», si sottolinea nel dossier. Comunque, già oggi ben il 66% delle lavoratrici del pubblico impiego continua a lavorare oltre i 60 anni d’età, perché in base alle leggi è consentito alle donne di arrivare fino a 65 anni (così anche nel privato) e in alcuni comparti fino a 67 anni.
Così alla fine, secondo i dati Eurostat riferiti al 2007 per il complesso dei lavoratori (privati e pubblici), l’età media di pensionamento in Italia (vecchiaia e anzianità) è di 59,8 anni per le donne e di 61 anni per gli uomini, numeri appena inferiori alla media dei Paesi dell’euro (60,9 anni le donne, 61,6 gli uomini). Dati che sgonfiano la presunta anomalia italiana e che confermano come forse non si tratti tanto di aumentare l’età pensionabile delle donne, ma di mettere tutti sullo stesso piano in un quadro di flessibilità che, come dimostra ancora una volta la grave crisi economica e finanziaria, serve alle imprese e serve ai lavoratori.

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