QUALE LIBERTA’ TRA MANAGER, SCATOLE CINESI, PROFITTI E DISASTRI

14 Febbraio 2009

Domenico Cambareri

(Fonte: Parvapolis)

CRISI FINANZIARIA, CRISI SOCIALE. IL RUOLO DEL MANAGEMENT E LA SUA ANALOGIA CON I REGIMI COMUNISTI. PER ANDARE OLTRE, RIPENSARE E RIFORMARE IL MODELLO A STELLE E STRISCE. RECUPERARE LA VIA ITALIANA SCONFITTA DALLA GUERRA, NON NEI CONTENUTI. RISCATTARE LO STATO INNANZI ALL’ECONOMICO. A GARANZIA DELLA LIBERTA’ D’IMPRESA E DEL LAVORO DEI POPOLI

 

   La crisi finanziaria diventata crisi industriale ed economica e poi subitamente sociale e politica dimostra come fattori “virtuali” subdoli e mimetizzati nel tempo (per commercializzazioni e operazioni criminose che hanno spacciato “vuoti a perdere”, reiterate  accolte e coperte dall’inazione del modus operandi bancario – finanziario, cioè da opportunismo e convenienze di comodo e viete, tipiche del più classico non sentire non vedere non sapere) possono arrecare colpi di maglio inauditi al punto di mettere in ginocchio sistemi complessi interagenti complementari e integrati quali sono quelli realizzati in questi anni con la globalizzazione dei mercati  in chiave esclusivamente liberista –finanziaria. L’egemonia dunque della finanza liberista e virtuale sull’economico e sul politico, su cui ho avuto occasione di intrattenere di recente i lettori con “Gli Stati disarmati di fronte alle speculazioni di borsa. Il re è nudo e i popoli pagano. Liberismo al bivio: speculazioni, crisi economiche e ruolo degli Stati”    ha portato e sta portando i “pensatoi”  dell’Occidente allargato a  considerare il perché e il per come tutto questo è potuto accadere e a riconsiderare gli aspetti problematici della questione sempre entro la cornice ideologica del capitalismo americano, specie di quello di fine ‘900. Ci sono pensatori e politici che per ragioni e passioni credibili tentano ancora di cercare una “terza via” quale è il caso di Antony Giddens, in Italia propagandato non solo da Romano Prodi. Ci sono altri che vogliono investigare gli esiti di questa realtà in un contesto più ampio di natura culturale , quale è il caso dell’analisi della crisi della modernità di David Harvey. Naturalmente le opere di questi autori, come di altri, si collocano cronologicamente prima dell’epifenomeno distruttivo la cui azione di depauperazione e di scardinamento e sconquasso è ancora e sarà ancora in atto per molti e molti mesi. Come lo sono le tesi di un profetismo economicistico positivo in Jeremy Rifkin con la fine del lavoro della già protostoria dell’ultima fase industriale, la potenziale e per lui già enucleata “alterità” dell’Europa rispetto agli USA nell’Occidente del XXI secolo di Timothy Garton Ash, di Charles A. Kupchan sulla fine dell’era americana. O ancora l’originale interpretazione della glocalizzazione di Bauman e, in casa nostra, delle interpretazioni di Giacomo Marramao atte a creare delle condizioni per un continuun  (al tempo stesso “spezzato” e innovativo) di un processo interpretativo  e propositivo in cui i dati del collettivo non vengano a subire un completo annientamento e sradicamento culturale nella loro matrice marxista.                                                   Non si tratta però qui e adesso di andare a leggere cosa questi autori hanno appena scritto e stanno scrivendo in riferimento alla crisi che sta sconvolgendo i sistemi finanziari e produttivi mondiali. Si tratta di individuare da un lato, sebbene, quali sono i limiti strutturali ed oggettivi di siffatto sistema politico-economico  capitalista e quali sono le alternative ad esso possibili. La terza via? Ha una serie di sue plausibilità. Ma non dimentichiamo che se vogliamo parlare di recuperare e rifondare delle vie riformiste e “socialdemocratiche”,  non possiamo aggrapparci a percorsi che hanno mostrato limiti storicamente riscontrati e non superati nel contesto di una società liberale/democratica ad economia capitalista-finanziaria. Dall’altro lato, non dimentichiamo che i cambi d’abito  e di concetti hanno portato già da decenni le organizzazioni politiche e sindacali marxiste e paramarxiste in pieno declino a ripiegare su tutti i fronti e con scorrerie ideologiche ripetute ad appropriarsi a piene mani di idee -tipo della concezione politica, economica e sociale del fascismo. Da qui non si sfugge. I riformatori veri o presunti di sinistra sono in un vicolo cieco. A meno che non avranno l’intelligenza culturale e politica e il coraggio sul piano della storia delle idee di riconoscere l’intrinseca originalità e validità della “socializzazione” fascista (anche nelle forme meno spinte), della partecipazione agli utili, del superamento dei conflitti di lavoro con la magistratura ad hoc e di tanto altro di cui oggi ammannano i loro discorsi. Cosa che significa anche e non di meno riconoscere che la “filosofia della storia” marxista-leninista non può e non poteva mai avere gambe salde in quanto la sua teoria dell’egemonia dell’economico e quella dell’ininterrotto processo della dittatura del proletariato erano intese ed interpretate secondo i tipici canovacci teologici e millenaristici. Questa “espropriazione” ideologica, tuttavia, non ha portato vantaggi estesi e profondi, di sistema, perché inserita in contesti ibridizzati e fortemente improntati dalla “caratura” economicistica in cui il libero mercato era ed è in mano alla speculazione finanziaria che teorizza il dogma del progresso illimitato del profitto “mobile”. E poi, in Italia, in particolare, perché la sindacatocrazia  era arrivata alla sua massima espressione di sopraffazione, corruzione, collusione con il potere datoriale e con quello politico e burocratico, degenerazione e … violenza di piazza.                  Individuare, come dicevo sopra, quali sono i limiti strutturali ed oggettivi di siffatto sistema politico-economico  capitalista e quali sono le alternative ad esso possibili è aspetto massimamente cruciale,  e non è cosa certo qui fattibile in maniera compiuta. Né voglio andare oltre nel cercare di determinarne almeno e comunque degli aspetti in maniera perspicua, in quanto ritengo bastevole averlo sottolineato come problema di risoluzione irrinunciabile, perché mi prefiggo soprattutto quanto desidero dire dall’altro lato del mio approccio.  E cioè di come modelli e realtà storiche capitaliste per eccellenza (quelli anglosassoni) e modelli e realtà storiche del socialismo reale hanno presentato da sempre un’analogia massimamente importante tale da dover essere considerata a mio giudizio una costante tipica dei due mondi “contrapposti”. Analogia che ha, poi, come vediamo in questi giorni grazie all’informazione sulla cronaca  degli avvenimenti politico-economici dell’altra sponda dell’Atlantico, anche alla luce delle decisioni che nuovo presidente e assemblee parlamentari americane hanno assunto, ulteriori e ripetute conferme.  Questo aspetto da me è stato sempre rilevato, quanto da chissà quante altre persone nel corso di loro raffronti e considerazioni e confronti e dibattiti, ma è stato sempre marginalizzato e soffocato dagli attori degli altri due poli in questione, comunisti o esponenti del socialismo reale integrale e “umanista”, e liberali – liberisti, i quali hanno di fatto rappresentato la realtà esclusiva delle egemonie politiche e dei regimi politici di tutto il secondo novecento e, in parte, ancora di oggi. Esso è quello relativo al ruolo e alla funzione economica politica e sociale che i manager del mondo finanziario ed economico privato (e talora di quello parapubblico e pubblico, quale è il caso dell’Italia specie dopo la riforma Bassanini sulla dirigenza) assumono nelle società a struttura capitalista e del ruolo onnipotente esercitato su tutti i piani dalle nomenclature dei regimi del socialismo reale. In questo senso, anche all’interno dei due mondi dell’analogia sono sorte riflessioni analoghe. E’ il caso di James Burnham ( “La rivoluzione manageriale” ), che da giovane fu esponente del trozkismo americano per poi passare via via a posizioni cosiddette conservatrici (relative al mondo americano). Rilevo che non concordo con Burnham con l’inserimento che lui opera della “via tedesca” del nazionalsocialismo in quanto non mi risulta che in essa fosse avvenuto lo schiacciamento della middle class, come non avvenne nella via italiana da lui non considerata, al di là delle differenze esistenti tra queste due vie in altri ambiti ideologici. Lo schiacciamento della  classe media,  pubblica e privata, è una realtà tipica del capitalismo spinto, in particolare di quello statunitense. Esso non può essere ignorato solo per privilegiare l’analisi della nascita e dell’esercizio della decisionalità. Esso è stato un obiettivo ideologico e una realtà storica, politica ed economica, dei regimi comunisti. In Italia, poi, è dagli anni settanta che tutti i governi di centrosinistra hanno perseguito l’obiettivo di restringere numericamente e di impoverire economicamente la classe media, di cui la parte pubblica è stata già da tempo proletarizzata, salvo percentuali marginali che per obiettivi di strumentalità politica anche di circostanza sono state sbalzate entro gli ambiti delle retribuzioni dirigenziali (la fattispecie più qualificante per il giusto raffronto: il management dell’IRI, dell’Alitalia, delle Ferrovie dello Stato … dell’Ente Minerario Siciliano). Questa progressione non aritmetica e non armonica di professionalità/specificità/responsabilità e di retribuzione  ha raggiunto il suo apice da noi con il duo D’Alema/Bassanini, ma ancora oggi non trova riscontro un’inversione di tendenza con il nuovo governo Berlusconi.                                                                                                                          Ciò che sto dicendo qui non può avere il sapore della mera disquisizione storica e di natura ideologica. Sul piano ideologico, nel momento in cui le ideologie paiono morte, è doveroso dire che quella che fu sconfitta dagli eventi bellici nella lotta tra popoli, è invece soltanto sopita e che essa è quella che offre ancora oggi la maggiore possibilità di utilizzazione nel futuro delle società complesse e avanzate ma oggi socio-economicamente fortemente alterate che vogliono realizzare non minori forme di equo equilibrio sociale e retributivo.  Sul piano dell’attualità politica ed economica, essa è di scottante attualità perché denuncia le brutali vessazioni di un sistema politico adusato a far convivere cittadini e popoli con una realtà di capitalismo squilibrato e perfino fortemente degenerato. Convivenza che è in realtà passiva acquiescenza dei cittadini – lavoratori – contribuenti – consumatori, ben oleati come automi di fronte alla acritica recezione  dei termini libertà, democrazia, liberalismo, libertà dei commerci, diritto al profitto. E’ oggi, proprio oggi, del tutto improprio e  irricevibile considerare come antiliberale e come antidemocratico chi vuole discutere sulle relazioni che devono intercorrere tra politica e finanza, al fine di sottrarre la politica alla sudditanza della libertà dell’economico-finanziario e di realizzare una condizione di “semitrasparenza” e non di oscurità o di opacità attorno al mondo della finanza, che potrà sempre giocare d’iniziativa che significa d’anticipo. Gli incredibili e ingiustificabili costi del management sono sotto gli occhi di tutti, perché nei momenti di crisi, come oggi, essi diventano una pietra al collo per tutte le comunità sociali. Esse sono la forma più lapalissiana di un sistema criminoso che vive alla luce del sole, se così si può dire, ben rispettato riverito ed omaggiato, che estremizza oltre ogni prevedibile intervallo di “conciliazione di interessi” la privatizzazione dei profitti secondo scale di moltiplicatori aproporzionali e la socializzazione delle perdite. E lo Stato, gli Stati si risolvono nell’essere gli stupidi e servizievoli servitori. E’ dunque da ripensare a fondo il modello d’ispirazione principale, il sistema statunitense, è dunque da rifiutarlo e da riformarlo in toto, perché, senza avere alcuna velleità di progettare o avviare una rivoluzione sociale nazionale e internazionale, senza voler o dover ricorrere a slogan per le masse oggi dormienti, rimane il crudo ed empirico dossier dei dati di fatto. Esso ci dice che le forme di ingiustizia prodotte da una pseudo libertà della finanza e dei suoi profitti (sganciata dai controlli preventivi e sistematici dello Stato, ossia lasciata libera di attivare ogni forma di sofisticata elusività realizzata dal suo management e dai suoi soci anche in prima persona) sono immensamente superiori alle perdite che il sistema politico, economico e sociale nel suo insieme potrebbe ricevere da un modello meno profittevole nelle accelerazioni,  nelle velocità di punta e medie dei mercati finanziari, perché più vincolato ai reali contenuti economici determinati dalla persistenza nel tempo della domanda del mercato, dalla sua affidabilità anche in processi di veloce trasformazione dei processi e dei prodotti industriali, e quindi del lavoro e dell’utile che ne consegue, dalla maggiore certezza del rientro dei prestiti e del vincolo della loro utilizzazione per finalità produttive e non speculative, con il diretto beneficio finale di una più equa distribuzione dei redditi. Perché un simile modello disdegnerebbe la rapacità inconfessa e inconfessabile che nasce e alligna nell’interazione degli interesse societari – manageriali spinti oltre ogni estremo. In essa interazione infatti viene a coincidere spesso l’ambito dell’azione decisionale con la sfera della centralità esclusiva della gratificazione economica del manager.  Massima responsabilizzazione, che arriva al punto di associare il manager alla classe societario – padronale. Ma che produce come la storia e l’attualità insegnano i più imprevedibili e perversi effetti. Nella finanza, in termini osservativi, decisionalità sta spesso al passo con elusività e attività mimetica.                                                                                                                                     Ogni ricerca ed ogni teoria politica, politologica, politico-economica,  sociologica psicologica  sul dimorfismo tra esercizio del potere – secondo ragione -, e/o adempimento  del dovere d’ufficio da un lato e inclinazioni poliedriche della natura umana dall’altro (tema in fin dei conti per eccellenza filosofico) non potrebbe, ritengo, non verificare una minore accentuazione delle spinte e delle costanti in  alto  (… e in basso), un contenimento dello straripamento degli eccessi. E della misura dei disastri, anche imprevedibili, che essi arrecano ai popoli. E’ oggi più che mai maturo il tempo per affrontare questi temi senza più il fumo dogmatico delle ideologie negli occhi. E’ oggi maturo il tempo per rifondare su un diverso rapporto il ruolo della politica e della finanza e per formulare in maniera più cogente e coerente con i dati sociali e del mondo del lavoro i termini-polo di democrazia, libertà, liberalismo, liberismo, autonomia della sfera economica. Ne va di mezzo il futuro delle società euro-americane, di tutto l’Occidente allargato, dei popoli che emulano e seguono nel percorso di crescita e di affrancamento, delle future generazioni. Lo sperpero di ricchezza  prodotto dai furti e dalla fatua virtualità espansiva del capitalismo selvaggio e del suo management (“consociato” a cifre mirabolanti e astronomiche che superano il gigantismo architettonico e urbano delle metropoli) non ha realizzato di pari passo la convertibilità dei suoi processi azionari in accrescimento della produzione, della domanda e del lavoro. Ha prodotto gli effetti opposti. Ha realizzato una forma di accelerata entropia economica e sociale. Correre ai ripari dunque, non basta e non può bastare.
                                                                                             
 

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