Protezionismo o mercati aperti? Quali linee di “governance” di fronte all’odierna crisi finanziaria ed economica internazionale?

Enea Franza

16 Marzo 2009

E’ davvero utile una politica di deficit spending in un mercato aperto ?

 
Una rapida ricognizione della stampa quotidiana internazionale sulle politiche adottate dagli Stati nazionali di fronte alla crisi economica, permette di rilevare come ci sia una enorme convergenza sull’idea che lo Stato debba intervenire nell’economia, sia per sostenere la finanza che per puntellare i consumi e gli investimenti.  In effetti, si tratta della riedizione della vecchia politica di matrice keneysiana, che partendo dell’idea che il mercato può perdurare in una situazione di disoccupazione ritiene che la spesa pubblica, anche in disavanzo, possa essere un elemento di traino dell’economia. La crescita economica che ne segue, permetterebbe, tramite il meccanismo del moltiplicatore, di recuperare le risorse e sanare il deficit. C’è, tuttavia, una variante importate nel modello allora pensato dal grande economista che mi permetto di sottoporre all’attenzione dei lettori. In estrema sintesi il dubbio è circa il risultato in termini di efficienza della spesa di politiche keynesiane attuate in un contesto di libero scambio internazionale.
In questi anni, infatti, la globalizzazione è stata sinonimo di libertà dei commerci internazionali. Un’idea che ha radici profonde nella storia economica. Secondo la teoria tradizionale del commercio internazionale, che possiamo far risalire a Ricardo, gli scambi sono trainati di gran misura dai vantaggi comparati. Basata sull’immobilità del lavoro tra i Paesi e sulla perfetta mobilità interna, la teoria in questione asserisce che i Paesi commerciano tra loro perché il lavoro ha diversa produttività tra di essi. I vantaggi derivano da un migliore impiego di risorse date e già precedentemente occupate.  La teoria dei vantaggi comparati considera un’economia composta da due Paesi, due prodotti X e Y, ed un unico fattore produttivo, il lavoro. Nel celebre esempio proposto da Ricardo, si considerano due Paesi – la Gran Bretagna ed il Portogallo – entrambi in grado di produrre due beni: la stoffa e il vino.  Il lavoro necessario alla produzione di un’unità di merce è diverso per ciascuna merce nei due Paesi e, per la stessa merce nei due Paesi, è in relazione alle diverse condizioni “naturali e artificiali” che rendono un Paese più adatto ad una produzione piuttosto che ad un’altra. I costi di produzione espressi in unità di lavoro sono quindi diversi. Se in uno dei due Paesi i costi sono inferiori a quelli dell’altro, per entrambe le merci, questo Paese gode di un vantaggio assoluto. Sarebbe conveniente quindi che le due merci venissero prodotte nel Paese che le produce a costi minori ma ciò richiederebbe il trasferimento di capitali e lavoro nel Paese con vantaggio assoluto.  Il modello di Ricardo non ammette, tuttavia, la possibilità di movimento dei fattori produttivi. Bisogna pertanto considerare i vantaggi relativi. Sia posto, ad esempio, che il Portogallo goda di un vantaggio assoluto in entrambe le produzioni mentre la Gran Bretagna abbia un vantaggio comparato nel produrre la stoffa, piuttosto che il vino, rispetto al Portogallo. Se i due Paesi possono commerciare tra di loro entrambe le merci, ogni Paese guadagna dalla specializzazione nella produzione del bene per il quale ha il vantaggio comparato. Ciò, infatti, permetterà a ciascuno dei due Paesi di consumare una maggiore quantità di beni . Il commercio internazionale determina un prezzo unico, intermedio tra i due prezzi interni precedenti; quindi, diminuisce per ciascun Paese il prezzo della merce che impiega la risorsa scarsa ( che verrà in parte o totalmente importata) mentre aumenta il prezzo di quella che impiega la risorsa più abbondante (che verrà in parte o totalmente esportata).
Il migliore impiego dei fattori porta, come in Ricardo, alla possibilità di un maggiore consumo rispetto alla situazione in cui le due economie sono chiuse. Questo modello fornisce le basi per una visione del commercio internazionale che consente di raggiungere l’ottima allocazione delle risorse. Inoltre, non vi è la completa specializzazione nei due Paesi; i crescenti costi interni e, quindi i prezzi interni rispetto a quelli internazionali impediranno che avvenga la completa specializzazione produttiva; L’unicità dei prezzi internazionali delle merci porta al pareggiamento delle remunerazioni dei fattori, relative e assoluti. Considerato che i diversi Paesi si pongono al di fuori della loro frontiera delle loro possibilità produttive e si assicurano i beni da altre parti del mondo, il commercio dovrebbe stimolare la crescita economica.Nella teoria di Riccardo il commercio internazionale permette, pertanto, di riallocare il lavoro, verso un paese più efficiente, permettendo che anche un paese meno competitivo si avvantaggi nello scambio. Risultato un arricchimento dei Paesi coinvolti.  Che la teoria di Ricardo, oggigiorno tornata in voga, lasci molti dubbi aperti è cosa oramai data per acquisita nella teoria economica. Il problema, in definitiva, sta nella considerazione che la produzione avviene a costi marginali decrescenti e che, quindi, aumentando la produzione, un’impresa può produrre a costi via via decrescenti. Da questo punto di vista, il commercio internazionale sembra essere trainato più dagli eccessi di produzione e si configura come una guerra dove chi produce di più può inondare il mondo di prodotti sempre più a bassi costi. In effetti una impresa che produce di più elimina, per effetto dei rendimenti crescenti, la concorrenza, fissa i prezzi e margini e lucra superprofitti ben diversi di una impresa in regime di concorrenza.                                                                   Ai dubbi sui vantaggi derivanti dal commercio internazionale, la situazione economica attuale aggiunge ulteriori perplessità legate, invece, alla efficacia di una politica di stimolo alla domanda globale (consumo ed investimenti) in un contesto di mercati aperti. In altri termini, mi domando e, spero che nella riflessione ci siano persone che abbiano la compiacenza di seguirmi, se uno Stato che tiene le proprie frontiere aperte alle importazioni ed imposta una politica di forte spesa pubblica al fine di aumentare come dicevo la propria domanda globale, questo non finisce per favorisce le importazioni dai paesi terzi ? A me sembra che – a bocce ferme – non è in discussione il fatto che una politica di questo tipo avvantaggia il paese estero che “se ne sta a guardare” e che ha un forte interscambio con il paese che invece pone in essere politiche di intervento. Peraltro, atteso che parte dell’incremento della domanda va a favorire le importazioni (e quindi i paesi esportatori) il meccanismo del moltiplicatore keynesiano che con la spesa pubblica dovremmo mettere in moto attenua la sua corsa e lascia di certo un buco nelle finanze dello Stato. Di questo non mi pare che la stampa e gli economisti abbiano riflettuto a sufficienza.

 

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