DISASTRI NATURALI, ANTROPOLOGIA E URBANESIMO. DALL’AQUILA, OLTRE

3 Giugno 2009

Mino Mini

 

LECTIO MAGISTRALIS

IL VUOTO DENTRO

Come, dopo i disastri,  i problemi della ricostruzione possono moltiplicare le incapacità degli approcci e le erroneità delle scelte e produrre guasti e danni architettonici e umani indicibili

E’ quello che, in una ” lettera al direttore” del Il Giornale, un lettore ha sentito essersi provocato nello spirito degli aquilani allorché, nella fatidica notte del 6 aprile si trovarono ” … private d’un tratto dello scenario urbano e sociale, che ne ritmava l’esistenza … “: il vuoto dentro. Quel vuoto che si manifesta con il timore che ” … l’Aquila di domani sarà soltanto una somma di piazze, vie e palazzi, messi insieme senz’anima, una nuova Avezzano, ricostruita geometrica e amorfa, dopo il terremoto del 1915″. Un vuoto che può riempirsi solo con la speranza di vedere in futuro ” … un’Aquila ferita librarsi ancora nel cielo, con piume nuove, ma con la stessa identità. Palpitante proiezione della città di ieri.”
Non conosciamo, se non per la firma Luciano Verdone – Teramo, l’estensore di quelle frasi, ma in una bellissima immagine egli è riuscito a sintetizzare, più che in una lectio magistralis, quello che, per gli architetti e i politici, dovrebbe essere il principio fondante della ricostruzione post-terremoto: un’Aquila con piume nuove, ma con la stessa identità, palpitante proiezione della città di ieri.
Questa immagine è anche la risposta al quesito che lasciammo in sospeso nel mese di giugno quando, chiudendo l’articolo ” Orribile primavera ” mettemmo a nudo le due corna del dilemma posto dalla cultura politica corrente: ricostruire com’era, dov’era o edificare una nuova città vicino all’antica ma in un luogo più sicuro e con criteri antisismici?
La risposta ce la fornisce la stessa città.
Non fece a tempo a nascere come città rappresentativa ( si disse ) di 99 castelli nel 1254 per diploma di Federico II ratificato dal figlio Corrado che Manfredi, figlio naturale dello stesso Federico, la fece distruggere per essere, la nuova città, passata dalla parte guelfa. Risorse nel 1265.
Nel 1315 subì un primo terremoto e nel 1461 ne subì uno ancora più grave. Ogni volta l’Aquila risorse arricchendosi di nuovi e più splendidi edifici.
Nel 1703 fu distrutta da un altro terremoto molto, più forte di quello del 6 aprile scorso, la cui gravità fu manifesta nel numero delle vittime: seimila morti, circa il 10% della popolazione di allora. Risorse … con piume nuove, ma con la stessa identità
nella sua veste barocca e con tipi edilizi in linea salutata dai 99 rintocchi della Torre civica che da sempre e fino al funesto 6 aprile del terzo millennio ha perpetuato il ricordo della sua origine.
Quattro volte risorta dov’era, ma non com’era nel senso che noi, cultura urbana in decadenza, attribuiamo al termine. In una cultura in continua maturazione, com’era quella che aveva portato alle quattro rinascite de l’Aquila, inserita nel ciclo dell’esistenza dove tutto muta mantenendo costante l’essenza della città, il suo processo di formazione – ovvero il modo secondo il quale si materializza, per fasi alterne (cicliche), la simbiosi di uomo e natura in termini di edifici, strade, piazze etc.-, il com’era assumeva e assunse un altro significato. Gli aquilani non replicarono mai gli edifici precedenti ma ne edificarono di nuovi ponendosi all’interno di un processo di formazione, regolato da una sua legge di mutazione, che spingeva loro verso la ricerca di un nuovo linguaggio urbano che fosse maturazione evolutiva di quello precedente. Linguaggio in grado di esprimere, in uno stesso tempo, la nuova ” imago mundi ” e l’antica, il nuovo rapporto simbiotico di uomo e natura ” … palpitante proiezione della città di ieri. ”
La cultura contemporanea, invece, (moderna e post-moderna) che concepisce il mondo in cui vive, la città in cui abita, come qualcosa esterno all’uomo, non può capire la complessità dei rapporti che fanno di ogni città un organismo unico di uomo e ambiente con propria identità. Non può capire il vuoto dentro che provano gli aquilani alla prospettiva che la simbiosi, temporaneamente scissa per la distruzione dell’ambiente, diventi definitiva separazione dell’uomo dal proprio simbionte con la costruzione di un’altra città in un altro luogo che non sia quello originario. Il vuoto dentro significa la trasformazione dell’uomo civile, del civis, in uomo a taglia unica con una casa, un lavoro, la televisione generosamente assicuratigli dalla solidarietà degli italiani o conquistati con duri sacrifici, ma resettato, senza più anima, senza più identità, reificato.
A scongiurare questo vuoto occorre, allora, tramandare nel tempo la città dell’Aquila là dov’era, ma occorre, altresì, tramandarla viva perché quanto di identitario vi si esprime – il DNA si può dire – non si perda nel relativismo che caratterizza questa fase di decadenza urbana. Quando i cyborg dell’epoca attuale vorranno ritrovare la primordiale umanità e con essa una specifica identità, sarà nel processo di formazione dell’antica città che la troveranno.
Ma ecco il punto: la ricostruzione ” com’era, dov’era ” ripropone un annoso e mai risolto problema culturale, prima che politico, perché l’architettura ufficiale sembra aver perso la capacità di esprimere l’essenza di una città e proiettarla nel tempo.
Nel caso de l’Aquila, stando al ministro Matteoli, dovrà essere ricostruito il 10-15% del patrimonio edilizio residenziale ed un altro 25-30% dovrà essere restaurato. Ebbene, come da tempo andiamo sostenendo soprattutto in campo professionale, per una cultura evoluta “… inserire un nuovo edificio (genericamente: una struttura) o restaurarne uno vecchio è sempre un atto con il quale introducendo un cambiamento in un organismo preesistente, ci si propone di mantenerlo in vita per tramandarlo nel tempo.
Ciò significa che per assicurare la continuità del rapporto fra un edificio e l’ambiente occorre introdurre delle modificazioni in quanto al cambiare delle funzioni dell’organismo anche le forme devono adeguarsi.
In sostanza per conservare occorre mutare. Tra questi due principi contraddittori deve, però, esservi un equilibrio e lo stesso è vincolato alla presenza di una condizione costante:
– che fra struttura inserita e quella ospitante vi sia compatibilità.
Per ricondurci al nostro caso, ad esempio, questa costante
nel mutamento, la compatibilità [ in passato ]ha condizionato in senso positivo o negativo, la vita de [ l’Aquila ], del suo contesto ambientale dalla nascita fino ad oggi ed è necessario, quindi, se si vuole procedere scientificamente nell’intervento pianificando il mutamento per la conservazione della vita dell’organismo urbano in questione e del suo contesto ambientale, ricercare nei loro processi di formazione sotto quale forma si presenti la costante del mutamento.
Poiché lo stato attuale [almeno fino al 6 aprile]altro non è che il momento di arrivo di un processo dinamico di formazione che ha compreso ben quattro fasi di sviluppo precedute da quattro di degrado, si tratta di rilevare, nella storia della città – che è altra cosa da quella degli avvenimenti di personaggi che in essa o per essa sono accaduti -quale sia stata e quale sarà la forma dell’equilibrio ai diversi gradi di valore: architettonico, edilizio, urbano e territoriale.
In questo senso l’intervento di nuova edificazione o di restauro non potrà essere che il ripristino ed il consolidamento di un processo vitale di evoluzione nel tempo; di fatto una “reimmissione in orbita” dell’organismo oggetto dell’intervento nel “naturale” processo evolutivo. Processo che, va da sé, per essere tale non può cristallizzarsi in un momento storico definito, ma deve svolgersi nel tempo fino all’oggi e proiettarsi verso il domani.”
In sostanza, se dovessimo dare un’insegna alla ricostruzione della città che esprimesse al meglio il senso della continuità dell’organismo, proporremmo la seguente:
MUTARE SERVANDO
Veniamo agli interrogativi posti da coloro che, presi dallo sgomento davanti alle macerie in cui sono ridotti molti edifici del centro storico, si chiedono: ma se il terremoto dovesse colpire ancora non sarà proprio la città storica a subirne la furia?
Come scongiurare un’altra catena di crolli e conseguenti lutti?
La risposta, ancora una volta, la da la città.
Matteoli ha dichiarato che il 60% degli edifici è agibile. Sembra, quindi, logico cercare di capire come ha fatto questo 60% delle costruzioni non solo a rimanere in piedi, ma a rimanere agibile. Questi edifici andrebbero studiati a fondo prima di pronunciarsi, che spadellare giudizi senza conoscenza sarebbe un grave peccato di pericolosa superficialità. Tuttavia qualche considerazione possiamo azzardarla mantenendoci sulle linee generali.
In primo luogo consideriamo il fenomeno delle case in muratura di cui, nell’articolo precedente, non potemmo discettare per i limiti di spazio che ci eravamo imposti al fine di non abusare della generosità del direttore. Cercheremo di spiegarci senza eccessivi tecnicismi.
La muratura, in generale, è una struttura di tipo “plastico”, ovvero reagisce alle sollecitazioni sismiche accompagnandole con il fessurarsi e l’adattarsi alla nuova configurazione del terreno quale viene a determinarsi dopo la scossa. Ciò avviene tanto più facilmente quanto più elevata risulta la tenacità delle malte e la loro azione legante intorno al nucleo del materiale che costituisce la muratura: scapoli di pietra, mattoni, blocchi prefabbricati etc.. Per questa proprietà plastica occorre, nell’arte muraria, rispettare determinate regole di costruzione avendo presente che un muro può assimilarsi -anche se assai impropriamente- al comportamento di un tessuto: può essere sollecitato (tirato) in tutte le direzioni, ma se il tessuto è saldo sull’orlo si deformerà all’interno dell’ordinata disposizione dell’ordito e delle trama, ma non si disfarrà. Diversamente in assenza dell’orlo il tessuto si allenterà e perderà la sua consistenza. Impropriamente, avevamo detto, perché un muro è pur sempre una struttura che lavora per gravità mentre il tessuto appartiene ad un’altra famiglia di strutture. Il mastro muratore dovrà, quindi, legare fra loro le strutture mediante ammorsamenti; “fare l’orlo” ai buchi delle finestre e delle porte con cornici murarie più forti e omogenee come si farebbe intorno ad un’asola che deve ricevere la sollecitazione di un bottone, o ad un taglio per realizzare una tasca; rispettare il rapporto dimensionale fra lo spessore del muro ed altezza dello stesso soprattutto in ragione del tipo di muratura e tante altre tecniche particolari che sarebbe lungo elencare e che costituiscono, appunto, le regole dell’arte. Ebbene, il 60% delle case de l’Aquila, quelle rimaste in piedi ed agibili, probabilmente sono state costruite secondo tali regole, ma soprattutto sono state soggette ad adeguata manutenzione per impedirne l’invecchiamento. Poiché questo è il concetto fondamentale: le murature invecchiano e lo fanno tanto più rapidamente quanto meno sono protette da rivestimenti. L’invecchiamento avviene, soprattutto, nelle malte quando perdono totalmente la loro umidità per effetto dell’evaporazione. Si “sfarinano” per il venir meno del legame fisico tra calce e sabbia con conseguente separazione dei due componenti ed esponendo la prima, ridotta a carbonato di calcio solubile nell’acqua, facile vittima di sali ed acqua che la dissolvono. Venendo meno il legame della malta, basta una scossa di taglio tipica del terremoto perché l’ordito e la trama del muro non reggano più ed il muro rovini. Talvolta la situazione viene aggravata dalla presenza di strutture rigide quali i cordoli armati che tutti conoscono: mentre il muro in presenza di sollecitazioni orizzontali plasticamente si deforma ma regge, il cordolo resta integro, ma si distacca dalla muratura e ne provoca il disfacimento. In linea generale un edificio in muratura mal costruito con malte non adatte e, soprattutto, non sufficientemente protette, di fronte ad una sollecitazione sismica ed ulteriormente sollecitato da strutture elastiche (solai o tetti) crolla. Non così quando l’edifico sia stato costruito a regola d’arte.
Si sente spesso esprimersi il buon senso dell’uomo della strada che di fronte a costruzioni millenarie del periodo romano-imperiale resistenti senza danno ad ogni sollecitazione sismica formulano un giudizio negativo sulla capacità dei costruttori contemporanei. In parte è motivato, ma non si tien conto del fatto che i mai troppo ammirati costruttori dell’antica Roma impiegavano malte tenacissime di calce e pozzolana che non “sfarinavano” perché il legame fra i suoi componenti era di tipo chimico e non fisico. Infatti l’unione di calce e pozzolana dà luogo a un cemento (silicato idrato di calcio) resistente all’azione dell’acqua. Inoltre gli antichi romani facevano largo impiego del calcestruzzo con rigorose regole circa il dimensionamento dello stesso nel cosiddetto muro romano. Ma fermiamoci qui che l’affascinante mondo dell’arte muraria richiederebbe una trattazione che esula dallo scopo di questo articolo volto a dare limitate risposte a interrogativi che il sisma, quando si manifesta con i suoi sconvolgenti effetti, genera nei più.
Oltre alla risposta che l’esempio del 60% di case indenni ci fornisce, abbiamo ancora le soluzioni che l’evoluzione della tecnica delle costruzioni ci offre: dalla iniezioni con malta pozzolanica a riempire i vuoti che la dissoluzione del carbonato di calcio lascia nelle malte invecchiate alle ricostruzioni secondo la più aggiornata normativa antisismica. Si può, quindi, affrontare la ricostruzione con ragionevole margine di sicurezza sul piano tecnico. Il pericolo, semmai, viene da un altro fronte: quello del velleitarismo di progettisti dalla cultura negatrice dell’organicità della città simbiosi di uomo e ambiente che possono mettere le mani su quel 10-15% di case da ricostruire creando il vuoto dentro.

 

Ripreso da:  A Destra per il sociale, ginosalvi.blogspot.com/
 

Lascia un commento