Architettura. A Londra e non solo è scontro tra l’architettura chiassosa e per nulla funzionale e chi difende il rispetto dei modelli esistenti e palpitanti di armonia e di vita

5 Luglio 2009

Mino Mini

ARROGANCE                                                                                                                                                          IL PROFUMO DELLE ARCHISTARS                                                                                                  … e venne Carlo d’Inghilterra a difendere l’equilibrio delle forme e preservare la continutà storico-architettonica dall’imperversante e intollerante caleidoscopio della frivolezza e della vacuità, nel segno dell’estro inconcludente e minimalista

 

Una volta di più l’ignoranza e l’inconsistenza critica di certo culturame architettonico internazionale, espresso dalle cosiddette archistars , in reazione all’intervento di Carlo principe di Galles sulla questione delle ex-caserme – le Chelsea Barracks – situate in una zona particolarmente interessante della Londra ottocentesca, ha travalicato sconfinando nell’arroganza e nella sopraffazione. La vicenda, nel merito della quale entreremo tra breve, offre l’occasione per allargare il discorso dal comportamento intollerante delle archistars ai limiti della cultura contemporanea della città incapace di esprimere il mondo attuale dell’uomo altro che in termini di oggetto economico abitato da cyborg votati unicamente alla condizione di produttori e consumatori.
Veniamo al fatto come riportato dalla stampa.
Il principe di Galles, nella sua qualità di fondatore della Princès Foundation for the Built Environment, nell’aprile scorso inviò una lettera allo sceicco Hamad bin Jassim bin Jabor Al Thani, primo ministro del Qatar e presidente del Qatarì Diar con la richiesta di respingere il progetto da tre miliardi di sterline elaborato da Richard Rogers e orientarsi verso un intervento più tradizionale. Lo sceicco ha accolto l’invito del principe ed ha ritirato il progetto presentato per ottenere il permesso edilizio.
Ohibò, inorridisce il mondo della cultura, siamo all’ennesima gaffe nobiliare! Carlo Windsor, principe reale qualsiasi, dilettante acquerellista, non sa chi è LUI: lord Rogers, il progettista del Centre Pompidou tempio high-tech parigino della cultura; del mucchio di scatole di vetro messe una sull’altra del Register of Shopping; del National Assembly for Wales, del palazzo di giustizia di Anversa e di quello di Bordeaux e vincitore del RIBA Award 2006. Come si permette di violare il ” processo aperto e democratico” per la progettazione del complesso che una tale archistar ha instaurato riducendolo ad un rapporto esclusivo fra poteri aristocratici instaurando in tal modo ” un precedente molto pericoloso”?
A cantargliele così, nude e crude, in difesa della democrazia offesa sono state sei stelle del virtuale firmamento architettonico contemporaneo: Renzo Piano coproggettista con Rogers del Centre Pompidou; Norman Foster l’autore della ipertecnologica Swiss Re Tower, allusiva e caleidoscopica supposta in vetro infilata brutalmente nel corpo vivo della città; Frank O. Gehry autore del titanico ( in lastre di titanio ) delirio iconoclasta del Guggenheim Museum di Bilbao; Jacques Herzog & Pierre De Meuron ideatori, in coppia, dello stadio olimpico di Pechino, il cosiddetto ” nido d’uccello”; Zaha Hadid vincitrice del Pritzker Prize 2004 considerato il Nobel dell’architettura.
E lui, Carlo d’Inghilterra, reo di sprezzante antidemocraticità, che risponde? Secco, chiaro e forte: la sua Foundation for the Built Environment potrebbe presentare lei stessa un progetto.
A questo punto sorgono alcuni quesiti e si impongono le relative risposte critiche:
• Perché Carlo d’Inghilterra non deve poter muovere, implicitamente o esplicitamente, critiche ad un progetto ritenuto – a torto o a ragione – avulso dallo specifico contesto urbano della zona delle Chelsea Barracks?
• Perché invece di affrontare un confronto culturale sul problema fondamentale dell’inserimento di un nuovo edificio o di più edifici nel contesto preesistente, un ben individuato fronte culturale decostruttivista si lancia in accuse di antidemocraticità ed amenità varie mancando loro, per britannica impraticabilità ambientale, la possibilità di lanciare – come da noi – l’anatema antifascista?
Le due domande, come ben si comprende, sono solo distinzioni di un unico quesito che richiede una breve digressione illustrativa.
La zona dove dovrebbe concretizzarsi l’intervento immobiliare dello sceicco presidente del Qatari Diar, si colloca all’interno del triangolo rettangolo formato dal Chelsea Enbankment, riva nord del Tamigi, che funge da ipotenusa, dal Chelsea Bridge Rd e dal Royal Hospital Rd in funzione di cateti. Dopo la realizzazione del quartiere di Chelsea consolidatosi nel 1825, la edificazione degli edifici militari delle Barracks e del grande complesso dell’ospedale che dette il nome alla omonima strada, il triangolo rimase, per una gran parte, libero da edificic residenziali e sistemato, diremmo oggi, a ” parco attrezzato “.Il carattere dell’edilizia di Chelsea e della cuspide del triangolo è tipicamente ottocentesca salvo due edifici gemelli su pilotis, sviluppatesi oltre il piano terra per tredici piani più attico, che sorgono ortogonalmente al Royal Hospital Rd su un lotto compreso fra Franklin’s Row e la prosecuzione verso nord di Chelsea Bridge Rd. In fondo a quest’ultima strada un ponte strallato – il Victoria Bridge – attraversa il Tamigi collegando Chelsea con Battersea dove l’espansione moderna mostra i suoi edifici più avveniristici.
Chelsea Barracks si trova, così, ad essere cerniera fra la città ottocentesca-primo novecento e quella contemporanea ed è sulla qualificazione estetico-espressiva di tale ruolo di cerniera che si gioca la partita fra Carlo d’Inghilterra, che vorrebbe si esprimesse con un’immagine tradizionale, e Richard Rogers che si sentirebbe sminuito se non si proponesse decostruttivamente in voluta antitesi con la concezione di città rappresentata dal quartiere di Chelsea. Antitesi che non deriva da un’idea di città da realizzare in alternativa a quella ottocentesca, ma solo dalla voglia di realizzare un intervento che esalti la creatività dell’architetto.
E’ qui che il conflitto per le Chelsea Barracks porta in superficie il rovesciamento dei termini del problema relativo all’inserimento di un nuovo edificio o complesso di edifici nel contesto preesistente: non l’opera è importante, ma chi la fa.
Siamo in presenza non già di un architetto personalisticamente interprete, tramite la sua opera, della città, ma di una città che deve piegarsi alla personalità schizoide dell’ archistar che opera su di lei.
Infatti la risposta alla seconda parte del quesito è che il fronte culturale decostruttivista non può confrontarsi in alcun modo con altre posizioni culturali per mancanza di riferimenti comuni. Non valgono per lo stesso i concetti di estetica, utilità, funzionalità vivibilità; non esistono ” né il buono, né il vero, né il bello” (Ph. Johnson 1994). Nello spirito dell’architettura decostruttivista l’opera deve ” disturbare, torturare, interrogare, contaminare, infettare ” (Roger Kimball 1988).Questo spiega il perché dell’arroganza e della sopraffazione nei confronti di Carlo d’Inghilterra. Essendo stato elaborato un progetto da un esponente in vista dell’imperante cultura decon , un rifiuto di tale elaborato significherebbe una ” scossa ” di dalemiana definizione a tutto il sistema decon. Non ci sono elementi critici a supporto di tale sistema, nulla che giustifichi la sua predominanza. Di fronte ad una contestazione scientifica o ad un orientamento culturale diverso e più solidamente fondato la supremazia cadrebbe e con essa il sistema di potere decon. Ma il nodo da sciogliere sta appunto nel fondamento da dare alla contestazione del sistema decon, e nella “tradizione” invocata da Carlo d’Inghilterra nel caso delle Chelsea Barracks non c’è fondamento, ma solo estetismo. Il conflitto si concretizza in una questione di gusto ridotto, dal relativistico ” mi piace … non mi piace …” ad un confronto di gustarelli: a te piace l’estetica che richiami l’ordine, l’eleganza della “tradizione”, a me piace il nuovo,l’inusitato, ciò che mi eccita la curiosità, a lui piace l’evocazione di un’atmosfera … e via piacendo. Chiamale, se vuoi, emozioni.
Ma in tale clima relativistico il sistema decon la fa da padrone perché ha in mano le leve della propaganda, dei meccanismi autoreferenziali che si reggono sul patto di reciproca qualificazione: io ti qualifico parlando bene di te e propagando il tuo “brand” – il tuo marchio – e tu fai altrettanto nei miei confronti. Sullo stesso patto si manipolano i concorsi, si scrivono le monografie, gli articoli sulle riviste di architettura, le schede nominative sulle enciclopedie, si attribuiscono i premi internazionali, si alimenta il circuito mass- mediatico che forma il gustarello delle masse, si accede – punto di arrivo – all’empireo della committenza internazionale che, attenta al “brand”, paga la realizzazione delle opere e, quel che più importa, le parcelle da brivido senza discutere.
Ed è qui che trova spiegazione l’atteggiamento delle sei archistars in appoggio a Rogers: rifiuto del confronto sull’argomento specifico per non esporsi e tamponamento della falla aperta dall’avversario, la demonizzazione di questi in nemico e ricorso alla demolizione della sua credibilità infilandolo nel tritacarne del “decon system”, questo meccanismo che opera non in base ad una strategia predefinita ed unitaria, ma caso per caso, da aderenti che operano come le cellule di Al Qaeda.
Non piangeremo per Carlo; la tradizione della città non è impersonata da lui. La sua è solo un’altra faccia della fenomenologia della modernità (come lo fu il post-modern) e non l’oltrepassamento della stessa. Gli va rivolto, però, un doveroso ringraziamento per aver costretto la cultura architettonica a dover prendere atto che non sono le archistars le interpreti della realtà urbana. Per quanto ci riguarda è la città che ci interessa, quella che la cultura contemporanea non è ancora capace di concepire. Quell’organismo di scala superiore, forma di una concezione del vivere che oltrepassa i limiti angusti della visione economica e dell’estetica come “brand” che veicola la vita come attitudine al consumo; che accetta, trasforma, integra anche le fughe in avanti del mondo virtuale reimmettendole in orbita nel processo di formazione della realtà.
L’argomento necessiterebbe di una trattazione più rigorosamente diffusa che lo spazio di questo articolo non consente. Un argomento che investe, come si è visto, il problema della cultura contemporanea ed il suo oltrepassamento e che richiederebbe, per essere espresso nella forma di un articolo, una capacità che, forse, non è nelle corde di chi scrive. Tuttavia il dibattito deviato sulla cultura che prende le mosse dall’isterismo e dall’intolleranza della sinistra e dal declino del suo spocchioso snobismo culturale senza che “a destra” vi sia una risposta alternativa, impone di accettare la sfida di rendere divulgativamente accettabile un simile argomento percui … si vedrà.

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