Stiamo uscendo dalla crisi economica? Prima, tocchiamo il polso agli USA…

31 Agosto 2009

Enea Franza

 

LA FINE DELLA CRISI E L’INIZIO DELLA RIPRESA. PERPLESSITA’ E DUBBI

 

 

Com’era facilmente immaginabile la crisi economica mondiale sta colpendo fortemente la dinamica del commercio estero, danneggiando tutti i principali Paesi esportatori.  In questo senso l’Italia, paese votato naturalmente ai commerci internazionali, ha visto le sue esportazioni contrarsi fortemente, in linea peraltro con i cali degli export di altri Paesi dell’Unione Europea. I dati dell’Istat di aprile dimostrano una difficile situazione a livello di export globale del nostro Paese: -28,7% le esportazioni verso il mondo nel mese di aprile 2009 rispetto ad aprile 2008, con una forte diminuzione  verso i paesi dell’Unione Europea (-33,8%[1] rispetto allo stesso mese 2008) ed una più contenuta flessione verso i Paesi extra-Ue (-20,5%).
 
Da questo punto di vista, la ripresa economica di quei paesi naturalmente esportatori di beni e servizi dipende certamente dalla ripresa della domanda globale e, in particolare per l’Italia, dalla ripresa di paesi come la Francia e la Germania. Ma è di tutta evidenza che la ripresa mondiale non potrà essere trainata dalla sola UE e tutti guardano agli USA per scommettere sulla ripresa.
 
Il quesito che ci si deve porre allora per immaginare un’uscita stabile dalla crisi attuale è allora questo: la domanda globale di beni e servizi potrà essere trainata ancora dagli USA e, se sì, fino a che punto ?
 
Tutti sappiamo che il gigante americano è malato. Le tante analisi hanno dimostrato che, anche prima della crisi di fiducia che ha gettato il panico sulle banche occidentali, gli USA soffrono di un doppio male: un alto deficit del debito pubblico del governo federale  (che si somma all’alto indebitamento privato dei cittadini americani) e l’alto deficit nella bilancia commerciale. In particolare, il secondo deficit, quello della bilancia commerciale, ammontava a dicembre 2007 – prima quindi della crisi –  a 738,6 miliardi di dollari.  Può allora un Paese con un cosi alto debito e tale profondo disavanzo fare da motore alla ripresa ?
 
Gli economisti non hanno una visione unica del deficit della bilancia commerciale. Freedman ritiene che un paese che importa molto dimostra l’apprezzamento della propria moneta all’estero e questo è certamente di giovamento per tutti i cittadini del paese importatore, che possono godere di beni a più basso prezzo e migliore qualità. Il ragionamento è più o meno il seguente: se posso scegliere liberamente tra acquistare in patria un prodotto o acquistarlo all’estero, sceglierò certamente quello che è per il consumatore migliore in termini di prezzo-qualità. Se la scelta cade sul bene prodotto all’estero ed il produttore accetta di essere pagato con la moneta nazionale di chi compra, il consumatore otterrà un grande beneficio. Il produttore, dal canto suo finché terrà tale moneta presso di sé come riserva di valore, permetterà al consumatore di espandere ancora la propria domanda di bene, ovvero di consumare di più pressoché infinitamente.
 
Tuttavia, l’argomentazione del grande economista è essenzialmente statica e di breve periodo. Sappiamo un pò tutti che aumentare la produzione significa normalmente produrre a costi descrescenti. Secondo il noto principio dei rendimenti decrescenti, infatti, aumentare la produzione permette di aumentare il rendimento del produttore e ciò consente normalmente ad un paese esportatore di migliorare e conservare la propria supremazia “commerciale”[2].  
 
Allora ci si potrebbe domandare: perseverare con una economia in perenne deficit contribuisce alla povertà di un paese  e viceversa un paese con uno stabile surplus è un Paese efficiente? Rispondiamo subito alla domanda: un saldo positivo della bilancia commerciale non misura affatto l’efficienza di quel paese, basti ricordare il caso del Messico del 1995 o della Romania del 1980, dove gli avanzi della bilancia dei pagamenti non segnalavano la floridità dell’economia, ma anzi gli avanzi erano impiegati per pagare i debiti contratti.
 
Altre questioni dovrebbero preoccupare, a mio parere, un paese in eterno deficit. Vediamo di spiegarci meglio.
 
Arricchiamo l’analisi proposta domandandoci cosa succede se il produttore impiega la moneta che ha ricevuto in pagamento per acquistare titoli di debito del paese importatore, ovvero se decide di far credito all’acquirente… In tal caso, il paese importatore dovrà restituire a scadenza il credito e gli interessi. Nessun problema, rispondiamo, se (ma solo se) il Paese importatore con i denari rientrati genera ricchezza capace di pagare il debito e gli interessi.
 
Appunto se … Ma se il paese debitore sprecasse questo denaro, lo consumasse semplicemente e non provvedesse ad  investirlo ? …. cosa succederebbe allora? Di certo il creditore (nonché esportatore) comincerebbe a preoccuparsi della capacità del debitore di far fronte ai pagamenti dovuti: la domanda di se, come e quando potrà rientrare del proprio credito gli si farà ogni giorno più impellente.
 
Probabilmente ciò lo indurrà ad aumentare il costo del bene esportato, cercando di coprirsi del rischio di insolvenza del creditore e, certamente, tale politica avrà un impatto sul Paese importatore, rendendo meno conveniente per i consumatori l’acquisto; forse ciò potrà servire da stimolo per le imprese locali a produrre il bene. Il paese importatore si porrà certamente il problema di trovare altri paesi per lo sbocco delle proprie esportazioni per evitare che un tracollo dell’economia dell’importatore lo coinvolga. Sempre che tutto ciò sia possibile e che i Paesi non siano di fatto diventati dipendenti l’uno dall’altro. Nel qual caso, si porrà con immediatezza il problema di che fare del debito accumulato.
 
Molto probabilmente, si preferirà sostituire i titoli di debito in scadenza con denaro e con  questo acquistare beni materiali del paese importatore come terreni, case, imprese, ecc… Il passaggio potrà avvenire gradualmente, direi silenziosamente, ma certamente quasi in modo ineluttabile; nel lungo periodo, il nostro Paese importatore si troverà ad essere colonizzato. Una guerra di conquista senza colpo ferire? … Cosi sembrerebbero andare le cose!
 
La situazione descritta è quella in cui  – a mio sommesso parere  – si trovano oggi gli U.S.A. nei confronti della Cina e dei Paesi esportatori di petrolio. Dunque, come pensare ad una crescita brillante, robusta e duratura quando il debito strozza l’economia americana ed il deficit della bilancia commerciale suggerisce una politica di rientro, piuttosto che di ulteriore espansione. E allora, non credo che ci sarà una ripresa a breve ! 
Per questo, quando gli economisti parlano di una “uscita dalla crisi” a partire da dicembre 2009, a me i conti non tornano.  In Occidente sono oltre dieci anni che non si trovano sul mercato prodotti veramente nuovi che giustificherebbero una crescita dei consumi e i prodotti degli ultimi anni si presentano piuttosto come applicazioni ed innovazioni di un prodotto già di largo consumo (vedi caso dei telefonini). Quando allora parliamo di ripresa del consumo si tratta di misure che costituiscono uno stimolo al consumo su beni c.d. di rimpiazzo, ovvero consumi indotti dal progresso delle capacita tecnologiche di beni esistenti  e/o di mera sostituzione di un bene fisico vecchio o rotto. Tale fatto, assieme all’invecchiamento della popolazione occidentale, costituisce il motivo per cui non credo nella crescita.
 
Piuttosto, i segni “positivi” che gli analisti vedono sono interpretabili come l’evidenza dell’enorme immissione di denaro che gli Stati hanno fatto nel sistema economico. Questo non è sfociato in un aumento di prezzi dei beni, che sono rimasti stabili o addirittura si sono ridotti ed ha permesso a molti di acquistare, complice un effetto di ricchezza sui proprio depositi.
 
Così, a mio modo di valutare il quadro di riferimento finanziario ed economico, vanno letti i dati! Ma certamente mi auguro di sbagliare, e, come economista, l’errore mi sarebbe sicuramente perdonato.

[1]

La contrazione delle esportazioni italiane ha coinvolto tutti i paesi di destinazione dell’area europea;  in particolare, si rileva una sensibile diminuzione ad aprile 2009 rispetto ad aprile 2008 delle vendite verso la Germania (-30,6%), dove hanno rallentato parecchio le nostre esportazioni di prodotti in metallo, macchine e apparecchi e mezzi di trasporto, e verso la Spagna (-46,4%), dove inoltre sono rallentati i prodotti tessili.

[2]

La specializzazione ha tuttavia costituito un fattore di impoverimento per tanti paesi del Sud, che, specializzatisi nella produzione di prodotti agricoli, o materie prime, hanno subito a lungo il gioco dei bassi costi (salvo guadagnare in questi ultimi anni da un’impennata dei costi).

 

 

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