Politica ed economia. La politica e la farsa delle scienze aziendali

17 Novembre 2009

Enea Franza

 

Crisi economica e utopia sociale. L’incubo del contabile e la città delle meraviglie!

Le ragioni nascoste della crisi ritornano a galla. Gli operatori finanziari delle borse già si gongolano perché il Down Jones ricomincia a correre. Ancora bolle?  Intanto, si calcola che per far fronte alla crisi economica siano stati spesi oltre 8 Trilioni di dollari tra acquisto di titoli tossici (1,6 Trilioni), ignizioni di capitale (2,4 Trilioni) e garanzie (oltre 3,9 Trilioni). Atteso che gran parte di tale denaro viene dalla casse degli Stati o da istituzioni finanziate dagli stati e che tale intervento non è affatto stato selettivo, ovvero che nell’erogazione del denaro non è stato seguito un criterio di aiuto che distinguesse in qualche modo tra imprese meritevoli di supporto o meno. Il sostegno è, cioè, è andato alla generalità delle istituzioni finanziarie in difficoltà, anche e soprattutto a coloro che avevano generato la crisi! L’efficienza aziendale e contabile camuffa le perdite e la “moralità” della decisione politica ci scivola sopra ingenua come un bambino?
 

 

Quando Colbert chiese al mercante Legendre «Que faut-il faire pour vous aider?», la risposta di Legendre, invece, fu «Nous laissez faire». Ed è in questo lasciaci fare la questione principale che la fine del fordismo, come forma di organizzazione dell’economia e della società, e l’attuale crisi della finanza lasciano aperta.
 
D’altra parte, quello che mi interessa discutere non è la grandezza del sistema capitalistico nel mutare forma conservando la sostanza. E’, penso, assodato che nella dinamica dei sistemi capitalistici ci siano sempre stati cambiamenti importanti, di cui la crisi economica attuale costituisce un rilevante passaggio, ma è intrinseco nel capitalismo la capacità di mutare forma per conservare la  sostanza. E, ne sono certo, la vivacità del capitalismo non mi sembra in discussione. Ma quello di cui mi interessa parlare è il ruolo che la cultura del laissez-faire ha avuto dalla caduta del muro di Berlino ad oggi nelle vicende della politica.
 
Il laissez-faire scaturisce da una premessa da cui occorre liberarsi prima di poter seguire ulteriormente ed impegnarsi nell’eventuale costruzione di una “città delle meraviglie”! Ricordiamo quello che scrisse Voltaire nel suo indimenticabile Candido ed, in particolare, l’insegnamento del metafisico-teologo-cosmologo Pangloss che ricordava al giovane Candide: «Ogni avvenimento è concatenato in questo migliore dei mondi possibile; ché, infine, se non foste stato cacciato per amore di Cunegonda a pedate sul didietro da un bel castello, se non foste passato sotto l’Inquisizione, se non aveste corsa l’America a piedi e non aveste perduti tutti i montoni del bel paese dell’Eldorado, non mangereste qui cedri canditi e pistacchi». In altre parole sia i liberali che i liberisti – e tale atteggiamento li accomuna – pretendono che il funzionamento del sistema economico sia retto da un ordine naturale, al pari del movimento degli astri nella volta celeste e della circolazione del sangue nel corpo umano e che se tale funzionamento non venisse impedito o turbato, questo ordine assicurerebbe la riproduzione regolare della ricchezza delle nazioni. Lo stato normale del sistema economico sarebbe dunque l’equilibrio, un equilibrio unico, stabile e ottimo; le crisi sarebbero delle eccezioni temporanee provocate da fattori esogeni; gli interventi di politica economica risulterebbero inutili, se non dannosi.
 
Tuttavia, Lord Keynes  ha mostrato quanto poco solidi siano i  presupposti economici sui quali questa dottrina si basa e quanto tragiche ne sono le implicazioni: «Se lo scopo della vita – diceva Keynes – è di cogliere le foglie dagli alberi fino alla massima altezza possibile, il modo migliore di raggiungere questo scopo è di lasciare che le giraffe dal collo più lungo facciano morire di fame quelle dal collo più corto». Ma, a dire il vero, già nei grandi classici troviamo la constatazione delle debolezze di un sistema lasciato a se stesso. Adam Smith, nella Ricchezza delle Nazioni  (1776), dedica il capitolo V, intitolato “Del reddito del sovrano o della repubblica” all’analisi del ruolo dello Stato nell’economia e si sofferma in modo significativo anche sull’istruzione, in particolare dei meno abbienti, che all’epoca rappresentavano la stragrande maggioranza della popolazione. Secondo Smith, lo Stato può contribuire in maniera incisiva al processo di formazione dei cittadini: “Con una spesa molto piccola lo Stato può  facilitare”, “incoraggiare” e anche “imporre” a quasi tutta la massa del popolo la necessità di apprendere queste parti più essenziali dell’educazione [leggere, scrivere e fare di conto]”.  Viceversa, la condizione di sudditanza dei più sembra essere decisa dalla organizzazione del lavoro. Osserva, infatti, Smith: “La sua destrezza nel suo mestiere specifico sembra in questo modo [attraverso la divisione del lavoro ] acquisita a spese delle sue qualità intellettuali, sociali e militari. Ma in ogni società progredita e incivilita, questa è la condizione in cui i poveri che lavorano, cioè la gran massa della popolazione, devono necessariamente cadere a meno che il governo non si prenda cura di impedirlo”. La questione del rapporto tra stato e , come visto, ha formato sempre materia di discussione tra gli economisti sia classici che eretici, ed è stato risolto in modo certamente distinto assegnando all’economista ed al politico compiti diversi ma complementari, senza che nelle due sfere di competenza potesse intravvedersi una sovrapposizione di ruoli, ed in particolare, una supremazia dell’economia sulla politica. Il dibattito tornato oggi di grande attualità, perché sembrava assopitosi dalla caduta del muro di Berlino con il trionfo del pensiero unico, che riduceva  nei fatti la politica alla mera gestione dell’esistente, secondo i principio di economicità, efficienza ed efficacia mutuati direttamente dalle scienze aziendali.
 
Con la crisi attuale, si apre lo spazio alla politica, il cui compito è di governare i rapporti tra processo di produzione e distribuzione, cioè i rapporti tra economia e società.
 
Vediamo di comprenderci meglio. Nell’attività di un’azienda il problema fondamentale è quello di gestire bene le risorse scarse e di individuare a tal fine i criteri che si devono seguire per la corretta gestione delle risorse. I concetti che ispirano le scienze aziendalistiche e, in primo luogo, l’economia aziendale ad individuare i modelli più efficaci per amministrare in modo economico l’attività dell’impresa sono l’economicità, l’efficienza e l’efficacia. Il Vocabolario Treccani così si esprime: economicità vuol dire «conformazione e rispondenza all’economia nel senso di parsimonia e risparmio»; efficienza corrisponde alla «situazione di massima capacità produttiva, e cioè di costi minori possibili, in un complesso di produzione o di erogazione di beni e/o di servizi»; efficacia è «la capacità di produrre pienamente l’effetto voluto» è, cioè, l’ottenimento stesso dell’effetto. In altri termini, tanto per esemplificare, uno studente che studia 10 ore al giorno per essere promosso (e ci riesce) è sicuramente efficace, ma non è certo efficiente; se, per esempio, molti suoi compagni raggiungono lo stesso obiettivo studiando 3 ore al giorno, questi sono sicuramente più efficienti. Attraverso le scienza aziendalistiche si è diffuso il convincimento che non ci può essere gestione – e tanto meno buona gestione – e, cioè, non può esserci amministrazione di beni ed interessi per conto altrui, se non si opera tenendo presenti ed applicando i principi di economicità, efficienza ed efficacia, e cioè a portare in primo piano il tema dell’efficiente allocazione delle risorse all’interno dei sistemi pubblici.
 
Quando parliamo di politica, mi viene alle mente  il discorso fatto dagli Ateniesi ai Melii nel tentativo di dissuaderli dal proposito di resistere all’imminente attacco nella guerra del Peloponneso, che Tucidide nella sua Storia descrive magistralmente: “E ora faremo le nostre proposte per la salvezza della vostra città, perché vogliamo dominarvi senza fatiche, conservarvi sani e salvi, nel vostro e nel nostro interesse, perché voi, invece di subire le estreme conseguenze, diventereste sudditi e noi ci guadagneremo a non distruggervi”. Vista cosi, la politica non è altro che esercizio del potere e, per inciso, se a distinguere la democrazia dal dispotismo è l’universalità della legge e la possibilità per chiunque di accedere alle leve del comando, ciò non di meno il potere rappresenta l’essenza stessa della politica, il principio regolatore di una società che consegna ad alcuni il compito di governare i destini di tutti. Secondo Norberto Bobbio, in Stato, Governo e Società (Enaudi, 1985) la politica comprende ricerche: sulla migliore forma di governo (l’utopia di Moro); sul fondamento dello Stato/potere politico e sulla giustificazione dell’obbligo politico (il Leviatano di Hobbes); sulla categoria del politico e sulla distinzione etica/politica (il Principe di Machiavelli).  In altre parole,  la politica può essere definita come una teoria del diritto e della morale ed è evidente che in questo contesto la politica si presenta come, in qualche modo, subalterna a queste due entità concettuali, nei confronti delle quali si presenta anche come un possibile strumento di realizzazione.
 
Mi viene al riguardo, alla mente il dialogo finale de “Le Citta’ Invisibili” di Calvino: “L’atlante del Gran Kan contiene anche le carte delle terre promesse visitate nel pensiero ma non ancora scoperte o fondate: la Nuova Atlantide, Utopia, la Città del Sole. Oceana, Tamoé, Armonia, New-Lanark, Icaria. Chiese a Marco Kublai: – Tu che esplori intorno e vedi i segni, saprai dirmi verso quale di questi futuri ci spingono i venti propizi. – Per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla carta né fissare la data dell’approdo. Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo d’un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano nel viavai, per pensare che partendo di lì metterò assieme pezzo per pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero; puoi rintracciarla, ma a quel modo che t’ho detto. Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte delle città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World. Dice: – Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente. E Polo: – L’inferno dei viventi, non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. L’altra definizione è quella per cui la politica è essenzialmente teoria dello stato e anche della società, ma soprattutto teoria dello stato, dove il primato della politica (indipendenza o superiorita’ del giudizio politico rispetto al giudizio morale) e’ connesso alla dottrina della “ragion di Stato[i]”. Poi c’è la definizione della politica come tecnica dell’esercitare e del conservare il potere, ovvero, come studio delle regole dell’arte di governo badando esclusivamente all’efficacia di tali regole indipendentemente da ogni remora religiosa o morale.
 
Ma con ciò cosa voglio intendere o meglio perché scomodare le varie teorie della politica ? Bene, è tutto molto semplice, al di la del giro di parole!  … nulla mi leva dalla mente che la logica del mercato e della gestione dello stato come azienda ha gettato il seme dell’incubo contabile, del tornaconto finanziario, come criterio per valutare l’opportunità di intraprendere un’iniziativa sia privata che pubblica, dove invece il compito primario della politica è (e credo di condividere questo sentimento con molti)  la messa in discussione dei fini e la scoperta di una nuova modalità di organizzazione dell’esistente.
 
A suggerire la via di uscita è sempre il grande Keynes dell’ultimo capitolo della Teoria generale: «Dobbiamo tendere a separare quei servizi che sono tecnicamente sociali da quelli che sono tecnicamente individuali. L’azione più importante dello Stato si riferisce non a quelle attività che gli individui privati esplicano già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno compie se non vengono compiute dallo Stato. La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto».
 
Ma forse, alla luce della crisi attuale, anche questo non basta più ! L’attuale crisi della finanza ha costretto gli Stati a pesanti interventi nell’economia. Le modalità scelte sono state quello dell’accollo pubblico di debiti privati. Si calcola che per far fronte alla crisi economica siano stati spesi oltre 8 Trilioni di dollari tra acquisto di titoli tossici (1,6 Trilioni), ignizioni di capitale (2,4 Trilioni) e garanzie (oltre 3,9 Trilioni). Atteso che gran parte di tale denaro viene dalla casse degli Stati o da istituzioni finanziate dagli stati e che tale intervento non è affatto stato selettivo, ovvero che nell’erogazione del denaro non è stato seguito un criterio di aiuto che distinguesse in qualche modo tra imprese meritevoli di supporto o meno. Il sostegno è, cioè, è andato alla generalità delle istituzioni finanziarie in difficoltà, anche e soprattutto a coloro che avevano generato la crisi!
 
La conseguenza di tali misure è evidente: sul mercato non sono state colpite le “mele marce” che, anzi, si sono trovate di fronte ad un rafforzato ed inaspettato aiuto. 
 
Le conseguenze ?
 
Il denaro, arrivato abbondante ed a più buon mercato di prima, ha permesso alle grandi banche di sostenere il corso dei loro titoli tossici e, quindi, ha ridato fiato alle borse ed al mercato dei derivati. Dall’agosto di questo 2009 sono in buona ripresa i mercati finanziari di mezzo mondo, che, a dispetto della caduta dei consumi, macinano  buoni rialzi, suggerendo della non precarietà del loro rialzo il parco buoi. Segnaliamo che il Down Jones (l’indice dei mercati americani) è tornato sopra la soglia dei 10.200 punti, guadagnando i massimi dell’anno, e che fra marzo e novembre i mercati hanno realizzato un balzo record del 70% ed i conti delle grandi banche d’affari chiudono in utile, dopo aver visto non più di un anno fa la morte in faccia ed aver pietito l’intervento dello Stato.  
 
La morale la lascio a Voi … io però temo per gli esiti e ancora di più, molto di più per una politica ancora preda dell’incubo del contabile !
 
 
 
 

[i] per Hegel il tribunale che giudica le azioni dello stato e’ quello della storia universale !

 

 

 

 

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