Il senso estetico, le scelte dei committenti pubblici, il significato e il ruolo indistruttibile della tradizione nei canoni del bello

15 Gennaio 2010

Mino Mini

Uscire dal deserto/2

 

 

DIVINA BELLEZZA

 Temi e problemi nello snodarsi dei secoli  che improvvisi precipitano nella/ dalla contemporaneità delle scelte senza misura e impongono di tornare a parlare su ciò che è e non è “bello”  – Le scelte  dei “committenti” politici incidono sulla regressione della fruizione estetica del bello o meno nello “spazio” pubblico
           Riprendiamo il discorso da dove lo lasciammo (9 Dicembre 2009, Destra allo specchio. Cultura, politica e ideologia: fra trasformismi, tradimenti e… addentare quel che capita Per un dibattito. Oltre la modernità
USCIRE DAL DESERTO : anticipazione della pubblicazione dell’articolo che uscirà su Il Borghese di gennaio) con uno scarto dal percorso stabilito per afferrare un’opportunità.
 Da un po’ di tempo si stanno manifestando, a livello massmediatico e letterario, reazioni da parte di diversi critici alle follie architettoniche delle arcistar. Tra tali reazioni, oltre a quella particolarmente significativa di papa Benedetto XVI sul tema delle chiese che ha dato luogo all’affermazione essere, la bruttezza delle chiese, un attacco alla fede, spiccano gli interventi di personaggi come Stefano Zecchi, Vittorio Sgarbi, Nikos Salìngaros che si rifanno a criteri di giudizio di natura estetica. L’opportunità di inserirsi nel dibattito porta a venir meno al rigore espositivo prefissato nel precedente articolo affrontando per primo il momento dell’estetica o dell’individualità laddove lo stesso avrebbe dovuto chiudere il ciclo da aprirsi con il momento della logica o del concetto.     
 Momento dell’estetica è quello della poiesis ovvero, per estensione, della creazione continua del mondo da parte dell’uomo. Una simile definizione genera subito un quesito: cos’è l’estetica? Nel frammentarsi della coscienza tipica della modernità il termine assunse nel settecento, per opera di A.G. Baumgarten, il significato di disciplina filosofica che si occupa del bello e dell’arte, ma nell’ansia di soggettivazione che  ne derivò, il termine fu concepito come affermazione del bello relativo alla possibilità di giudizio del gusto ( il noto “è bello quel che piace”). La bellezza diventò, in tal modo, non un valore universale, ma una questione di talento personale dell’artista e di opinione presso chi ne riceve l’opera ( il consumatore si direbbe oggi ). Poiché il nostro obiettivo, come si ricorderà, è quello di andare oltre la modernità suggeriamo, allora, una definizione organica dell’estetica, anzi olistica: categoria dello spirito che comprende e studia il mondo della forma. 
Ed ecco la domanda nella domanda.: cos’è la forma? La forma è il modo secondo il quale le cose (gli enti) si danno alla nostra percezione come connessioni, rapporti, interrelazioni con altre cose e come rapporto, interrelazione fra le cose e il mondo. Per capirlo, occorre superare il baratro del nihil relativistico e per farlo occorre prendere una lunga rincorsa, quindi partire da lontano, dai primordi della nostra cultura: dalla Grecia di Eraclito l’oscuro 550 a.C. e di Anassimandro di Mileto 610 a.C.. All’origine sta il concetto di DIKE come connessione, ordine, armonia. Occorre, però, specificare. Come rileva Caterina Resta …il significato di ordine non è “ordo” nel senso di ordinamento e regolamento, né è un mero “mettere in ordine” classificante. Esso significa KOSMOS in contrapposizione a KAOS… KOSMOS è il mondo retto da DIKE in quanto TUTTO-ordinato e questo ordine è cosmico perché non è frutto del calcolo umano, ma risulta da una profonda armonia che è anche perfezione e – in quanto tale – soprattutto bellezza. Divina bellezza. Platone, nel Gorgia (uno dei suoi Dialoghi) afferma che la bellezza nasce dall’ordine che tiene insieme cielo e terra, uomini e dei.  Ritornando al concetto solistico dell’estetica poniamoci,ora, l’interrogativo chiave necessario ad aprire il mondo greco e, a seguire, quello romano, quello rinascimentale e quello moderno: cosa connette, mette in rapporto, correla le cose (gli enti) in se e gli enti con il mondo (cosmo) dando luogo all’armonia?  La risposta dei greci fu: la MISURA. Occorre sgomberare preventivamente il campo dagli equivoci che si sono accumulati nel tempo. Il citato Eraclito ( quello del tutto scorre, il mondo è in continuo divenire e non ci si bagna mai nello stesso fiume ) nel Fr. 94 dice “ Elios non oltrepasserà le sue misure: se no le Erinni, ministre di DIKE, lo troveranno”. Traducendo, in sostanza, dice: l’osservanza della misura consiste nel mantenersi entro i limiti di un ordine cosmico in cui ogni cosa trova la sua definizione e la sua giusta collocazione. DIKE è, appunto, questa giustizia che –per come la intendeva Eraclito ed anche il citato Anassimandro nel Fr. 1 – non aveva nulla a che vedere con i termini giuridici a noi noti di Diritto e Giustizia e ADIKIA, il termine che si oppone a Dike, non significa ingiustizia, ma discordia, disconnessione, travalicamento dei limiti che definiscono la finitezza. Sempre nella fase aurorale del pensiero greco, nacque e si sviluppò nel V° sec. a.C. ad Abdera in Tracia ai confini del Ponto, un eccezionale centro filosofico di cui Protagora 491 a.C. e Democrito 460 a.C. furono i più prestigiosi esponenti. Abdera non esiste più, Protagora e Democrito esistono ed esisteranno finché la civiltà occidentale avrà vita per due concetti. Protagora disse: metron estin anthropos – l’uomo è misura di tutte le cose-. Diogene Laerzio cui dobbiamo la citazione del concetto,lo completa con …misura… di quelle che sono, in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono. Questa citazione è stata distorta ideologicamente dalla cultura contemporanea interpretandola come un’anticipazione del soggettivismo moderno che vede la misura come “dominio attraverso il calcolo” che spezza il mondo totale dei greci in due mondi: natura e mondo psichico. Ma il metron di Protagora non ha il significato di calcolo, ma di correlazione fra le parti di un TUTTO limitato, finito. Misura come moderazione, come rapporto proporzionale fra il tutto finito e le sue parti. Lo fa intendere Democrito che afferma l’altro concetto universale: anthropos micròs còsmos – l’uomo è un piccolo cosmo, un piccolo mondo. L’uomo è un mondo finito entro i cui limiti metron estin. Siamo giunti infine al punto nodale che mise l’uomo greco nella condizione di “misurare” la terra in rapporto al cielo, di misurarsi con la divinità (seguendo Platone) e tramite questa “misura” inserirsi nel processo di creazione del mondo. E’ a questo punto, infatti, che nasce l’arte classica. Prima con la MITOPOIESIS che non è creazione del mito, ma racconto sacro della creazione del mondo. Omero, Esiodo e gli altri poeti sacralmente ispirati, narrano la cosmogonia e la creazione ciclica del mondo. Poi con l’intuizione e la “misura”  degli scultori e degli architetti che demiurgicamente continuano nella creazione.
Scrisse Walter Otto come sia notevole che, nel mondo greco, il divino “non sia annunziato da profeti o confessori, ma da poeti ed artisti”. Sono infatti gli artisti che seguendo Protagora e Democrito “scoprono” la legge che regola la creazione del mondo ad opera dell’uomo. Policleto esplora, prima teoricamente nel suo CANONE, scitto a noi giunto in frammenti, poi nella pratica con il Doriforo, tale legge. Seguirà Mirone con il suo Discobolo. La legge è, appunto la misura proporzionale che permette, una volta compresa, di realizzare tutti i dorifori e discoboli che si vogliono. Su questa strada si pongono, poi, gli architetti che applicano la stessa legge di proporzionamento negli ordini o, per essere più precisi, nell’intercolumnio degli ordini. La legge di proporzionamento che consente , dopo 2500 anni, noto il modulo, anche la ricostruzione di una scultura in frammenti o di un tempio diruto. Ecco come nacque, in occidente, la bellezza e cosa sia stata la cultura greca che intendiamo come sinonimo di civiltà. Per sintetizzarla la individueremo nella capacità di decomporre e ricomporre, mediante un processo analitico di giudizio, le leggi genetiche della realtà fisica e psicologica. Da questa capacità scaturì il senso della perfezione e quello teorico del modo di realizzare un prodotto formale.
Possiamo ora, presa la rincorsa, saltare oltre il baratro del nichilismo fidando nella tradizione ovvero nella trasmissione della legge che regola la creazione-costruzione del mondo ad opera dell’uomo che ci viene dalla Grecia. Occorre, però, rimuovere prioritariamente un grosso equivoco che aleggia nella trattazione di alcuni critici di architettura o improvvisati tali, ad esempio, nella reazione alle opere delle archistars. La tradizione non sono gli ordini, ma il principio generatore degli stessi. Adottando stili del passato, qualunque passato, non si segue la tradizione; la si rinnega interrompendo il processo di creazione continua del mondo. La tradizione sta nel ricercare la misura proporzionale capace di misurare il mondo contemporaneo per metterlo-in-forma ovvero per ristabilire la complessa connessione, oggi perduta, tra l’uomo e la natura. Ma, come dice Caterina Resta “Tenersi nella misura, nella moderazione è dunque per l’uomo compito ben più difficile, rispetto agli altri enti. Egli è il massimamente discorde e, insieme, colui che più di ogni altro deve ricercare l’accordo, la connessione. Quanto produce, ciò che mette- in- opera, ciò che è frutto della sua techne, deve rispondere a questo difficilissimo compito: mettere-in-forma, “formare” l’opera, darle misura, restituire all’opera Dike, connettere, attraverso l’opera, ciò che massimamente è s-legato (proto il trattino);riconciliarsi, per il tramite di questa poiesis, alla physis.” Per inserirsi nel dibattito sulle arcistar da cui siamo partiti, date le premesse enunciate va subito detto che gli aspetti nichilistici del loro operare, basati sull’assunto che ogni cosa è possibile, portano alla presunzione tutta nichilistica che ogni cosa sia anche permessa senza considerazione alcuna per quella dike di cui si è detto. In tal senso il loro prodotto non mette-in-forma, ma al contrario violenta il ridotto mondo in cui si inserisce fino a provocarne il degrado e, in prospettiva, la distruzione. Ed a tale distruzione non corrisponde la creazione di un mondo nuovo con nuovi valori espressivi di una rinnovata imago mundi. In altre parole: non è architettura perché la creazione, massimamente quella architettonica, è un atto di superiore conoscenza che si concretizza nel continuare il creato, l’esistente, avendone individuato il processo di continua trasformazione ovvero lo spirito vitale del mondo. La creazione si identifica con quel “averne cura” di cui parlava Heidegger che non è semplicemente conservazione del divenuto, di ciò che è stato realizzato, ma conservazione del principio del divenire. Divenire presuppone qualcosa che c’è protesa al riformarsi, non ad essere un’altra cosa ma la stessa “cosa” non più generata,ma generatrice. Non finisce, ma muore ad una esistenza per addivenire ad una esistenza superiore “oltre”. Cioè qualcosa in più della precedente da cui si origina. La incultura nichilistica, invece, rifiuta ogni legame con il passato, qualunque passato, a cominciare dallo ieri prossimo e con ciò nega il divenire, nega il valore del bello, dell’organicità, del linguaggio che ne deriva chiudendosi dentro la prigione dell’incomunicabilità e rifiutando la realtà del mondo perché non lo può capire, misurare,  per mancanza di criteri di giudizio, di valori di riferimento.
Davanti a molte opere delle arcistar arbitrariamente decontestualizzate rispetto alla forma dell’ambiente in cui vengono realizzate, s-collegate (proto il trattino!) nelle parti che le costituiscono, prive di un linguaggio che  ne consenta la comprensione e al di fuori di ogni continuità di tempo, oltre che di luogo, balza alla mente la lapidaria affermazione di F. Nietzsche: “… quando il filo dell’evoluzione è spezzato, anche l’artista meglio dotato non riesce che a compiere degli esperimenti effimeri.” Senza bellezza, senza  Dike, senza “misura” per capire ed operare nel mondo, una civiltà decade, perde identità e l’uomo, come abbiamo già avuto modo di dire, diventa un cyborg, un prodotto della tecnica. Ridotto ad una entità astratta, priva di umanità diventa facilmente condizionabile dai mezzi di comunicazione di massa  che gli impongono come reagire a determinati stimoli e di conseguenza come scegliere, come agire, come sentirsi felice o infelice, come credersi libero e indipendente. Come accettare le opere delle arcistar. 
Quando la nullità morale, oltre che culturale, dei committenti pubblici porta alla realizzazione di tali opere il rapporto fra cittadini e lo Stato garante dei valori e della loro libera fruibilità da parte di tutti, si interrompe e gli esiti di tale distacco possono rivelarsi distruttivi.