Ipazia. Una pagina terribile e tragica dell’antichità. Servirà per cominciare a rimuovere il velo delle false storie e dei crimini santificati?

27 Aprile 2010

Mino Mini

 

La fine del mondo antico

IPAZIA E LA FUGA DEGLI DEI

 

Quante Ipazie ci sono?
Dopo la preannunciata uscita del film Agora del regista Alejandro Almenàbar avvenuta nel clima anticlericale che sta colpendo la chiesa di Roma, ogni corrente di pensiero avversa al cristianesimo o alla religione tout court si è prodotta in commenti volti a rivendicare Ipazia come propria martire. Una strumentalizzazione balorda e stomachevole soprattutto pensando alla figura storica di questa donna religiosissima, in senso pagano, colta e coraggiosa oltre ogni limite. Del resto non è la prima volta che Ipazia affascina il mondo della cultura. Voltaire ne parlò evidenziandone l’avvenenza e l’ingiusta condanna subita, nel 1720 John Toland in un saggio la menzionò come martire innocente ed il nostro Vincenzo Monti – il traduttor dei traduttor d’Omero – fece altrettanto. Fu protagonista di poemi, romanzi e storie romanzate, ma nessuno – meno che meno Almenàbar – ha collocato Ipazia come “momento” particolare di un processo storico che ha visto la fine di un’era.
La vicenda d’Ipazia, della quale possediamo poche notizie e nessun scritto certo, è quanto di più affascinante si possa immaginare. Per comprenderla, come dicevamo, occorre situarla nel tempo ripercorrendo gli eventi che l’hanno preceduta.
Ipazia nasce, sembra, nel 370 cioè dopo cinquantasette anni che il cristianesimo è divenuto religione di stato ad opera di Costantino, ma non sarà cristiana. Allieva del padre Teone, matematico, astronomo e rettore dell’università di Alessandria, ne diviene collaboratrice e “controllore” del commento paterno al “Sistema matematico” (Almagesto) di Tolomeo. Supera il genitore per unanime riconoscimento dei contemporanei e a ventitré anni – secondo il suo allievo Sinesio al quale dobbiamo la conoscenza della filosofa – è già a capo della scuola alessandrina del neoplatonismo.
E’ su questo punto che dobbiamo soffermarci per conoscere Ipazia, sul neoplatonismo fondato nel 205 da Ammonio Sacca in Alessandria in pieno tardo ellenismo, 108 anni prima dell’editto di Costantino. Non abbiamo alcuno scritto di Ammonio il facchino – “sacca” sta ad indicare il mestiere che esercitò da giovane per vivere – ma ne conosciamo gli allievi: Origene, da non confondere con il cristiano dallo stesso nome, il retore Cassio Longino autore dello scritto “Sul Sublime” che però non è suo e soprattutto Plotino (203-270) e, dopo di lui, il suo esegeta Porfirio di cui conosciamo solo la data di nascita (232) oltre alle opere. Marcello Veneziani, nel suo “Vita natural durante” ci dice che Ammonio fu un seguace di Cristo, ma era andato oltre. Infatti il neoplatonismo nacque dalla esigenza di attuare un profondo rinnovamento religioso che soddisfacesse le aspirazioni soteriche alimentate dalle eplorazioni in dottrine e forme di religiosità orientali oltre che dalla tradizione orfica e pitagorica. Fu un’esplorazione, su base razionale, delle verità tradizionali compiuta da un paganesimo intellettualmente raffinato che portò a postulare un Dio unico inteso come assoluta trascendenza, come “Uno”, dal quale per emanazione deriva il “molteplice”, cioè il mondo. Gli antichi dei di Omero ed Esiodo venivano così riconosciuti solo come ipòstasi, ossia personificazioni personali dell’Uno.
Questo principio dell’emanazione è fondamentale per comprendere “l’andare oltre” di Ammonio e dei suoi allievi e le distanze che separavano l’intellettualistica concezione dell’Uno dei neoplatonici dalla fideistica visione di Dio dei cristiani.
E l’uomo nella concezione neoplatonica?
In quanto emanazione del divino, pertanto dotato di spirito oltre che di materia, aveva la responsabilità – e quindi il compito – di purificare il corpo e soprattutto l’anima per poter risalire dalla molteplicità all’Uno, a Dio, rendendosi il più possibile simile agli dei (Aristotile: Etica Nicomachea) e quindi divinizzandosi.
Questa concezione sapienziale che postulava un mondo increato esistente dall’eternità e che esisterà in eterno, mirava ad assorbire e neutralizzare, nell’alveo del paganesimo evoluto e rivitalizzato, il fenomeno religioso cristiano reputato pericoloso e disgregatore dell’impero. Ma cristiani con la fede in un Dio creatore del mondo e neoplatonici con la concezione di un mondo eterno ed increato, non potevano intendersi; né potevano convivere l’abolizione del mondo reale come atto salvifico nel nome di un perfetto mondo futuro extraterreno predicata dai cristiani, con la garanzia di salvezza attraverso la risalita delle anime e l’ascesa al divino dei neoplatonici.
Il neoplatonismo fu la sintesi culturale dell’intero pensiero antico elaborata da Plotino, ma fu anche l’ultimo bagliore di una civiltà al tramonto. Come una nova al momento della sua estinzione, l’ellenismo brillò della luce dello spirito mentre il mondo in cui aveva visto la luce andava morendo per l’immiserimento spirituale ormai in stato avanzato. Il paganesimo neoplatonico, nella sua ultima battaglia per la salvezza della civiltà e dell’impero, aveva mirato troppo in alto e di ciò Plotino era presago.
Con l’editto di Costantino che rese il cristianesimo la religione di stato ed in quanto tale un organismo politico, si ebbe un capovolgimento fondamentale all’interno di questo: l’attesa della imminente parusia, l’atteso ritorno del secondo avvento di Cristo, si tramutò in un evento metatemporale e lo si fece opportunamente coincidere con il giudizio universale di là da venire acciocchè, nel frattempo, il cristianesimo rimasto nel mondo potesse identificarsi, totalitariamente, con l’impero. Il sangue dei martiri, che era stato il grande brodo di coltura del cristianesimo precostantiniano, fuoriuscito dalle catacombe, sommerse il grande vivaio religioso dell’impero soffocandolo. Iniziò la sistematica distruzione del mondo antico, vivo e reale, nel miraggio di un mondo futuro dopo la morte.
Ci fu una battuta d’arresto nel processo di distruzione allorchè comparve la meteora del coltissimo Flavio Claudio Giuliano imperatore per soli tre anni (360-363). Educato all’ellenismo dall’eunuco Mardonio suo precettore ed attratto dal neoplatonismo per influsso di Libanio, proclamò la tolleranza universale di tutte le religioni negando ai cristiani ogni privilegio politico riconducendo il cristianesimo nell’alveo delle religioni dell’impero. La politica è quella che è: il problema Giuliano fu rimosso drasticamente. Morì in battaglia a Ctesifonte per mano – secondo Libanio – di un certo Tajeno, un soldato cristiano delle truppe imperiali, che lo colpì con una lancia durante una mischia. Morto Giuliano il cristianesimo riprese il sopravvento ed in questo clima di odio antiellenico, sette anni dopo la fine dell’imperatore, nacque Ipazia.
Qual è il nesso fra Giuliano ed Ipazia?
Ci arriviamo premettendo una considerazione: la religione cristiana dell’amore e del perdono, disposta ad essere generosa e indulgente sinanco verso gli assassini, non trovò, nei secoli, una parola di pietà per questo giovane e glorioso imperatore morto a trentadue anni. Per i cristiani di allora, come per gli integralisti islamici di oggi, l’apostasia meritava solo la morte e la damnatio memoriae, la cancellazione dalla memoria degli uomini. Tale fu, però, la sconvolgente paura che l’azione di Giuliano suscitò, da spingere il vescovo Cirillo, salito al trono episcopale di Alessandria, a confutare cinquant’anni dopo la morte dell’imperatore, lo scritto di quest’ultimo “Contro i Galilei”. Tardiva critica priva di senso se non la si inserisce nel quadro di una improvvisa rivitalizzazione della dottrina neoplatonica che, in quel periodo, era rappresentata da Ipazia. Ecco il tragico nesso. Quando cominciò ad insegnare nel 393, l’imperatore Teodosio I aveva appena emesso (391-392) i famosi decreti che portano il suo nome con i quali era stata sancita la proibizione di ogni culto pagano e la equiparazione del sacrificio nei templi al delitto di lesa maestà punibile con la morte. Il vescovo Teofilo, predecessore di Cirillo, nell’ansia di distruggere i culti dell’antica religione si adoperò con insistenza presso l’imperatore fino a che lo stesso ordinò di distruggere i templi degli elleni in Alessandria e questo avvenne per l’impegno dello stesso Teofilo (Codex theodosianus xvi 10,12). Ipazia contrappose a tanto fanatismo politico-religioso il prestigio della tradizionale cultura greca che stava portando all’affermazione di un rinnovato movimento politico e culturale degli elleni. Ma anche Ipazia “volò alto”, troppo alto, ed a nulla valse l’ultima disperata illusione di poter fermare, con la ragione, la marea montante del fanatismo alimentata da Cirillo.
Fu uccisa in modo disumano, ma nessuno ne pagò il fio.
Sotto la reggente imperatrice Pulcheria, fervente cristiana e amica di Cirillo l’inchiesta per l’uccisione di Ipazia si risolse in una remissione generale della pena per gli assassini e il caso fu archiviato nonostante tutti avessero puntato il dito contro Cirillo.
Fermiamoci riverenti davanti a questa donna che tramite l’enorme prestigio culturale seppe guadagnarsi l’ammirazione anche di scrittori cristiani che ne lasciarono testimonianza (Socrate Scolastico e Sinesio vescovo di Tolemaide). Ipazia non era solo colta, come aveva evidenziato anche Voltaire, era bella. Quale importanza poteva avere, in un contesto così tragico, la bellezza di Ipazia? Per dirla con il già citato Plotino di Veneziani: nel suo senso più profondo, la bellezza è manifestazione del sacro. Se per un elleno ciò poteva intendersi come epifania del tendere al divino, il cristiano che sogna l’abolizione del mondo reale nel nome di un perfetto mondo futuro, condanna la bellezza del mondo e la sacrifica ad una bontà irreale e ventura (Veneziani op: cit.). Lo abbiamo visto con la distruzione dei templi, dei simulacri degli dei, delle opere d’arte. La bellezza, specialmente femminile, per il cristiano è lusinga del demonio, è istigazione al peccato. Tale dovette essere lo stigma di Ipazia e la sua orrenda uccisione ne è la conferma.
Racconta il contemporaneo Socrate Scolastico che nel marzo del 415 un gruppo di cristiani, guidati da un lettore di nome Pietro, si appostarono per sorprendere Ipazia: Tiratala giù dal carro, la trascinarono fino alla chiesa che prendeva il nome da Cesario [ex tempio di Augusto] qui, strappatale la veste, la uccisero usando dei cocci [ostrakois= gusci di ostriche]. Dopo che l’ebbero fatta a pezzi membro a membro, trasportati i brani del suo corpo nel cosiddetto Cinerone [la discarica] cancellarono ogni traccia bruciandoli (Socrate Scolastico:Storia ecclesiastica VII,14).
Altre testimonianze ( Damascio) parlerebbero di occhi strappati dalle orbite. Il sonno della ragione, dirà 1300 anni dopo Goya, genera mostri. I mostri nati dalla predicazione di S.Cirillo d’Alessandria, aprirono le porte all’oscura notte del medioevo lasciandosi alle spalle l’ellenismo morente.
Davanti allo scempio del corpo di Ipazia gli dei, presi dall’orrore, fuggirono gli uomini per non tornare più.