Cianetti, il movimento fascista e le botte agli agrari

30 April3 2010

Fonte: Arianna Editrice

 

Tullio Cianetti, il fascista di sinistra che faceva bastonare gli agrari

di Francesco Lamendola

 

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

La Vulgata storiografica democratica ci ha tramandato l’immagine del fascismo come di un blocco monolitico, intimamente reazionario e nemico delle classi lavoratrici; di un fascismo al servizio delle classi dirigenti, in funzione antisocialista e antiproletaria; insomma, di un fascismo che tutto quanto, senza sfumature e senza distinguo, avrebbe svolto il ruolo di una compagnia di ventura al servizio degli agrari e degli industriali, esattamente come facevano i soldati mercenari del Rinascimento al servizio dei Signori.

Eppure ci sono molte, troppe cose che non quadrano, in questa ricostruzione dei fatti; troppe tessere del mosaico che non si riesce a collocare al posto giusto; troppe discrepanze e troppi elementi contraddittori rispetto alla tesi, semplicistica e manichea, che vorrebbe il fascismo come un blocco reazionario monolitico, impegnato nella cieca repressone delle classi lavoratrici, ad esclusivo beneficio dell’egoistico interesse dei capitalisti.

Una di queste anomalie – una delle tante – è rappresentata dalla biografia di un uomo come Tullio Cianetti, ministro delle Corporazioni nel 1943, che spese la sua intera carriera politica all’interno del fascismo per tentare di realizzare le sue idee circa il corporativismo e la socializzazione delle grandi aziende; ma che, probabilmente, il grande pubblico ricorda principalmente perché fu l’unico, subito dopo la storica seduta del Gran Consiglio del fascismo del 25 luglio 1943, a scrivere a Mussolini per ritirare il proprio voto all’ordine del giorno Grandi, lettera che giunse sulla scrivania del duce nel mattino successivo.

Quella lettera, che si potrebbe attribuire a un mero calcolo di sopravvivenza personale, fu, invece, quasi certamente, il risultato di una crisi di coscienza e di una riflessione politica approfondita, che portarono il suo autore a rendersi conto di come, sottoscrivendo l’ordine del giorno Grandi – che, di fatto, sfiduciava Mussolini -, egli avesse fatto involontariamente il gioco di quegli esponenti conservatori del regime, legati a doppio filo all’alta finanza e alla grande industria, i quali erano ben disposti a sacrificare il suo capo, e, se necessario, il regime stesso, pur di scongiurare la prospettiva delle socializzazioni e, al tempo stesso, di salvare le proprie posizioni di potere.

Di fatto, sia la ritrattazione di Cianetti, che la stessa manovra cospirativa di Grandi, Bottai e Ciano, furono vanificate dal colpo di Stato del re, il quale, facendo arrestare Mussolini e nominando Badoglio quale nuovo capo del governo, aprì ben altre e più drammatiche prospettive per la vicenda nazionale, culminate nella tragedia dell’8 settembre, nella occupazione tedesca dell’Italia e nello scoppio della guerra civile del 1943-45.

Ad ogni modo, l’avere scritto quella lettera fu, per Cianetti, la salvezza, perché lui solo si salvò dalla condanna a morte nel processo di Verona, cavandosela con una condanna a trent’anni di reclusione; in pratica decaduta con la fine della Repubblica Sociale. A quel punto, all’ex ministro delle Corporazioni non rimase altro che emigrare, prima che un tribunale della Repubblica democratica aprisse un procedimento a suo carico. Si stabilì in Mozambico, dove morì il 7 agosto 1976, all’età di settantesette anni: era nato ad Assisi il 20 luglio 1899, figlio di un colono morto quand’egli aveva solo sei anni, mentre sua madre era costretta a vendere la terra al proprietario.

È un peccato che le memorie di Tullio Cianetti non abbiano conosciuto una maggiore notorietà: sarebbero servite a correggere alcuni tenaci e interessati pregiudizi circa la storia del sindacalismo fascista e, più in generale, circa la politica sociale del fascismo.

Fra l’altro, esse aiutano a capire come, all’interno del sindacalismo fascista, esistesserlo delle forze autenticamente rivoluzionarie e antiborghesi, che potremmo benissimo definire «di sinistra», se la lunga egemonia culturale del Partito Comunista nella storia dell’Italia nel secondo dopoguerra non avesse posto il monopolio su questa espressione, avocandola unicamente ad uso dei comunisti e dei socialisti.

Non solo. Da esse emerge un sindacalismo fascista che mantiene una fitta rete di contatti e di scambi con i sindacati e con i governi di vari Paesi d’Europa, sia dell’Occidente «plutocratico» (Francia e Gran Bretagna), sia della Germania nazista, sia di alcuni Paesi dell’Europa centro-orientale dominati dallo strapotere degli agrari (Romania, Iugoslavia); e ciò, in larga misura, indipendentemente dalle linee ufficiali della politica estera fascista, rivelando tutta una rete di amicizie, anche personali, e di reciproca volontà di collaborazione, tra il fascismo e taluni gruppi e personalità della sinistra operaia europea.

Ne emerge un quadro inaspettato, molto diverso da quello, schematico e manicheo, cui siamo abituati dalla Vulgata storiografica dominante, secondo la quale tutto il mondo avrebbe guardato al fascismo, sin dall’inizio, come a un regime reazionario e antipopolare, con il quale non solo i governi degli Stati democratici, ma anche i sindacati e le masse lavoratrici d’Europa, non avrebbero voluto avere niente a che fare.

Fra l’altro, Tullio Cianetti (già combattente nella Grande Guerra fra i «ragazzi del ’99» col grado di tenente), che nel 1921 era stato tra i fondatori del Fascio di Assisi e nel 1924 pare avesse ordinato il pestaggio di un proprietario terriero fascista, che aveva fatto licenziare alcuni contadini – durante la guerra di Spagna fu tra quanti si sentirono quasi più vicini ai repubblicani che ai franchisti; tanto è vero che, prima del 1936, aveva intrattenuto rapporti amichevoli con la Federazione Anarchica Iberica di Barcellona. Se la politica estera dell’Italia non avesse reso inevitabile l’alleanza con Franco, il sindacalismo fascista facente capo a Cianetti avrebbe probabilmente operato una scelta di campo diversa, rispetto al confitto civile spagnolo.

E non si dimentichi che quegli anarchici spagnoli, ai quali un certo fascismo di sinistra guardava con un certo interesse, almeno prima del 1936, sarebbero andati incontro, non a caso, alla spietata repressione staliniana del 1937 (con il volonteroso sostegno del Partito Comunista italiano): fatto che, già di per sé, dovrebbe far riflettere i sostenitori della semplicistica identificazione del fascismo come regime interamente reazionario, e del comunismo – sovietico e non – come ideologia democratica e libertaria.

Ha scritto lo stesso Tullio Cianetti nelle propri «Memorie» (in: Enrico Landolfi, «Rosso imperiale» (Chieti, Solfanelli Editore, 1992, pp. 108, 111):

«Il materiale di studio che viaggiò da e per l’Italia fu grande e dette a me e agli altri capi sindacalisti la possibilità di stabilire una serie di contatti che si rivelarono proficui e promettenti…a Parigi si curavano alcuni elementi della CGT i quali, pur manifestando una avversione per il fascismo politico, erano propensi a studiarne le realizzazioni sociali. A Londra era più difficile avvicinare la casta delle Trade Unions, ma io stesso, allorché ne 1938 visitai la capitale britannica, ebbi qualche contatto con deputati laburisti, giornalisti e uomini dell’economia. La battagliera deputatessa inglese Wilkinson, che mi ricevette molto cordialmente nella sua abitazione, probabilmente non avvertì il calore con cui le chiesi di visitare privatamente le organizzazioni operaie italiane. Né io potevo dirle in presenza di testimoni (fossero pure miei amici) quanto serie fossero le intenzioni dei sindacalisti italiani e le finalità che mi spingevano a cercare i contatti con i sindacalisti europei. A quei tempi mi fu di prezioso aiuto e consiglio un vecchio “gildista” inglese, che amo ricordare anche in questo momento in cui le posizioni si sono nettamente capovolte: Kurt Walter, ex laburista di estrema sinistra, vivente da molti anni a Bordighera. Egli conobbe da vicino e studiò a fondo l’organizzazione sindacale del fascismo e si adoperò per farla conoscere ai suoi connazionali. Un suo libro intitolato “La lotta di classe in Italia” ebbe grande fortuna in Inghilterra, perché disse la verità senza incensamenti ed ostilità preconcette.[…]

Se le preoccupazioni riflettenti l’equilibrio mediterraneo non fossero esistite, io non so con quali sentimenti genuini noi fascisti avremmo dovuto assistere allo sconvolgimento della Penisola Iberica. La Spagna ha pagato con un terribile bagno di sangue la mancata sua partecipazione alla prima guerra mondiale. Infeudato al clero ed alla alta borghesia, il popolo spagnolo ha covato per anni una irrequietezza che è esplosa non appena il Paese è venuto a trovarsi improvvisamente privato di quelle catene tradizionali che l’avevano tenuto in soggezione… Il settore sociale italiano sentì subito il disagio di dover conciliare nel proprio spirito le esigenze della politica estera nazionale con le proprie ideologie e tendenze. A distanza di anni e quando sono venuti meno i vincoli della riservatezza obbligata, si può osservare che, se i sindacalisti italiani nutrivano preoccupazioni ed ostilità per gli eccessi di Barcellona, non avevano molte simpatie per Burgos.»

Una delle ragioni della «damnatio memoriae» di Tullio Cianetti, crediamo, è stata anche la sua adesione alla politica razziale adottata dal fascismo dopo il 1938. Giustizia vuole, però, che si riconosca come pure altri personaggi – non solo della politica, ma anche della cultura – i quali aderirono al manifesto della razza, e sottoscrissero i provvedimenti antisemiti, riuscirono a riciclarsi, dopo il 1945, nel sistema della Repubblica democratica e antifascista. Viene perciò il dubbio che il vero motivo della condanna senza appello, che la storiografia italiana ha emesso nei suoi confronti, abbia la sua vera origine nella volontà di mascherare il fatto che il sindacalismo fascista fu un’esperienza discutibile fin che si vuole, ma che ebbe una sua dignità e una sua ideologia che non si appiattiva per niente sugli interessi delle classi reazionarie, ma che cercava sinceramente una «terza via» tra bolscevismo e capitalismo di rapina.

Il discorso sarebbe terribilmente di attualità, ai nostri giorni; ed ecco perché vale la pena di tornare a parlare di personaggi come Tullio Cianetti, che, se non costituirono mai il gruppo dirigente maggioritario del regime fascista, conservarono tuttavia una certa autonomia e si adoperarono reiteratamente nel senso di sollecitare quelle radicali riforme strutturali, che il programma economico-sociale di Piazza San Sepolcro aveva lasciato intravedere.

Lo storico Claudio Moffa (l’unico professore universitario italiano ad aver sdoganato il dibattito sul revisionismo dell’Olocausto, invitando due volte Robert Faurisson a tenere dei corsi per i suoi studenti), si è occupato della figura di Tullio Cianetti in una concisa ma ricca biografia a lui dedicata nel «Dizionario biografico degli Italiani illustri», di cui riportiamo la parte centrale (Roma, a cura dell’Istituto per la Enciclopedia Italiana, vol. 25, 1981, pp. 170-172):

«[…] il Cianetti criticò quanti concepivano “il fascismo come la reazione della borghesia sul proletariato (Arch. centrale dello Stato, Carte Cianetti, B1). Per lui, invece, il principio fascista della collaborazione fra le classi richiedeva una lotta su due fronti: da una parte contro “l’ubriacatura bolscevica”, e dall’altra contro quei capitalisti “che del capitale si servono per basse speculazioni contro la Nazione.

A causa di questa sua posizione, il Cianetti restò presto un isolato, in mezzo a un quadro dirigente del fascismo umbro composto in massima parte di avvocati, medici, proprietari terrieri. La sua iniziale carriera politica risultò così assai movimentata: criticò aspramente la “Terni” in seguito ad alcuni licenziamenti; ma poi ricevette un compenso dalla direzione delle Acciaierie, che egli sostenne nella vertenza con il Comune per la nuova convenzione idroelettrica. Promotore di alcune battaglie contro quelli che definiva episodi di “degenerazione” del fascismo, il Cianetti venne presto additato come “bolscevico tricolore” e come massone.

Nei primi mesi del 1924, accusati di aver promosso una spedizione punitiva contro un agrario fascista che aveva sfratato alcuni coloni, subì un attentato. A giugno l’assassinio di Matteotti provocò in lui una crisi di coscienza: si dimise dalla Milizia volontaria perla Sicurezza nazionale, manifestò il proposito di costituire una organizzazione sindacale autonoma, e prese contatti con sindacalisti “rossi”. Venne espulso, sembra, dal partito fascista. Rientrato nei ranghi, ebbe nuovi scontri con il fascismo locale (duello con il deputato fascista Passavanti), che lo costrinsero a dare le dimissioni il 20 giugno del 1925.

Legatosi strettamente a E. Rossoni, segretario della Confederazione dei sindacati fascisti in un clima generale che era sempre meno favorevole a qualsivoglia iniziativa sindacale (patto Vidoni del 1925, legge Rocco del 1926), il Cianetti ripeté in tutte le successive sedi l’esperienza umbra: :il suo sindacalismo venne sempre respinto e sconfitto dagli apparati fascisti locali. A Siracusa, dove rimase dall’agosto 1925 al marzo 1926 come segretario provinciale dei sindacati fascisti, venne accusato di favorire elementi “socialistoidi”. Trasferito a Carrara, fu boicottato dalla Federazione fascista locale, di cui denunciò “l’affiatamento” con gli industriali. Fu lo stesso ministero delle Corporazioni, questa volta, ad ordinare a Rossoni di trasferire Cianetti a Messina (5 agosto 1927). Da questa città, di cui denunciò le “tante camorre”, pubblicando fra l’altro un articolo “antiplutocratico” che gli costò un secco richiamo di Rossoni (Arch. Centr., carte C., B2), fu allontanato nel settembre 1928. Diresse quindi, ma come commissario, i sindacati di Treviso e Matera. A Treviso tornò il 26 aprile 1929, come segretario dei sindacati dell’agricoltura. Il 1931 segnò un salto nella sua carriera: il 18 febbraio veniva nominato commissario della Federazione nazionale dei sindacati dell’industria del vetro e della ceramica; iniziò intanto a collaborare con “Il lavoro fascista”; a luglio, in coincidenza con l’apertura delle trattative per il contratto dei marmisti di Carrara, diventò segretario della Federazione nazionale dei sindacati delle industrie estrattive.

Anche in tale veste fu protagonista di battaglie in nome di quello che egli riteneva essere il “vero” sindacalismo fascista, dalle quali usciva sostanzialmente sconfitto: scrisse una monografia su “la vertenza degli operai del marmo di Carrara, aspramente criticata dagli industriali del settore; si pronunciò contro l’aumento del prezzo del marmo, e a favore della concentrazione delle più di trecento imprese marmifere di Carrara; manifestò infine riserve verso il cosiddetto “sistema Bedaux”, variante del taylorismo, che conobbe in questo periodo larga applicazione in tutta l’industria italiana. Ma queste sue iniziative caddero nel vuoto. Più tardi, nell’aprile 1932, di nuovo a Carrara, ebbe luogo una agitazione operaia contro una riduzione salariale del 20%, pattuita dal sindacato. E il Cianetti, inviato prontamente sul posto per calmare le acque, promosse una riunione di operai che servì ai fascisti per individuare, bastonare e licenziare i lavoratori che protestavano contro l’accordo (Acquarone, p. 545; Arch. Stato, carte Cianetti, B3).

Il 22 aprile 1933, un giorno dopo la firma di un secondo accordo nel settore marmifero per una nuova riduzione salariale del 12%, il Cianetti passò a dirigere i sindacati industriali di Torino: fu questa l’esperienza che gli aprì la strada alla carica di presidente della Confederazione nazionale sindacati fascisti italiani, il 15 gennaio 1934. In tale veste, mentre intraprendeva un’opera di riorganizzazione di alcune corporazioni, denunciando il pericolo di burocratizzazione e il carrierismo dei giovani (Acquarone, p. 228), firmò il 26 aprile 1934 un accordo con la Confindustria che prevedeva una ulteriore riduzione del 7% dei salari, e si pronunciò contro l’abolizione del cottimo, richiesta da alcuni sindacalisti fascisti […]

Questa sua sostanziale fedeltà alle direttive emanate dalle alte gerarchie del regime gli permise di continuare l’ascesa: già vicepresidente dell’Istituto di previdenza sociale, e dell’Istituto nazionale fascista per l’assistenza e per gli infortuni sul lavoro, membro del Consiglio di amministrazione del Banco di Roma, dopo essere entrato grazie al “plebiscito” del marzo 1934 nel Parlamento, il Cianetti venne nominato il 7 novembre dello stesso anno membro del Gran Consiglio del fascismo, carica che ricoprì fino al processo di Verona. Nel 1935, ancora presidente della C.N.S.F.I., rappresentò i sindacati fascisti alla Conferenza internazionale del lavoro di Ginevra. Poi, dopo una serie di viaggi all’estero (Inghilterra, incontro con gli emigrati, 1937; Iugoslavia, Romania, Germania, visite di Stato, 1939),il 21 luglio 1939 venne nominato sottosegretario di Stato al ministero delle Corporazioni.

Giunto ormai al culmine della carriera, negli anni ’35-’43, il Cianetti abbandonò quasi del tutto ogni contestazione sul terreno specificatamente sindacale, per collocarsi sul piano politico generale lungo due direttrici principali, che ispirarono la sua azione e la sua intensificata attività pubblicistica […], una politica estera di carattere oltranzista e bellicista, intesa come strumento di “emancipazione” della “grande proletaria”: e, in questo quadro, il Cianetti sostenne l’impresa coloniale etiopica, da lui definita “la più rumorosa manifestazione di lotta di classe proiettata sul piano internazionale” (Carte Cianetti, B5),opponendosi, assieme a Farinacci, all’accettazione del piano Laval-Hoare (dicembre 1935); esaltò l’alleanza con la Germania nazista, criticando i suoi poco convinti assertori in Italia; e professò apertamente il razzismo antiebraico nei suoi discorsi ufficiali successivi al 1938.»

Entrata l’Italia nella seconda guerra mondiale, il 10 giugno 1940, Cianetti, coerentemente con le posizioni espresse in numerosi articoli e discorsi in quest’ultima fase della sua carriera politica, salutò l’evento come l’inizio di una guerra di popolo, rivoluzionaria nella sua essenza: la più necessaria delle guerre rivoluzionarie, avente per obiettivo l’instaurazione di un ordine sociale più giusto a livello mondiale.

Nel 1943, in seguito a un rimpasto ministeriale e alle dimissioni, per malattia, del nuovo ministro designato, Tiengo, Cianetti salì alla carica di ministro delle Corporazioni e, in tale veste, ebbe in sorte di fronteggiare le prime agitazioni operaie del Nord Italia, verificatesi nel marzo di quell’anno. Pur essendo sempre stato un fascista di sinistra, non sfuggì, in almeno una occasione, ad una clamorosa contestazione da parte dei lavoratori, tanto che dovette fuggire sotto le sassate di un gruppo di operaie.

Ormai il regime stava franando, e Cianetti si convinse che l’unica maniera per puntellarlo era quella di ritornare alle origini sociali del movimento fascista, antiborghesi e anticapitaliste; e fu in tale prospettiva che cercò di svolgere opera di persuasione presso Mussolini.

In particolare, egli si sforzò di persuadere il titubante dittatore della necessità di affrettare la socializzazione delle grandi aziende (programma che sarà ripreso, e parzialmente realizzato, all’epoca della Repubblica Sociale Italiana). Pare che fosse stato stabilito di portare la decisione in sede di Gran Consiglio del fascismo, per il mese di agosto: se ciò è vero, molte cose diverrebbero chiare circa i retroscena del complotto del 25 luglio 1943 (cfr. il nostro precedente articolo: «Fu il progetto di socializzare l’economia italiana a provocare la crisi del 25 luglio 1943?», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).

In particolare, giusta l’interpretazione dello storico Enrico Landolfi, diverrebbe chiaro il ruolo giocato da Casa Savoia quale garante degli interessi delle classi dirigenti, e specialmente della grande industria, dal momento che già un intervento di Vittorio Emanuele III era valso, prima del 25 luglio, a bloccare la candidatura dello stesso Cianetti alla carica di segretario del Partito Nazionale Fascista (carica poi andata a Carlo Scorza). Il che, fra l’altro, la dice lunga su quanto pesasse la volontà del re, anche nei più delicati assetti interni del fascismo: cosa che smentisce clamorosamente le tesi della Vulgata storiografica democratica, secondo la quale Vittorio Emanuele III sarebbe stato, per vent’anni, una sorta di ostaggio del fascismo, o, quanto meno, sarebbe stato isolato dai centri del potere effettivo e relegato in un ruolo puramente di rappresentanza.

Ha scritto Enrico Landolfi nel suo saggio «Tullio Cianetti. Un gerarca interlocutore della sinistra democratica e libertaria» (nel già citato «Rosso imperiale, pp. 111-113):

«Nell’aprile del ’43, quando si trattò di sostituire alla segreteria del partito il giovanissimo Aldo Vidussoni triestino, mutilato, medaglia d’oro della guerra di Spagna nel carnet di Mussolini non figurava il nome di Carlo Scorza, bensì quello di Tullio Cianetti. L’intervento in extremis di Ciano e Farinacci impedì in extremis una nomina tanto caratterizzata a sinistra; ma a bloccare la presa del potere nel PNF dei “comunisti” cianettiani, contribuì, in modo certo determinante, il Quirinale, che fece notare al duce sembra con un personale pronunciamento del re, la “inopportunità e pericolosità” di una designazione del genere, anche perché i cianettiani erano partecipi non soltanto dei sindacati e delle corporazioni, ma perfino del pur accantonatissimo Gran Consiglio del Fascismo, rappresentati da uomini quali Rossoni, Pareschi e Gottardi (di altri non sappiamo, non ci sentiremmo però di escludere presenze ulteriori), tutti venticinqueluglisti e condannati a morte con sentenza eseguita sugli ultimi due per non aver ottemperati al suggerimento del ministro delle corporazioni di inviare a Mussolini una lettera di ritrattazione di un voto giudicato, dopo essere stato espresso, “di destra”.

Come si vede, i Savoia, lungi dall’essere emarginati dal Littorio secondo quanto si pretende ancora oggi in sede storica, contavano tanto da potersi permettere veti efficaci relativamente a questioni di grande momento interne al partito dominante. Da rilevare che alcune settimane successive alla investiture di Scorza il capo del fascismo, irritato per tutta una serie di iniziative del segretario da lui non condivise, decise di opera – sempre con Cianetti – un nuovo cambio della guardia a Palazzo Wedekind – ma poi ritenne operazione ad altissimo rischio un braccio di ferro col sovrano, per l’occasione certo spalleggiato da settori moderati, di destra, “prudenti” del partito, mentre la situazione militare lambiva le sponde della tragedia e quella interna si appesantiva via via che trascorrevano i giorni.

Tuttavia, per controbilanciare la battuta d’arresto Mussolini non solo confermò l’uomo di Assisi alla testa del ministero corporativo ma accettò la sua idea di approntare immediatamente un progetto di socializzazione delle aziende, e in particolare di quelle grandi. Traguardo d realizzazione: l’ottobre (forse il giorno ventotto, anniversario della Marcia su Roma) Cianetti insistette per accorciare i tempi, motivando ciò con la necessità di fare presto per non dare tempo alle forze conservatrici, quelle sociali non meno di quelle politiche, di passare al contrattacco per paralizzare o insabbiare il disegno socializzatore. Il duce accettò le obiezioni e si impegnò a varare l’operazione in un Consiglio dei Ministri di agosto.

Ovviamente, il siluramento del capo del regime mandò tutto a monte, e – a giudizio di alcuni autorevoli esponenti politici e sindacali di allora, da noi interrogati anni or sono – non è affatto da escludere che il colpo fosse diretto anche contro la socializzazione, tanto più che niente vietava di immaginare che questa ristrutturazione spiccatamente rivoluzionaria fosse da collegare, in qualche modo, ai tentativi di Mussolini di indurre la Germania ad una pace separata con la Russia per concentrare tutte le energie dell’Asse contro il blocco occidentale. Egli, infatti, sempre più insisteva con il suo omologo e “dirimpettaio” di Berlino – parole buttate al vento – sui contenuti anticapitalistici e antiborghesi dell’alleanza tripartita italo-nippo-germanica. Naturalmente, la strategia delle componenti conservatrici del Reich era, casomai, esattamente l’opposto: mirava, cioè, alla pace separata con gli anglo-americani per stroncare le tendenze rivoluzionarie all’interno e ricacciare l’Urss nell’isolamento.

Sembra, quindi, che il voto del 25 luglio abbia avuto – quanto meno nelle intenzioni di alcuni dei promotori interni ed esterni al fascismo , anche un obiettivo reazionario. Certo, Cianetti deve aver pensato questo allorché, tornato a casa dopo la seduta del Gran Consiglio, scrive a Mussolini lka lettera di ritrattazione e, il giorno dopo, tenta vanamente di indurre gli amici – anche più critici di lui verso il Numero Uno e il suo stile di direzione – a seguirlo nella sua iniziativa di passaggio nel campo della minoranza.»

Riassumendo.

Tullio Cianetti fu sempre un personaggi tenace e battagliero, che si sforzò di imporre la propria linea sociale di sinistra all’interno del fascismo, e che sempre venne sconfitto, emarginato, perfino denigrato e allontanato.

Dotato di coraggio, anche fisico (sfide a duello) e di infaticabile energia, non si arrese e continuò a battersi per contrastare la linea sindacale conservatrice all’interno del partito, riuscendo a creare una specie di corrente che si riconosceva nelle sue idee e che, attraverso gli «osservatori sociali» (una figura istituzionale voluta da Cianetti), sparsi da New York a Budapest, da Londra a Rio de Janeiro, da Parigi a Madrid, teneva proficui rapporti di studio e, in parte, di collaborazione, con i movimenti sindacali di tutto il mondo.

C’è da chiedersi quanto sarebbe stata rapida, se non addirittura folgorante, la carriera politica di Cianetti, se egli non fosse rimasto coerente sulle proprie posizioni sindacali e sociali fino al principio degli anni Trenta, attirandosi l’inimicizia e, di conseguenza, l’ostracismo dei maggiorenti del partito. Sta di fatto che, dopo il 1932, egli cominciò ad allinearsi con le direttive dei vertici del regime, il che gli consentì una rapida ascesa fino alle più alte cariche del partito, compresa quella di membro del Gran Consiglio.

Bisogna comunque essere cauti nel sospettare questa svolta, se svolta vi fu, come motivata da semplice opportunismo, specialmente alla luce dell’azione politica svolta da Cianetti nei pochi mesi che lo videro alla carica di ministro delle Corporazioni, nel 1943, intesa a convincere Mussolini a riprendere un rigoroso programma sociale anticapitalista e antiborghese (il che era la logica conseguenza dell’individuazione della guerra italiana come guerra «proletaria» contro la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, come bene aveva visto un intellettuale coerente e rigoroso quale Berto Ricci, e non tanto contro l’Unione Sovietica).

Si potrebbe supporre, pertanto, che, al principio degli anni Trenta, Cianetti si sia apparentemente allineato alle posizioni conservatrici del regime, allo scopo di accedere alle cariche più importanti, dalle quali esercitare una pressione più efficace su Mussolini; e questo, dopo essere giunto alla conclusione che la sua donchisciottesca battaglia solitaria era stata sostanzialmente inutile, e tale sarebbe rimasta, finché egli non fosse riuscito ad arrivare nella «stanza dei bottoni».

Ma che Cianetti non fosse il solito gerarca cinico e privo di ideali, come quelli che ci vengono solitamente descritti dalla Vulgata storiografica; che egli avesse una dignità intellettuale e che fosse un personaggio umanamente dignitoso – nel quadro, s’intende, di un regime dittatoriale, che non è paragonabile ad una democrazia rappresentativa – esistono diversi episodi della sua biografia che stanno a testimoniarlo.

Abbiamo già visto l’accenno di Claudio Moffa ad una sua crisi di coscienza, verificatasi all’epoca del delitto Matteotti (e che non fu un episodio unico nel quadro del sindacalismo fascista; anche se, ovviamente, bisogna poi sceverare le crisi autentiche dalle pure e semplici strategie di sopravvivenza, nella prospettiva di una possibile caduta del regime).

In quella circostanza, Cianetti si spinse molto più in là della generica deprecazione del delitto – che, comunque, attribuiva a personalità del regime, contrariamente alla versione «ufficiale» del governo -, fino al punto da prendere contatti con quel che restava dei sindacati «rossi», in vista di una rinnovata azione sindacale post-mussoliniana.

Ha scritto in proposito Ferdinando Cordova, autore del fondamentale studio «Le origini dei sindacati fascisti» (Bari, Laterza, 1974, pp.267-68):

«Tullio Cianetti, fiduciario per la zona di Terni, si dimise dalla milizia e corsero perfino voci di suoi accordi segreti, al fine di dare al movimento sindacale la impronta delle cessate organizzazioni rosse e di realizzare il passaggio del sindacato nella Confederazione generale del lavoro. Fatto si è, secondo un informatore [Segreteria del duce, carteggio riservato], che “fu visto in compagnia di elementi dell’opposizione e del sovversivismo locale, propalò l’imminenza della caduta del Governo e addebitò ad alti gerarchi la responsabilità indiretta del delitto Matteotti”.

I provvedimenti presi dal regime a suo carico furono l’esonero dai ruoli della Milizia e l’espulsione dai sindacati; misura, quest’ultima, che venne in seguito revocata, grazie all’intervento di alcuni importanti personaggi a lui favorevoli (Rossoni?). In ogni caso, nel 1925 – come si è visto – Cianetti venne spedito a Siracusa, per assumere la carica di segretario provinciale dei sindacati, e dove trovò ancora il modo di inquietare i gerarchi locali, facendosi nuovamente allontanare.

Non ci sembra la biografia di un cinico opportunista; ma, qualche che sia il giudizio che si voglia dare sulle sue idee sindacali e politiche, e in parte sui suoi stessi metodi, che episodi come questo stiano a mostrare chiaramente che si trattava di una personalità capace di pensiero autonomo e disposta a pagare il prezzo delle sue frequenti e talvolta azzardate insubordinazioni nei confronti del regime. Il tutto, sempre nell’ottica – criticabile fin che si vuole, ma sincera – che il fascismo «vero» non fosse quello, reazionario e filo-capitalista, verso il quale il regine si stava avviando, ma quello rivoluzionario e di sinistra delle origini.

Sì: ci sono ancora molte cose che non sappiamo, o che sappiamo poco e male, sulla storia sociale del fascismo e sui rapporti del regime sia con Casa Savoia e la grande industria italiana, sia con le organizzazioni dei lavoratori negli altri Paesi d’Europa. Vi è un fecondo campo di studio, qui, che attende solo di essere dissodato da una nuova generazione di giovani storici, finalmente liberi da un lungo e tenace condizionamento ideologico.

Sarebbe anche un modo per dare un volto meno generico e meno caricaturale a molti protagonisti del ventennio fascista; per mettere meglio a fuoco la loro umanità, le loro vere aspirazioni, i loro progetti, poi vanificati dalle tragiche vicende del 1943-45; per ridare dignità a uomini che fecero delle scelte certamente discutibili, ma non sempre e solo motivate da basse motivazioni di interesse personale, come sinora si è voluto far credere.

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