Finanza e politica internazionale. Quali squilibri avremo con Basilea 3?

04 Novembre 2010

Enea Franza

 

Cerchiamo di capire gli impatti negativi degli accordi in tema di finanza internazionale

Basilea 3. Una nuova sventura ?

Basilea 3 non sarà in grado di fare fronte a così gradi rischi come quelli delle speculazioni degli ultimi anni – Essa potrà impattare sul credito, rendendo più difficili gli investimenti –  In Italia, per salvare la distribuzione dei futuri dividendi, le banche procederanno a forti tagli dei costi e quindi del lavoro, ed eviteranno iniezioni di nuovi capitali?

 

Non passa giorno che, sui giornali economici (e meno) del nostro martoriato Paese, non si parli di una nuova catastrofe che presto si abbatterà sulle imprese, nella forma di minori finanziamenti dalle banche!
E’ l’incubo di Basilea 3. Di che cosa si tratta? Facciamo una premessa per rassicurare i più spaventati. Nelle intenzioni degli estensori dell’accordo, Basilea 3 pone l’attenzione sui rischi di mercato e, quindi, in particolare, agisce sulle banche di investimento . Pertanto, chi svolge la normale attività bancaria non dovrebbe essere toccato dalla nuova normativa almeno non nell’immediato, anche perché l’esigenza di non compromettere la già grave situazione dell’economia in corso, ha consigliato una entrata in vigore delle disposizioni molto graduale .
Ma le cose stanno davvero cosi ?
Per capirci davvero qualche cosa e tentare una risposta bisognerebbe partire da lontano. Da Basilea 1, appunto, quando si cominciarono a dettare le norme per evitare che dai prestiti facili potesse nascere una crisi finanziaria di enormi proporzioni, cosa, che poi è puntualmente accaduta, nonostante Basilea 1 e l’ulteriore stretta attuata poi con Basilea 2. Ma cosa c’è stato di sbagliato nelle decisioni prese a Basilea? Ripercorriamo le tappe fondamentali.
Sappiamo che Basilea 1 è un complesso di regole emanato da un Comitato con sede a Basilea che nel 1988 ha dato vita alla normativa sul capitale di vigilanza degli istituti finanziari. L’Accordo di Basilea 1 si fonda su semplici principi base. Vediamoli. Primo: poiché ogni impiego bancario comporta l’assunzione di un certo grado di rischio, questo deve essere quantificato e supportato da un adeguato livello di capitale proprio, detto “patrimonio di vigilanza”. Secondo: il rischio degli impieghi bancari deve essere suddiviso in Rischio di Credito, legato alla possibile inadempienza delle controparti agli obblighi contrattuali, e Rischio di Mercato, legato alla possibilità per la banca di subire perdite dovute a variazioni dei prezzi delle attività finanziarie intermediate. Entrambi i rischi devono trovare mezzi adeguati per essere fronteggiati, ma sottointesa era la convinzione da parte delle Autorità di mercato che il rischio di mercato fosse ben misurato facendo riferimento alla consolidata teoria del portafoglio attraverso un metodologia molto in voga prima dei fatti del 2007, quella del Value at Risk o, in sigla, VaR. La crisi finanziaria del 2008, con il crollo delle quotazioni dei titoli, si è fatta carico di distruggere la certezza dei burocrati ed ha dimostrato l’inaffidabilità della metodologia utilizzata fino a quel punto per misurare il rischio di mercato e la necessità di cambiare regime. Ma questa è un’altra storia …
Ciò posto, Basilea 1 imponeva alle banche di detenere un patrimonio di vigilanza (ovvero, capitale, riserve, crediti obbligazionari), pari a non meno dell’8% del totale delle attività ponderate per il loro rischio . In altri termini, per ogni 100 di impiego occorre accantonare 8. Vediamo meglio. Il patrimonio di vigilanza, costituito dagli elementi sopra indicati, viene confrontato con il rischio di credito che viene ponderato su cinque coefficienti, in relazione alla tipologia di debitori: 0% per gli impieghi verso governi centrali, banche centrali ed Unione Europea; 20% per gli impieghi verso enti pubblici, banche ed imprese di investimento; 50% per i crediti ipotecari e le operazioni di leasing su immobili; 100% per gli impieghi verso il settore privato; 200% per le partecipazioni in imprese non finanziarie con risultati di bilancio negativi negli ultimi due esercizi.
Ma che significa? Proviamo a chiarire come funzionava il vecchio sistema con un (spero) semplice esempio. Ipotizziamo, in primo luogo, un investimento in titoli di stato (poniamo per 100 Euro). Allora con un semplice calcolo (8%*100*0) otteniamo il “Patrimonio di vigilanza”= 0 Euro. Ovvero ? Bene, nel caso di una attività sotto forma di B.O.T. per 100 Euro, la banca non era obbligata ad accantonare una parte di patrimonio a garanzia del credito, in quanto la controparte (lo Stato Italiano nel nostro caso) era considerata “sicura”. Viceversa, ipotizziamo un finanzia-mento di 100 Euro ad una impresa. Allora, il patrimonio accantonato dovrà essere di 8 Euro (infatti 8%*100*100%=8 Euro). Ovvero, di fronte al credito ad una impresa privata, il coefficiente di ponderazione da considerare era del 100% e quindi, a fronte di un finanziamento di 100 Euro, la banca doveva accantonare a riserva pari a 8 Euro. Spero sia adesso chiaro !
Qual’era il limite di tale impostazione? In realtà, i termini erano diversi. Uno balza immediatamente agli occhi degli economisti: ogni impiego creditizio in imprese private viene valutato indipendentemente da calcoli sugli equilibri patrimoniali, finanziari, economici, e quant’altro possa chiarire con precisione il “reale” stato di salute dell’impresa stessa. In altri termini, nell’accordo di Basilea 1 non avevano rilevanza le scelte nelle concessioni di credito alle imprese private da parte delle banche, poiché ciascun finanziamento concesso – qualunque fosse la situazione finanziaria dell’impresa – non aveva riflessi sul coefficiente di ponderazione del nuovo attivo bancario (credito). Peraltro, i crediti non erano neanche distinti in relazione alla vita residua del prestito.
Il superamento, con Basilea 2 , ha determinato una nuova metodologia di valutazione del Rischio di Credito . Quale ? Bene, si è passati dai coefficienti fissi in funzione della tipologia di debitore all’introduzione di modelli di rating, idonei ad attribuire un coefficiente di ponderazione specifico in relazione alla solvibilità ed all’affidabilità finanziaria del soggetto finanziato (Stati , banche, privati, ecc). Cosi il capitale di vigilanza andava aumentato dalle banche nel caso in cui, ad esempio per gli impieghi verso governi centrali, banche centrali e Unione Europea, il coefficiente di ponderazione risultasse maggiore di 0.
Basilea 2, quindi ha premuto l’acceleratore sul criterio della valutazione della solvibilità del debitore valutata attraverso i rating, secondo diverse metodologie: una tecnica c.d. “standard” dove il valore delle attività ponderate per il rischio è determinato moltiplicando le esposizioni nette per uno specifico coefficiente di ponderazione in funzione del rating ricevuto dal debitore da un’agenzie di rating indipendente, ed altre metodologie basate sui c.d. “rating interni”, in cui il valore delle attività ponderate per il rischio viene determinato direttamente dalle banche, ma mediante modelli propri finalizzati all’attribuzione del rating a ciascun debitore, asseverati dalle rispettive Banche Centrali.
Si è molto detto sui limiti al finanziamento all’impresa che Basilea 2 ha imposto alle banche commerciali, mentre è oggi di palmare evidenza che tali limiti regolamentari non sono riusciti a garantire un qualche argine alla crisi delle banche. La critica derivava tutta dal fatto che – a parità di tassi applicati ai singoli debitori – all’aumentare del capitale di vigilanza, le banche si sono viste ridurre il rendimento del capitale proprio investito. E come compensare la necessità di una maggiore copertura? Alternativamente: evitando di aumentare il capitale di vigilanza, concedendo credito solo a soggetti solvibili ed finanziariamente affidabili, e revocando le linee di credito a soggetti eccessivamente rischiosi, ovvero, applicando tassi d’interesse più elevati ai soggetti maggiormente rischiosi per adeguare il rendimento degli impieghi al capitale proprio investito, evitando così una riduzione della redditività complessiva. In teoria, un vantaggio ci sarebbe: i soggetti dotati di elevate capacità finanziarie, e considerati altamente affidabili dalle banche, avrebbero dovuto beneficiare di una riduzione dei tassi applicati ai finanziamenti. In merito, mi permetto di osservare che il vantaggio, tanto fantasticato dagli economisti si è, in realtà, dimostrato essere solo una chimera e che, almeno per quanto riguarda il nostro Paese, l’effetto è stato quello di chiudere i rubinetti dei finanziamenti.
Ma se il limite al finanziamento del sistema industriale c’è stato, perché il rafforzamento patrimoniale inventato dai burocrati di Basilea non ha retto alla crisi del 2007 – 2009? Ecco che veniamo finalmente al punto. Detto in poche parole e rinviando ad una trattazione apposita, la ragione risiederebbe nel fatto che i ratios si sono dimostrati incapaci di comprendere l’innovazione finanziaria, che ha moltiplicato gli attivi bancari con il processo c.d. di securitization.
Allora è successo che gli attivi delle banche sono stati smontati e si sono costruite delle operazioni in derivati valutati tripla A (ovvero, di certa rimborsabilità) che, come tali, non hanno richiesto accantonamenti ulteriori e, quindi, di fatto hanno eluso l’obbligo di riserva. Per altro verso, la misura del rischio di mercato, supponeva un piazza finanziaria sempre perfettamente liquida e non immaginava che si potesse presentare una crisi tale da azzerare il valore del portafoglio .
Abbiamo imparato qualche cosa dalla lezione della recente crisi finanziaria?
Vediamo le novità. Con Basilea 3 il requisito minimo per il patrimonio complessivo resta all´8% in rapporto alle attività ponderate per il rischio, ma di converso si alza il livello del patrimonio di qualità primaria (il c.d. Core Tier1) che passa dal 2% al 4,5%, ed anche il Tier1 (patrimonio di buona qualità più le obbligazioni subordinate) dal precedente 4%, si alza al 6%. Inoltre al fine poi di evitare gli effetti ciclici possibili con Basilea 2, si introduce anche un buffer pari al 2,5%, ovvero, un cuscinetto di capitale aggiuntivo per assorbire le eventuali perdite.
Facendo un po’ di conti – nella nuova griglia di Basilea 3 – i requisiti di capitale e buffer supplementare fanno si che il patrimonio da accantonare aumenti in definitiva il buffer supplementare (pari sempre al 2,5%) per cui il Core Tier1, Tier1 ed il Patrimonio di base saranno rispettivamente: 7,0%, 8,5% e, 10,5%.
Un recente studio condotto su di un campione di banche Usa ed europee ha dimostrato che per il 90% del campione le Banche, a seguito della crisi, hanno perso fino ad un massimo del 24% sul rischio di credito, mentre circa il 79% delle perdite derivano dai rischi di mercato. Adesso, i modelli interni delle banche dimostrano che mentre il capitale necessario per far fronte ai rischi di mercato è inferiore al 30%, 40 % quello per far fronte ai rischi di credito in media è sovrabbondante. Basta fare un po’ di conti per capire che il sistema escogitato da Basilea 3 in definitiva non è sufficiente a risolvere i problemi e che forse impatterà proprio sul credito.
Da ultimo, una osservazione sulla realtà italiana. Secondo un’analisi di Keefe, Bruyette and Woods (Kbw), tra le banche italiane più esposte ai contraccolpi di Basilea 3 ci sono Monte dei Paschi e Banco Popolare. Le simulazioni che misurano la distanza del patrimonio di vigilanza attuale dai requisiti patrimoniali attesi al 2012 prevedono la necessità di iniezioni di capitale rispettivamente pari a 4,63 e 3 miliardi. Come dire un apporto dell’84 e del 41% dei rispettivi equity Tier 1. Apporto ridotto al 18% (ma si tratta pur sempre di 4,89 miliardi) per Intesa Sanpaolo, al 10% per UniCredit (4,06 miliardi), al 6% per Ubi (450 milioni circa), sino al minuscolo 2% (32 milioni) del Credem. Mps e Banco Popolare, secondo l’analisi, potrebbero dover ridurre drasticamente la distribuzione di dividendi per anni, o chiedere agli azionisti di metter mano al portafoglio, finanziando aumenti di capitale.
Cosa voglio dire con questo? Una cosa molto semplice di cui però sento poco parlare: gli azionisti, che hanno già visto i ritorni calare in modo drastico per effetto della crisi finanziaria e della recessione, non sembrano per niente disposti a ulteriori riduzioni dei dividendi ed anzi, chiedono un aumento dei payout per garantirsi i profitti. Allora, l’unica leva a disposizione del management, in assenza di un marcato rialzo dei tassi o di una forte ripresa economica, è la compressione dei costi. Tutti i costi e, in particolare, quelli operativi.
Compreso, ovviamente, quello del lavoro. In altre parole, si apre ai licenziamenti.

 

Note

1. Il 17 dicembre 2009 il Comitato di Basilea per la Vigilanza Bancaria ha pubblicato due documenti, “Strengthening the resilence of the banking sector” e “International frame work for liquidity risk measurement, standards end monitoring” allo scopo di recepire in Basilea 2 le lezioni apprese nel corso della crisi finanziaria iniziata nell’agosto del 2007.
2 Una prima fase è prevista per il prossimo anno, ma l’entrata in regime sarà tra 7-8 anni.
3 Fanno parte del comitato i Governatori dei seguenti paesi: Argentina, Australia, Belgio, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, Hong Kong, India, Indonesia, Italia, Giappone, Corea, Lussemburgo, Messico, Olanda, Russia, Arabia Saudita, Singapore, Sud Africa, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia, Gran Bretagna e Usa.
4 Il VaR è la misura della massima perdita potenziale nella quale può incorrere il portafoglio, scaturita dall’evoluzione dei prezzi di mercato , in un determinato periodo di tempo ad un certo livello di confidenza. Indicando : – t il periodo di detenzione (Holding Period); – Vt il valore della perdita in t , Il VaR, ovvero la massima perdita potenziale, per il livello di probabilità stabilito è quel valore che soddisfa la relazione: []α=≤VaRVPtt essendo α il livello di significatività. Come detto, alla base della costruzione del modello VaR si pone la Teoria del Portafoglio, che usa stime della volatilità e correlazioni tra i rendimenti dei differenti strumenti trattati. I parametri determinanti per il calcolo del VaR sono la stima della volatilità futura e delle correlazioni tra gli strumenti finanziari che costituisco il portafoglio. Nel pre-crisi le simulazioni non consideravano l’ipotesi di illiquidità dei titoli, come poi accaduto.
5 In formule matematiche: Patrimonio di Vigilanza/ Attivo ponderato (rischio di credito, rischio di mercato) >=8% .
6 Il testo dell’accordo ha visto la sua versione definitiva nel giugno del 2004 , ed è entrato in vigore nel gennaio 2007, con una proroga di un anno concessa alle banche che hanno adottato il metodo advanced.
7 Si rileva che, circa il rischio sugli impieghi bancari, è stata introdotta l’ulteriore variabile il c.d. Rischio Operativo, che senz’altro migliora la valutazione complessiva del rischio dell’attività bancaria.
8 Ad esempio, diversificando anche per i debiti sovrani potremmo avere una ponderazione maggiore di 0 nel caso in cui l’investimento esponga a rischi specifici connessi alla particolare situazione dell’emittente come per Argentina, ma anche da ultimo con la Grecia, il Portogallo, o l’Irlanda.
9 Vedi, tra i tanti, Crack Finanziario, Enea Franza, Pagine Edizioni del Borghese, 2009.
10 In altre parole, le misure del Var (Value at Risch) confrontavano il portafoglio finanziario della banca con quotazioni dei titoli da bolla. Alla questione si è pensato con Basilea 3 di ovviare con lo stressed Var.