Festa della Repubblica e fondazione dell’Unità d’Italia

02 Giugno 2011

Domenico Cambareri per Eulà

 

2 Giugno e 150° dell’Unità d’Italia

 

Non vi è dubbio che un’accoppiata di tali ricorrenze costituisca un evento particolare.

La festa della nascita della Repubblica segna una tappa fondamentale della storia recente, anche se avvenuta all’indomani di una terribile sconfitta, di tragiche sofferenze umane e di grandi lacerazioni interne, il tutto sotto il tallone dei vincitori. Essa è la data più recente che, assieme alla più antica, il Natale di Roma (21 aprile del 753 a.C.), al 17 marzo 1861, al 4 Novembre 1918, costituisce il punto di maggiore coagulo dell’identità storica del nostro popolo nel corso dei secoli e del suo odierno assetto costituzionale. Ad esse dobbiamo naturalmente associare, nel contesto del processo di unificazione dei popoli europei, le date che ci hanno guidato e ci guidano verso il futuro: della nascita del Comunità Economica Europea, dell’Unione dell’Europa Occidentale, dell’Euratom e, in ultimo dell’Unione Europea. E dell’OSCE. Non può anche non essere presente la Nato, ma essa abbisogna di particolari, delicate e necessarie esplicazioni storiche che qui non possiamo presentare e che speriamo che i lettori ben le intravvedano.

L’Italia è ancora giovane. 150 anni di unità politica ritrovata sono poca cosa nelle storia di un popolo. Essi ce li possiamo rappresentare come la semplice somma di due uomini di settantacinque anni o, in base alla tradizionale suddivisione di un secolo su quattro generazioni, come la continuità di sei generazioni, in cui, considerata quella di un cinquantenne nel trapasso con i sessanta anni come espressione generazionale di un padre già “giovane” nonno, abbiamo da un lato i suoi figli e nipoti e, dall’altro, suo padre assieme a nonno e bisnonno.

Senza apologia della nostra identità e della nostra innata creatività, ma neppure senza autoflagellazione, non possiamo non dire che la nostra Nazione – all’interno politicamente sempre divisa in torrenti e rivoli partitici e in aspre polemiche e dissidi, e considerato che siamo un popolo privo e affamato di risorse energetiche e di minerali importanti – è espressione di un elevato grado di vitalità in tutti i settori produttivi, al di là di ogni crisi o stagnazione economica.

E’ questa enorme vitalità che ha consentito alla Nazione e le consente, che ci ha consentito e ci consente, di poter assorbire i sistematici colpi di maglio che ci vengono arrecati dalla diffusissima criminalità, tanto che non può suonare scandalo affermare che oggi siamo un popolo in cui la disaffezione verso le leggi e il tasso di delinquenzialità ci permeano troppo. E, inoltre, di fare vivere sulle nostre spalle enormi apparati feudali costituiti dalle onerose rendite politiche dei palazzi, della magistratura, dell’alta burocrazia e della struttura rai occupata dai partiti: cancro non meno dannoso della criminalità organizzata o di quella consumata in solitario da non pochi cittadini, il cui costo è cresciuto e cresce ininterrottamente senza limite alcuno. Il livello di corruzione, complicità, cointeressenze trasversali dimostrato dalla partitocrazia – che adduce a giustificazione che ciò costituisce il costo necessario del sistema democratico e della sua fisiologia – sono quelli che in realtà minano l’efficienza e infine la credibilità stessa del nostro sistema e che istigano e silentemente avallano i comportamenti criminali e le sempre più accentuate e nuove spinte crimonogene, mimetiche o palesi, non tanto tra gli uomini dei ceti subalterni e tra gli emarginati quanto in particolare fra gli esponenti delle nicchie e degli antri che si arricchiscono all’ombra del ceto politico che vive nei partiti e che, nel gioco del sistema democratico, va e vanno ad occupare gli scranni del potere istituzionale.

La speranza deve sempre essere ultima a morire, sia per i meno creduli sia per i meno realisti. E’ con questo augurio che vogliamo rinnovare il nostro impegno e vogliamo – come sempre – estenderlo agli altri italiani, affinché un maggiore senso di dignità personale e collettiva ci possa guidare nelle nostre scelte e nelle nostre azioni quotidiane. L’importante, infatti, non sono le “cosiddette” idee dietro le quali spesso non pochi furbescamente si nascondono e utilizzano nei modi più cinici, quanto il corretto ed onesto modo di agire e di adempiere ai pubblici doveri e alle responsabilità civili. Sapendo ed imponendosi di saperlo anteporre agli interessi e alle prevaricazioni dei gruppi, delle bande, dei “partiti”, della propria persona e della propria famiglia. Capire e praticare la “piccola virtù” di non occupare la sfera pubblica per utilizzarla per fini non appropriati. La giustizia non “giudiziaria” e l’onesto agire hanno disperato bisogni di avere più uomini, in ogni partito e in ogni settore pubblico e produttivo, che li difendano e li esercitino con convinzione e li manifestino con semplicità e senza ostentazione. In fondo, parlando lo stesso crudo linguaggio degli “interessi” che si muovono nella democrazia, sarebbe ed è interesse di tutti che le cose possano andare sempre meglio, per tutti! Molti di loro potrebbero essere così portati a debordare e a delinquere di meno.

Delle lezioni della nostra storia da Dante a Mazzini, Garibaldi, Cavour e Verdi ai testimoni spesso muti della cronaca dei nostri giorni, dovrebbero ricordarsi ogni dì gli esponenti del nostro ceto politico e, una volta, tanto, cominciare a chiedere non alla loro astuzia ma al loro amor proprio le modalità d’uso di ciò che possiamo indicare come un minimum di lealtà. Se la rettitudine non è mai praticata, tutto non può che andare prima o poi in rovina. L’ottusa, gretta e ignorante tracotanza leghista, con il voler alzare addirittura barriere entro i cortili dei borghi e delle case, sta a dimostrarlo a iosa. Essa non ha aperto nuove strade di efficienza, di riscatto e di dignità, ma ha accentuato ancor più i contrasti, i parassitismi, le avversioni, i rancori, le reciproche incomprensioni, il disprezzo, l’impostura.

A ciò siamo sicuri che gli italiani sapranno nei prossimi anni porre riparo, anche se la miopia che guida i capi delle organizzazioni politiche odierne li porta a scornarsi reciprocamente senza fine, in questo avvantaggiando da un quindicennio in qua solo la triviale demagogia leghista, cioè di quello che costituisce la più periferica e autolesionistica espressione di gruppi spiritualmente e culturalmente marginali, come quelli dei centri sociali, ma molto aggressivo e contagioso con l’insolente, triviale e minacciosa gergo e con le profferte che avanza per associare al proprio carro “federalista” e all’accresciuto potere nuovi avventori del ceto politico e di quello burocratico e delle accolite del “tradimento dei chierici”. Un gruppo che ha accentuato i contrasti tra i due schieramenti sino a divaricazioni incredibili, e che, assieme all’altro asso, di questa anomalia genetica gravissima e tutta italiana, la magistratura, è diventato il dominus della scena.

Consideriamo questi anni un ulteriore grave intoppo e una imprevista nuova sfida da superare. I leghisti sono già nel pieno del vortice partitocratico. Il problema effettivo che ci rimane attaccato addosso è il come scrollarci, scollarci da questi potentati feudali e da grassatori indefessi, di come scollarci da una democrazia così ammalata e parassitaria. Sia l’adeguarsi a non scimmiottare ma a replicare nello spirito forme e architetture costituzionali più coerenti sia l’iniziare a fare pulizia dentro di noi e accanto a noi – rifiutando le clientele e additandole al disprezzo pubblico – possono essere dei primi passi per ingenerare un sano senso di reazione attiva e coerente, per rifondare la vita civile del nostro Bel Paese. Anche e soprattutto per le giovani generazioni, oggi considerate – al di là degli slogan – un vuoto a perdere.

Nessuno ci toglie il diritto di festeggiare oggi con la sensibilità che è propria a ciascuno di noi, ma è certo che, se non ci sappiamo districare e liberare da tutte queste barriere mentali, da questi inveterati luoghi comuni, da questo anarcoide recalcitrare degli speculatori che che vivono schiavi del loro vizio del raggirare e fregare; se non siamo in grado di produrre quanto prima prima nuove energie di comprensione e di coesione, il futuro ci risulterà di sicuro una strada più irta.  Anche per i figli e i nipoti. Vogliamo ancora strappare loro parte del futuro che già da adesso dovrebbe a buon diritto appartenergli nel migliore dei modi possibili?

 

L’editoriale è stato pubblicato da Parvapolis.it con il titolo:  Il Risorgimento e le mute lezioni della coscienza