Bilancio in pareggio e art.81 Costituzione: luci e ombre

08 Marzo 2012

Enea Franza

 

Il “teorema” del bilancio in pareggio

La riforma, ispirata dall’Unione Europea e dalla Germania in particolare, se ha dei pregi ha anche dei difetti che in questo particolare momento vengono sottaciuti. Perché? Quali conseguenze determina a breve e medio termine nella compressione dello stato sociale e nel favorire la stagnazione dello stimolo all’impresa? Siamo stati e siamo per costruire una condizione di credibilità nazionale davanti ai nostri partner europei;  e per realizzare criteri atti ad evitare sprechi ed emorragie di uno “stato sociale” clientelare, parassitario e demagogicamente drogato, come è stato per decenni. Ma adesso stiamo saltando troppo in direzione dell’eccesso opposto. Con quali conseguenze già prevedibili e previste ma nascoste dal governo? 

 

E’ di questi giorni la discussione in Parlamento sulla modifica dell’art. 81 della Costituzione. I nostri parlamentari, facendo seguito alle pressioni della Commissione europea, come disciplinati soldatini, si apprestano a decidere su una delle questioni più controverse dal punto di vista economico, scegliendo la strada dell’obbligo del pareggio di bilancio dello Stato e fissando tale onere addirittura in Costituzione.
A chi sia venuta tale bizzarra idea non è dato sapere, tuttavia, resta aperta la domanda di fondo, a cui tenteremo di dare una risposta, ovvero: è utile alla crescita di un Paese un bilancio in pareggio ?
Prima di cominciare facciamo delle precisazione che certamente risulteranno per il seguito dell’analisi. Per bilancio dello Stato deve intendersi quello delle Amministrazioni pubbliche (stato, enti locali, regioni, ecc). Il suo pareggio ha, in realtà, tre significati contabili. Il primo esprime l’eguaglianza tra tutte le entrate (tributarie e non tributarie) e tutte le spese pubbliche (correnti ed in conto capitale). L’eguaglianza tra citate entrate e spese pubbliche, senza contare le spese per il pagamento degli interessi sui titoli del debito pubblico, costituisce il c.d. indebitamento netto, mentre l’eguaglianza tra le entrate correnti e le spese correnti al netto della spesa per interessi passivi è chiamato disavanzo primario. Ciò premesso, concentrandosi sul primo dei significati contabili, l’idea dell’utilità di un bilancio in pareggio parte – ma non si pretende che ciò sia conosciuto anche dai nostri parlamentari – da una teoria formulata da alcuni economisti americani secondo cui l’aumento del reddito è massimo quando ogni incremento di spesa pubblica è corrisposto da un analogo incremento delle entrate. Nella sostanza, si sostiene che il massimo vantaggio all’incremento del reddito si ha quando le spese sono coperte da corrispondenti entrate. Il valore di questo incremento massimo del reddito è pari all’esatto ammontare della spesa pubblica, ed il saldo fra entrate e uscite fa si che non vi sia incremento del disavanzo. L’effetto è più contenuto, invece, quando il disavanzo è diverso da zero.
Attenzione, il teorema del bilancio in pareggio non afferma che l’aumento di reddito è massimo quando è nullo il deficit pubblico, ma quando la variazione del deficit è pari a zero, ossia l’incremento è ottenuto senza una spesa in disavanzo.
Prima di addentrarci nell’analisi della questione facciamo, tuttavia, una doverosa premessa. Non ci si lasci ingannare dal termine teorema. Non si tratta dei famosi teoremi matematici di liceale memoria, ma solo di una teoria economica.
Bene, occorre rilevare, e di questo ci sono poche traccia nella discussione in corso sulla revisione dell’arti 81 della Costituzione, che sono tanti gli economisti che oggi concordano sulla convenienza della spesa in disavanzo in situazioni di recessione o crescita lenta del PIL (ovvero, inferiore al 4% annuo) per la quale lo Stato spende in misura maggiore delle sue entrate, indebitandosi. In tal caso, infatti, anche una spesa pubblica in disavanzo produce un aumento del PIL maggiore ed è più efficace di una riduzione della pressione fiscale.
Per averne una dimostrazione teorica, si osservi che il moltiplicatore della spesa pubblica sul reddito è, comunque, maggiore di quanto un incremento della spesa pubblica genererebbe. Se questo è vero, l’incremento di reddito derivante dalla spesa pubblica è più che proporzionale alla riduzione dovuta all’aumento della pressione fiscale per finanziare tale spesa. Dunque, che sia opportuno avere un bilancio sempre in equilibrio è una affermazione discussa anche dalla dottrina, che invece afferma con certezza l’inopportunità di un bilancio in avanzo.
In tutto questo si dimenticano altri punti fondamentali: lo stato sociale ha un effetto economico potente, innanzitutto, perché sostituisce beni altrimenti da acquistare col proprio salario, e perciò riduce la conflittualità tra azienda e lavoratore. Esso, inoltre, è uno stabilizzatore automatico del ciclo economico, perché la spesa è invariabile e perché la sua assenza renderebbe le crisi molto più profonde. Infine, elemento assolutamente imprescindibile, fornisce una sicurezza ai cittadini che li spinge ad essere meno avversi al rischio, più imprenditori. Tutto senza contare i costi dell’esplosione della rabbia sociale quando, viceversa, il welfare si assottiglia. La Grecia insegna.