Bric, movimento di capitali e delocalizzazione. L’Occidente trema l’Italia piange

21 Marzo 2012

Enea Franza

 

Come affrontare questa crisi ?

Le grandi difficoltà italiane ed europee, la riforma del mercato del lavoro, le prossime masse di lavoratori cinquantenni messi in mobilità senza la certezza di nuovi posti di lavoro. – La mancanza della crescita dovuta a una forse duratura minore competitività internazionale e alla derescita dell’export,  agli squilibri nel cambio delle valute.  –  Quanto potrà durare l’effetto locomotiva se l’ammodermaneto infrastrutturale cinese e indiano accorcerà ancora di più le distanze con le grandi industrie dell’Europa e degli USA? Chi non vuole investire in Italia e in Occidente e perché?

 

La riduzione del PIL con cui l’Italia chiude il 2011 e l’ancor più forte previsione per il 2012 fanno comprendere quanto profonda sia la crisi attuale e come sia difficile affrontarla. L’attuale governo, che nella sostanza gode dell’appoggio, finora incondizionato, delle maggiori forze politiche rappresentate in parlamento, ha impostato una politica economica basata sul contenimento della spesa pubblica, con l’obbiettivo di garantire la continuità del finanziamento del nostro debito.
L’ammontare totale del debito pubblico, pari oggi a 1.500 Miliardi di Euro e soprattutto la necessità del rifinanziamento a costi crescenti mette in pericolo la stabilità finanziaria del Paese. Su questo tutti concordano ed è questo che, in definitiva, ha aperto le porte all’attuale governo d’unita nazionale.
Ma di quale politica economica necessita il nostro Paese? Facciamo alcune considerazioni, prima di addentrarci nell’indicazioni dei possibili interventi idonei a condurre il Paese al riparo della tempesta. E’ evidente come sia preliminarmente necessario verificare le “vere” ragioni della crisi attuale. In altre parole, solo attraverso l’individuazione delle cause profonde che hanno portato l’Occidente verso il baratro sarà possibile scegliere la giusta medicina. La seconda questione riguarda l’idea che senza spesa pubblica non sia possibile impostare una consistente politica di sviluppo, ovvero, l’assunto secondo cui, come sostiene un detto popolare a noi molto caro, “senza soldi non si canta messa”. Nella sostanza, ogni politica economica costa ed al momento attuale il denaro non affluisce abbondantemente nelle casse dello Stato, anzi fuoriesce da mille rivoli.
Veniamo alla prima, e secondo noi fondamentale questione. Da cosa origina la crisi attuale?
Molti economisti sottolineano come il problema attuale sia nell’insufficienza della c.d. domanda globale, ovvero, la domanda di beni e servizi espressa da taluni Paesi. Secondo tali economisti la crisi si avvertirebbe, in effetti, negli Usa e nei Paesi del vecchio continente, i quali evidenziano un’effettiva contrazione della domanda interna. Cosi non è, invece, per altri Stati (Cina, Brasile ed India ad esempio) che registrano livelli di crescita notevoli.
Ma torniamo al vecchio Occidente. Sul lato delle famiglie, i dati mostrano un rilevante calo dei consumi, che troverebbe la principale ragione nella contrazione del credito al consumo (in particolare negli USA) e nelle politiche di aumento nella pressione fiscale (in Europa). La riduzione del consumo, avrebbe secondo alcuni economisti un’ulteriore motivazione, fortemente legata alla concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. In questi ultimi anni, la forte deregulation mentre ha attirato nuovi poveri nelle metropoli d’Occidente, ha tenuto basso il costo reale del lavoro e ha portato grossi profitti alle grandi imprese ed ai capitali finanziari, mentre ha impoverito la classe media. Questo, connesso ad un forte riduzione dei matrimoni ed in particolare di quelli fra appartenenti a classi sociali differenti, ha ridotto la propensione al consumo, riducendo di conseguenza i consumi nonostante la crescita (modesta per la verità) del reddito.
La contrazione della domanda globale ha impattato oltre che sulle famiglie, anche sulle imprese. La contrazione dei consumi ha infatti generato un aumento delle scorte in magazzino che ha indotto le aziende a contrarre la domanda di beni d’investimento (ovvero di beni necessari a produrre beni di consumo). Nonostante che gli Usa abbiano tenuto (e continuino a tenere un bassissimo costo del denaro) le aspettative degli imprenditori non sono state tali da ingenerare il circolo virtuoso della crescita. Pertanto, anche sotto questo profilo la domanda globale langue.
Infine, la spesa pubblica ha seguito interventi generalizzati di contrazione. Il crack delle grandi banche mondiali ha convinto gli Stati ad enormi interventi tesi ad evitarne il fallimento, ed i costi di tali operazioni sono rimasti per lo più a carico della collettività, ovvero, si sono tradotti in mancati interventi di sviluppo alle imprese. Anche sul lato delle esportazioni la riduzione della domanda estera (ovvero delle esportazioni) si palesa sui mercati tradizionali. Un’unica eccezione: i Paesi che saputo compensare le perdite attraverso relazioni consolidate con i Paesi in Sviluppo. Anche qui tuttavia occorre guardare con attenzione. Forse, tranne alcune eccellenze, rappresentate nel vecchio continente dalla sola Germania, l’interscambio con Paesi dell’Asia sembra peggiorare rapidamente e trasformarsi in un commercio in perdita. L’estensione di tali mercati (in termini di dimensioni spaziali e di intensità di popolazione) convincono, tuttavia, molti imprenditori ed economisti ad insistere nell’investimento in quelle realtà ed a cogliere le opportunità di crescita e di sviluppo che può derivare alle nostre economie. E’ la teoria della c.d. locomotiva, per cui attraverso il meccanismo delle esportazioni si traina la domanda interna, attraverso il Paese un crescita.
Se la domanda esterna non risulta, tuttavia, in grado di far crescere sufficientemente un’economia, non resterebbe altra strada che intervenire con la spesa pubblica. Gli economisti che fanno perno sull’insufficienza della domanda interna, infatti, vedono come fumo negli occhi le politiche di contrazione della spesa pubblica, le uniche (a loro dire) capaci, in un contesto del genere, di dare vigore all’economia stagnante. Attraverso il meccanismo degli investimenti pubblici, essi sostengono, è possibile determinare un incremento del reddito moltiplicato rispetto alla spesa che si effettua e capace, pertanto, di ripagare il debito contratto. Insomma, il noto meccanismo del moltiplicatore di keynesiana memoria …
L’idea, insomma, è quella di fare altri debiti per finanziare lo sviluppo, ma il problema è: dove trovare i finanziatori ? la domanda non può avere una risposta, a meno di ripensare al ruolo dell’Istituto di emissione, togliendogli eventualmente l’autonomia di stampare moneta ed attribuendola agli Stati nazionali. Si tratterebbe, in definitiva, di trasformare le banche centrali in finanziatori della spesa pubblica. Pur consci dell’enorme semplificazione e delle forzature che, nel nostro discorso, stiamo facendo nell’interpretazione del pensiero dei tanti economisti che sostengono l’idea che l’origine della crisi in corso derivi dall’insufficiente domanda globale, e non paghi delle critiche, cerchiamo di capire cosa, invece, ritengono coloro che, dall’altro lato, pensano che la crisi abbia origini nell’emergere di nuove realtà competitive che distorcono l’offerta.
Questi economisti ritengono (a ragione ?) che il problema della crisi riguarda i soli Paesi del Nord America e del vecchio continente e che, invece, si sia di fronte ad uno sviluppo eccezionale dell’economia globale che riguarda realtà che fino a poco tempo fa non partecipavano alla distribuzione della ricchezza mondiale. I nuovi attori sono, tra gli altri Cina, India, Brasile e Russia. Ad essi si affiancano anche alcuni paesi dell’Africa e del Medio Oriente, come nel caso della Turchia, che può diventare la porta avanzata della futura Unione Europea, che hanno imboccato una strada verso una più efficace redistribuzione della ricchezza. E’ indubbio che la produttività delle citate aree geografiche stia negli ultimi tempi aumentando in modo esponenziale. A chi obietta che il timone resta ancora saldamente in mano all’Occidente, tali economisti, osservano che occorre guardare più a fondo e, cosi facendo, si scopre che sta realizzando una nuova allocazione delle risorse. Per spiegarlo meglio, si è usi prendere in prestito l’illustrazione che già secoli orsono l’economista Ricardo ha dato del fenomeno, facendo un esempio che, piegandolo ai nostri scopi, spero aiuti a comprendere.
Supponiamo di confrontare le produttività tra Europa e Russia, relativamente a due produzioni, ad esempio tessuto e patate. Supponiamo che il costo-opportunità della produzione del tessuto, per entrambi i Paesi, è dato dalla minor produzione di patate che si rende necessaria. E supponiamo che, i dati dimostrano che la Russia impieghi più tempo per produrre sia le patate sia il tessuto. Ma ipotizziamo che la Russia ha un costo comparato di 1,25 patate-tessuto, mentre l’UE 2,5. È quindi più vantaggioso che l’UE si specializzi nella produzione di tessuto e la Russia nella produzione di patate. Così, avremmo più patate e più tessuto. I russi, pur avendo (nella ipotesi fatta) una produttività assoluta più bassa in tutte e due le produzioni, presentano un vantaggio comparato nella produzione di patate perché: – all’UE produrre una tonnellata in più di patate significa rinunciare a 2,5 pezze di tessuto; – alla Russia produrre una tonnellata in più di patate significa rinunciare a 1,25 pezze di tessuto. Quando le cose stanno in questo modo, ai due Paesi conviene specializzarsi ciascuno nella produzione del bene che ha il costo-opportunità più basso, e quindi scambiarsi i prodotti. Supponiamo che in UE i lavoratori siano 10 e in Russia i lavoratori siano 40. Impiegando interamente il lavoro a propria disposizione, l’UE potrà produrre 5 unità di tessuto o 2 tonnellate di patate; la Russia invece potrà produrre 5 pezze di tessuto o 4 tonnellate di patate. Per guadagnarci entrambi gli Stati, occorre che la ragione di scambio resti compresa tra 1,25 e 2,5.
Nella sostanza, per chi non abbia avuto la voglia di seguirmi nell’esempio, la riallocazione della produzione sta spostando verso i Paesi dell’estremo Oriente, e di altri Paesi in via di Sviluppo, le attività ad alto assorbimento della forza lavoro, con conseguente minor necessità di mano d’opera in Occidente.
Tale riallocazione produttiva, tuttavia, essendo accompagnata dalla piena libertà dei movimenti di capitale, ha determinato un riassetto complessivo le cui conseguenze si stanno palesando. E se le cose stanno cosi, la cura dei nostri governi, non avrà effetti rilevanti. Le economie di scala di cui certamente godono i Paesi occidentali sono infatti destinati a lasciare il passo alla potenza dirompente delle nuove economie cinese ed indiana.
Il problema (ricordiamolo non risolutivo) è nella libertà di movimento dei capitali, che consente un’allocazione delle risorse ottimale, ma non permette agli Occidentali il mantenimento degli attuali livelli di ricchezza. Insomma, parrebbe, una strada senza uscita, se non ci si risolve ad affrontare con determinazione quello che appare oramai evidente.
La difficoltà sembra risiedere in un riequilibrio dei valori di scambio delle varie monete, adesso sbilanciato troppo favorevolmente sulle monete indiana e cinese, e nel ristabilire una sorta di governance mondiale che si ponga l’obiettivo primario di ristabilire un collegamento forte tra i flussi finanziari di danaro e di commercio internazione, nonché estendere la regolamentazione del settore bancario anche alle società finanziarie ed ai fondi d’investimento che ad oggi nella generalità dei casi sfuggono alla normativa bancaria …
Ma è più facile a dirsi che a farsi!