Per una nuova svolta tra politica ed economia

03 Luglio 2012

Mino Mini

 

Federalismo demaniale

VIVA LA RIVOLUZIONE !

 

Un quotidiano nazionale, non senza un malcelato godimento, ha dato notizia che l’esecutivo aveva detto addio al federalismo demaniale che prevedeva il trasferimento dei beni del demanio pubblico dallo Stato agli Enti locali ai sensi dell’art.3 del D.lgs. 85/10. L’art.5 dello stesso decreto ne individua la tipologia:
a) i beni appartenenti al demanio marittimo e relative pertinenze definiti dall’art. 822 del Cod. Civ:: “il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti, i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia; le opere destinate alla difesa nazionale”; b) i beni appartenenti al demanio idrico e relative pertinenze nonché le opere idrauliche e di bonifica, ad esclusione dei fiumi e dei laghi di ambito sovra regionale; c) gli aeroporti di interesse regionale o locale; d) le miniere e le relative pertinenze ubicate su terraferma; e) gli altri beni immobili dello Stato, ad eccezione di quelli esclusi dal trasferimento.
Curioso come il tipo di bene di cui alla lettera e), che più di ogni altro avrebbe bisogno di una definizione, venga definito genericamente “altro” come se non rappresentasse la parte più consistente dell’insieme dei beni del demanio pubblico. Infatti il testo del D.lgs.85/10 lascia intendere facilmente, a chi si occupa di urbanistica, l’intento speculativo che sta dietro a questo trasferimento. Per prima cosa l’ambiguità circa la distinzione dei beni da trasferire a titolo non oneroso allo scopo di “favorire la massima valorizzazione funzionale” (art.2 c.4) e quelli da inserire “in processi di alienazione e dismissione”. Dal momento che nella tipologia dei beni di cui all’art.5 sono compresi, come abbiamo visto, il lido del mare, le spiagge, le rade, i porti etc. quasi tutti vincolati, peraltro, dalla legge Galasso n.481/85, non si capisce come possa applicarsi il comma 2 lettera b) sulla semplificazione che prevede la convocazione di una Conferenza di Servizi ai sensi degli artt. 14, 14-bis,14-ter e 14-quater della legge 7agosto 1990 n.241 per attribuire a questi beni – ai fini dell’alienazione – la “variazione della destinazione urbanistica” che, sempre per la Galasso e per i PTP (Piani Territoriali Paesistici), dovrebbero già possedere con i relativi vincoli.
Non fa chiarezza l’art.4 sullo Status dei beni che stabilisce come gli stessi entrino a far parte del patrimonio disponibile degli Enti beneficiari. Possono, cioè, essere venduti “ad eccezione di quelli appartenenti al demanio marittimo, idrico e aeroportuale, che restano assoggettati al regime stabilito dal codice civile nonché alla disciplina di tutela e salvaguardia dettata dal medesimo codice, dal codice della navigazione, dalle leggi regionali e statali, dalle norme comunitarie di settore … etc.” Viene da chiedersi: se l’obiettivo era quello di trasferire alle regioni, alle provincie, ai comuni, alle città metropolitane, dei beni disponibili per l’alienazione – quelli definiti tipologicamente ed ipocritamente come “altro” per intenderci – qual’ è il senso del trasferimento di beni indisponibili alla vendita e gravati di vincoli? Il senso è politico: attribuire alle Regioni la sovranità del suolo patrio spezzando l’unità territoriale dell’Italia. “Di quella umile Italia fia salute/ pe rcui morì la vergine Camilla / Eurialo e Turno e Niso di ferute” (Inf.I 105-108) e per cui continuarono a morire fino agli ultimi secoli a noi più vicini milioni di altri uomini affinché “questa umile Italia” fosse libera, indipendente e UNA “dalle Alpi al Lilibeo”
Allora viva il governo Monti per l’addio al federalismo demaniale? Non proprio, perché l’”affare” che gli Enti locali speravano di concludere con il trasferimento dei beni da parte dello Stato, il succitato governo intende concluderlo in proprio. Il “tecnico” bocconiano al servizio dei poteri finanziari internazionali rispolvera – pensa che genio – Adam Smith (l’inventore della “mano invisibile” che trasforma l’egoismo individuale nel benessere collettivo) che nel 1776, nelle “Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni”, consigliò ai governi di vendere i terreni di proprietà pubblica per pagare i loro debiti. Propone, come è ovvio, di alienare la ricchezza della nostra nazione per pagare i debiti agli usurai della finanza internazionale.
Ci sia concessa una digressione su questo tema. I nostri progenitori lontani, i Romani ( quelli con la lettera maiuscola ) , della terra di quell’umile Italia virgiliana si sentivano simbioticamente parte. Rivestivano di sacralità la proprietà individuale del suolo perché monade di un’entità organicamente più grande e spiritualmente elevata che onoravano, attribuendole il nome di patria, come genitrice del loro mondo e per la quale, se necessario, combattere fino all’estremo sacrificio (sacrum facere). Sapevano, come altri dopo di loro, che senza la proprietà del suolo dove vive, un popolo non ha più indipendenza ed è predestinato a perdere anche la libertà: a diventare un popolo di schiavi. Oggi, ridotto il suolo a valore di scambio, la sua ricchezza non serve più alla costruzione del mondo dell’uomo, non ha scopo alcuno, ma solo utilità strumentale. Ed ha ragione A. Saccà quando afferma: “una ricchezza senza scopi è la caduta della civiltà” ( Il Borghese maggio 2011 ).
Finita la digressione torniamo al federalismo demaniale proponendo, contro tutte le sirene bipartisan che cantano la dismissione del patrimonio pubblico (la chiamano valorizzazione), di fare … la rivoluzione.
Freniamo lo sdegno o le velleità: non una rivoluzione cruenta che non risolve alcunché, ma un vera rivoluzione concettuale che distrugga valori falsi o non più adeguati e ne scriva di nuovi.
Vediamone lo svolgimento.
Primo atto: ammissione di un terzo interlocutore. Il D.lgs. 85/10 prevede due soli soggetti: uno Stato trasferente e un Ente locale beneficiario al quale il bene “altro” (area fabbricabile, stabilimento dismesso etc. ) viene trasferito, a titolo non oneroso, con variante allo strumento urbanistico generale autorizzata. Quindi con il valore di scambio aggiunto garantito dalla legge e disponibile alla alienazione.
La proposta alternativa prevede: a) Indisponibilità alla vendita del suolo trasformato in valore di scambio mediante il conferimento della destinazione urbanistica per evitare la speculazione e destinare il bene alla trasformazione e/o alla valorizzazione; b) utilizzo dei beni “altri” per stimolare la crescita economica finanziando parzialmente – con la cessione del bene – strutture produttive formate da imprese di lavoratori secondo il modello di massima formulato da A. Saccà su Il Borghese di aprile 2011: “Un’impresa senza capitalista esterno ai lavoratori, un’impresa in cui il lavoratore sia imprenditore, un’impresa di lavoratori imprenditori “; c) alla cessione a titolo non oneroso agli Enti locali, affiancare la cessione, sempre a titolo non oneroso, a imprese di lavoratori locali che si dotino di un manager ( assunto o organico all’impresa ) e siano in grado di presentare progetti qualificati e qualificanti di valorizzazione del bene ( progetti di housing sociale , con o senza autocostruzione, che propongano un modo di abitare diverso dall’alienazione delle attuali periferie urbane; progetti di riqualificazione e trasformazione urbana in base al piano casa; hotellerie, alto artigianato per esportazione, piccole e medie industrie manifatturiere etc. etc. ).
Secondo atto: la rivoluzione epocale.
La portata rivoluzionaria di questa proposta per essere compresa abbisogna, a priori, di una indispensabile spiegazione chiarificatrice. Mediante copia e incolla ed un profluvio di omissis, riprendiamo dal ciclo “Uscire dal deserto”, pubblicato nei primi cinque mesi del 2010, la definizione dei quattro fattori costitutivi dell’economia e della tecnica. In un visione organica il momento dell’economia e della tecnica rappresenta la struttura costitutiva del mondo e, in quanto tale, è parte dell’organismo civile e ad esso connessa in moltissimi modi tutti, però, organicamente riportabili ai capisaldi dei suoi quattro fattori costitutivi: l’imprenditore, il capitale, il lavoro ed il consumo…omissis… Vediamo dunque questi fattori costitutivi incominciando dall’ imprenditore. “…Rappresenta l’attore dell’operazione economica, colui che la concepisce e la gestisce e ne rimane insieme l’ideatore e costitutore, l’operatore, il responsabile e l’insopprimibile legittimo rappresentante “[ S. Muratori. Civiltà e territorio 1967] …omissis …
Il capitale. E’ il mezzo per attuare l’interesse economico individuato dall’imprenditore. Naturalmente esistono diverse forme e categorie di capitale. Capitale è la terra [ come nella fattispecie che stiamo esaminando] così come le materie prime e le sue fonti e mezzi di rifornimento; capitale sono la strumentazione tecnica, le scorte di materiali necessari, il credito e il circolante; ancora capitale è la disponibilità di mano d’opera addestrata, salariata e tecnica – la cosiddetta forza lavoro – ed altrettanto lo è la disponibilità delle basi di mercato, pubblicità, attrezzatura commerciale e trasporto. Senza capitale nessuna possibilità operativa, ma il capitale – è bene ribadirlo – è solo uno strumento. Fondamentale nella fase operativa, non è fondamentale invece in quella costitutiva che le è antecedente. …omissis … Nella situazione attuale il capitale finanziario, nella logica della massimizzazione del profitto finanziario, ha assunto una preponderanza determinante fino ad asservire le altre forme di capitale, prima fra tutte la forza lavoro e poi gli altri fattori costitutivi dell’economia. Ma non si è fermato a questo… omissis …. Nei fatti il capitalismo finanziario si è sostituito surrettiziamente allo Stato mentre, nel caso della forza lavoro il capitale si è fatto palesemente esso stesso Stato…omissis…
Veniamo al lavoro. Va subito sgombrato l’equivoco generato da considerazioni di ordine sociale, politico o umanitario che portano ad identificare il lavoro con la forza lavoro ovvero con la mano d’opera. Come abbiamo visto la sua disponibilità, il suo reperimento, attrezzatura e pagamento fanno parte del capitale, ma la mano d’opera non rappresenta ancora il momento strumentale e come tale decisionale. Ne è la prova la migrazione dei capitali finanziari nelle regioni del mondo alla ricerca di forza lavoro a basso costo quando la stessa non sia più convenientemente sostituibile con macchinari. Il lavoro, invece, è un’altra categoria e rappresenta il momento di convergenza di diverse e complementari operazioni decisionali a più livelli ( ricerca ed elaborazione, organizzazione, direzione e controllo del lavoro, pianificazione e gestione delle risorse materiali e finanziarie etc. ) a costituire un organismo produttivo caratterizzato, operativamente, dalla partecipazione al rischio nell’impresa e compensata con partecipazione all’utile. Il famoso plus valore di marxiana formulazione che non compete affatto alla mano d’opera puramente strumentale come affermava Marx.
Infine il consumo. Esso rappresenta l’ambiente di assorbimento del prodotto dell’attività economica. E’ il fattore che determina il successo economico. Ebbene, la lunga spiegazione chiarificatrice dovrebbe aver mostrato – almeno secondo chi scrive – come la nascita dell’impresa di lavoratori, oltre a costituire il modo di contrapporsi alla perdita di competitività dovuta al processo capitalistico di delocalizzazione, rappresenti il riscatto sociale ed economico del lavoratore: da forza-lavoro, da oggetto strumentale o capitale “umano” sempre in conflitto servile con il capitale – in specie quello finanziario- si trasforma evolvendosi in lavoratore padrone del proprio destino, dotato di quella individualità che lo accredita come parte dell’organismo civile. Il capitale verrebbe dal lavoro che dovrebbe essere sostenuto da istituti di credito di cui diremo più avanti al terzo atto. Dice A. Saccà: “Il profitto non andrebbe ad un soggetto esterno ai lavoratori … apparterrebbe [ agli stessi ] i quali se lo ridistribuiscono per far sopravvivere l’impresa e il loro posto di lavoro e disposti ad ogni sacrificio perché sicuri di non farlo per un capitalista esterno, il << padron e>>. L’impresa di lavoratori sarebbe, inoltre, lo sbocco ideale per risolvere il problema dell’occupazione giovanile.
Terzo atto.
Lo Stato – dice Roberto Bizzarri sulle pagine de il Borghese – costituisca al più presto una grande banca pubblica, senza il coinvolgimento delle banche ABI, per capirci. Controllo al 100% in capo al MEF. Con un capitale vero, cash, di almeno 100 miliardi di Euro. Ricominci a finanziare famiglie e imprese, a tassi contenuti, al costo, senza spread. Questa banca non deve dare dividendi agli azionisti. Deve solo chiudere in pareggio. E’ nostra, è di tutti. I nostri dividendi sono implicitamente contenuti nel basso tasso d’interesse. Questa è l’essenza della rivoluzione – sia pure settoriale – che la situazione impone. Questo è ciò che ci fa gridare: Viva la rivoluzione.