Le sorti “liberiste” di Taranto e di Torino e una politica economica basata sul “capitale lavoro”

14 Dicembre 2012

Mino Mini

 

LA CRISI DELLE CITTA’ INDUSTRIALI

DECLINO E POSSIBILE RISCATTO

 

Stiamo vivendo nella nostra Italia gli ultimi esiti della seconda rivoluzione industriale. Per essersi, da noi, sviluppata in ritardo, finisce anche in ritardo e quindi appare, a chi si occupa di città e territorio, come un “déjà vu”.
Le vicende di Torino, Pomigliano d’Arco, Melfi, del Sulcis, di Taranto etc. e più in generale delle città e dei distretti industriali, mostrano la crisi in cui si dibatte la concezione moderna della città e del territorio basata sulla preminenza dell’economia come valore fondante.
La vicenda di Torino, grazie all’asse Torino-Detroit tracciato dall’italo-canadese (più canadese che italo) Marchionne, sembra una ripetizione, in chiave di farsa, della tragedia che colpì la città dell’automobile americana ai confini del Canada.
Perché in chiave di farsa? Non sapremmo come altro definire la “presaperilculo” che l’Italia ha subito da parte di quella Fiat che, per anni, ha preteso ed ottenuto aiuti economici ponendo i vari governi sotto il ricatto del licenziamento dei dipendenti in esubero; la stessa che a salvaguardia dell’italianità dell’industria automobilistica, ottenne in regalo la gloriosa e prestigiosa Alfa Romeo una volta “liberalizzata”.
La vicenda dell’Ilva di Taranto ha, invece, il suo parallelo, per gli aspetti negativi, in Pittsburg la città dell’acciaio americana.
Ne parleremo più avanti perché anteriormente occorre spiegare dov’è l’origine del processo di crisi della città, del territorio, della stessa economia e quali i possibili esiti.
Abbiamo più volte affermato, su queste pagine, che la città ed il territorio sono manifestazioni della simbiosi di uomo e natura. Sono, cioè, degli organismi e, come abbiamo esposto anche di recente, in quanto organismi seguono una legge naturale di evoluzione che li predispone a dover raggiungere il loro completamento, ovvero, la loro entelechia. Raggiunto quello stadio l’organismo diventa natura, come affermava Aristotele (il filosofo, non Onassis), e come tale può strutturasi insieme ad organismi consimili per diventare un organismo a scala superiore.
 
Fermiamoci qui e ragioniamo: supponiamo che l’uomo si sottragga al processo di simbiosi, veda se stesso come dominatore e la natura come un ente esterno da dominare. Come eserciterebbe questo dominio? Ricorrendo, necessariamente, alla tecnica e quindi all’economia. A quel punto i suoi insediamenti non sarebbero più simbiosi di uomo e natura, ma manifestazioni concrete, materializzate del suo dominio che avrebbero come fine un esito economico: generare profitto.
Proprio ciò che avvenne concettualmente nel XVII° secolo e concretamente nel periodo compreso tra gli ultimi quarant’anni del ‘700 e il 1830 con la realizzazione dei primi insediamenti industriali. Questo periodo è quello che ha visto realizzarsi, con l’impiego della macchina a vapore alimentata a carbone, la prima rivoluzione industriale così definita, secondo lo storico Fernand Braudel, dall’economista Adolphe Blanqui nel 1837. Definizione che fu ripresa e introdotta nella cultura corrente da Friedrich Engels nel 1845 seguito nel 1848 da John Stuart Mill e rilanciata da Karl Marx nel 1867 nel suo Il Capitale.
Il lungo processo di formazione di questa fase della storia dell’uomo dominatore della natura che va dalla nascita delle coke towns nella Black Country fino allo sviluppo delle città industriali della seconda rivoluzione – quella del petrolio – che si protrasse fino al decennio 1970-1980 e sopravvive tutt’ora mentre è in corso la terza rivoluzione industriale, non è cosa che può essere raccontata nell’economia di questo articolo. Occorrerà, giocoforza, limitarci a dire come, a seguito di queste rivoluzioni, ciò che l’uomo ha poi realizzato come proprio insediamento, non si può più definire città, anche se tale denominazione è rimasta nell’uso. Infatti la simbiosi uomo-natura era stata scissa dalla coscienza critica, pur sopravvivendo nella coscienza spontanea, ovvero nella realtà, e la città-TUTTO, la sintesi di spirito e materia sopravvisse stentatamente solo nelle città antiche che si formarono prima della rivoluzione.
Nei nuovi insediamenti, non più città ma strutture abitative a sostegno del processo economico, anche l’uomo mutò in chiave economica: una parte – ridotta – divenne soggetto attivo del processo mentre la parte preponderante divenne “cosa”, ovvero forza-lavoro strumentale e come tale parte costitutiva del capitale addestrata e programmata a svolgere mansioni elementari e meccaniche.
In chiave politica la visione distorta sub specie oeconomiae
Istituzionalizzò la divisione fra soggetto attivo e forza-lavoro come contrapposizione fra due classi: il soggetto attivo divenne la borghesia, la forza lavoro divenne proletariato. Frutto di quella visione distorta è stato il processo di proletarizzazione che possiamo definire come condizionamento dell’uomo ad essere “cosa” sub specie oeconomiae. Uno stato di indigenza morale ( ovvero politica ) che vede l’uomo privato di ogni potestà decisionale.
Con lo svilupparsi ed il consolidarsi della nuova struttura rivoluzionaria della società si ebbe il proliferare di un altro fenomeno: l’accrescimento demografico senza freni e la necessità, da parte del potere economico dominante, di porlo sotto controllo. Controllo, si badi bene, che non riguardava tanto la limitazione della popolazione o la ridotta possibilità di dare un’abitazione alle masse che popolavano, in precarie condizioni di sovraffollamento, di salute e di igiene i nuovi insediamenti, quanto quella di condizionarli dapprima alla disciplina meccanica del luogo di lavoro per poi trasferire la stessa meccanicità nella vita sociale. Insomma la necessità di mettere in atto un vero e proprio mindfucking ante litteram ( letteralmente: fottendo la mente ) per condizionare l’uomo a vivere meccanicisticamente nei nuovi insediamenti industriali al fine di assicurare l’esistenza non già degli uomini – facilmente sostituibili – ma della struttura economica al cui rendimento erano e sono sottomessi.
Il caso limite fu rappresentato dalle One Company Towns la cui migliore definizione è la seguente: città i cui abitanti dipendono dal sostegno economico di una singola impresa che realizza e gestisce negozi al dettaglio, scuole, ospedali e abitazioni. In sostanza una città costruita e gestita da una società economica per la sua forza-lavoro.
Ma che succede alla città industriale se la struttura economica fallisce o abbandona il suo insediamento per delocalizzare altrove la sua attività?
Per indagare su questo quesito riprendiamo il parallelismo fra Torino e Detroit e quello fra Taranto e Pittsburg con cui abbiamo aperto l’articolo.
 
Detroit, come tutte le città americane più antiche, è un insediamento formatosi all’epoca della prima rivoluzione industriale con la concezione del dominio dell’uomo nei confronti della natura e di chi la abita. Nata come forte francese dei cacciatori di pellicce, venne conquistata dagli inglesi nel 1760. Dal 1830 cominciò la crescita di Detroit con il diffondersi dei trasporti, dei cantieri navali e delle industrie. Il suo successo, però, iniziò a partire dal 1904 e più precisamente con la produzione del celeberrimo Model T da parte di Ford. A Detroit si concentrarono i più importanti produttori di automobili ( Ford, i fratelli Dodge e Walter Chrysler ) dando vita alla città come capitale dell’automobile e dei conflitti sindacali. Crebbe a ritmi vertiginosi e dai 1422 abitanti del 1820 arrivò ai 1.623.000 abitanti dell’ultimo dopoguerra creando una crisi di alloggi aggravata dai fenomeni di latente discriminazione razziale. Il picco della popolazione fu raggiunto nel 1950 quando, a seguito del massiccio trasferimento di lavoratori provenienti dagli stati del Sud si arrivò ad una popolazione di 1.849.568 anime.
La capitale dell’automobile, il paradigma della ricca città industriale, la culla del fordismo che da qui si era diffuso nel mondo, l’orgoglio dell’America era, però, attaccata al proprio interno dal degrado.
Degrado essenzialmente morale dovuto, in primo luogo, alla discriminazione razziale ed alla conseguente emarginazione della componente afro-americana della popolazione in quartieri ghetto resi tali, non già dalle condizioni abitative (coercizione in spazi ristretti), ma da quella che si potrebbe chiamare etnicizzazione degli spazi urbani. Se non fosse che l’emarginazione riguardava cittadini americani e rifletteva una delle tante manifestazioni della proletarizzazione.
Il giorno 23 luglio del 1967 il degrado assunse le forme della rivolta urbana e innescò quel processo di crisi che mise a nudo l’incapacità del potere economico di arrestare la decadenza della sua creatura: la città della seconda rivoluzione industriale. Fu la cosiddetta Riot 12th Street , la rivolta della dodicesima strada del quartiere afro-americano di Virginia Park che scoppiò un fine settimana a seguito dell’irruzione della buoncostume in alcuni locali notturni illegali.
Un bilancio tragico che contò, nell’arco di sei giorni 43 presone uccise, 7000 persone arrestate, 1700 negozi saccheggiati, quasi 1400 edifici bruciati, 50 milioni di dollari di danni e 5000 persone rimaste senza casa. Come conseguenza innescò l’esodo progressivo della popolazione bianca della città mentre l’immigrazione dei neri dal sud continuò e si consolidò nel cuore degradato della città cambiandone i connotati.
La crisi petrolifera dal 1973 al 1979 mise in sofferenza l’industria automobilistica americana e la concorrenza delle utilitarie di produzione straniera la mise decisamente in ginocchio.
Oggi Detroit ha perso più di un milione di abitanti del 1950. E’ ridotta a 733.777 abitanti di cui l’82% è afro-americana, il 10,6% è bianca ed il resto è composto di asiatici, nativi americani e ispanici. Violenza urbana, tipica delle zone degradate delle città, e droga regnano sovrane al punto che molti edifici sono stati demoliti perché divenuti covi per spacciatori.
E’ comprensibile che Marchionne abbia ricevuto il riconoscimento di uomo dell’anno per aver risollevato la Chrysler, uno dei comatosi ex giganti dell’industria automobilistica americana con sede a Detroit. Meno comprensibile è, come abbiamo visto, il suo comportamento nei confronti dell’Italia.
Torino, anche se fabbricava automobili, non è Detroit. Ospitava l’industria, non ne era la filiazione. Tuttavia la crisi dell’industria automobilistica l’ha messa praticamente in ginocchio. Come Detroit ha avuto un cambiamento nella composizione della popolazione al punto di essere stata definita dal sindaco Novelli “ la terza città meridionale d’Italia dopo Napoli e Palermo” . Ma non si può davvero sostenere che l’afflusso di popolazione dal meridione si sia rivelata, per la città, fonte di degrado come è accaduto per il parallelo americano. La spiegazione è semplice: Torino è nata come città organica su uno dei più prolifici germi di generazione delle città: il castrum romano. Nel caso specifico, poi, il suo DNA trasmette i geni delle legioni di Giulio Cesare e lo si può ancora leggere nella sua realtà urbana.
Certo, anche Torino è stata colpita dalla dissociazione della simbiosi di uomo e natura ed anch’essa conosce il degrado dovuto alla concezione economicistica del governo della città ed al declino della parte maggioritaria della popolazione colpita dal processo di proletarizzazione. Tuttavia ha potenzialità notevoli che non sono rappresentate dalla Fiat.
E’ curioso, sia rilevato quale inciso, come il declino di Detroit sia coinciso con la massima ascesa di Torino che nel 1971 registrò 1.187.000 abitanti. Da allora ad oggi ne ha persi 278 mila, ma con i suoi 909 mila attuali è già in crescita rispetto al 2001.
Vediamo ora velocemente il parallelo tra Pittsburg, altra città della rivoluzione industriale, e Taranto l’antica Taras magno greca.
Pittsburg, la Steel City – la città d’acciaio – nei centotrenta anni che dal 1850 arrivano al 1980 è stata il cuore dell’industria pesante statunitense. Un cuore fortemente inquinato, come è oggi Taranto, e che a seguito della recessione degli anni settanta, la stessa che mise in ginocchio Detroit, dovette cedere alla concorrenza di produttori non statunitensi. Pittsburg non ebbe a vivere il dramma sociale di Detroit e ciò le consentì di riconvertire la propria economia entrando nella terza rivoluzione industriale investendo nella ricerca e nell’innovazione.
E’ ciò che dovrebbe fare Taranto applicando alla siderurgia la ricerca e l’innovazione. Ad esempio applicando la tecnologia al plasma per l’abbattimento delle polveri trasportate dai fumi, oppure applicando le tecniche e le ricerche della Lanzatech di Richard Branson per la produzione di carburanti dai gas emessi dagli altiforni come stanno facendo i cinesi con la Baosteel di Shanghai. Al tempo stesso operare per la bonifica del disastrato quartiere Tamburi mediante demolizione, trattamento dei terreni e ricostruzione.
Ma … c’è un ma. I casi di Torino e di Taranto mostrano l’errore che fu compiuto con le privatizzazioni dell’Alfa Romeo e dell’Italsider. I settori strategici non possono essere lasciati ai privati, ma al tempo stesso non possono essere strumenti di assistenzialismo della forza-lavoro. La terza rivoluzione industriale in atto non ha più bisogno della forza-lavoro, ma necessita di cittadini-lavoratori che sappiano decidere, innovare, creare. Lavoratori che sappiano prendere in mano il proprio destino, che sappiano impedire la distruzione delle loro aziende. Ed uso il possessivo “loro” a ragion veduta in quanto essendo come forza-lavoro parte del capitale (capitale umano), la proprietà dell’azienda in parte compete loro anche se giuridicamente ciò non è riconosciuto. Il riscatto dalla reificazione – dalla condizione di “cosa” – passa per la riconquista della dignità di lavoratore. Ma non come forza-lavoro servile bensì come parte responsabile di diverse e complementari decisioni a più livelli (ricerca ed elaborazione, organizzazione, direzione e controllo del lavoro, pianificazione e gestione delle risorse materiali e finanziarie etc.). Lavoratore che può rivendicare dallo Stato che in suo nome venga salvata l’azienda che in parte gli appartiene.
E non ci si scandalizzi inutilmente per la richiesta dell’intervento dello Stato. Non intendiamo certo questo Stato. In una riconquistata visione organica nella quale trova finalmente cittadinanza il lavoro senza sottomissione, ma come partecipazione alla sorte dell’azienda, lo Stato non è un padrone, ma il grado più elevato di organicità che l’uomo civile può raggiungere. Come tale può, esso condurre un popolo anche nel mare procelloso dell’economia globale dove si scontrano concentrazioni di forze capaci di fagocitare strutture strategiche dal possesso delle quali dipende l’equilibrio economico di una nazione.
 
Certo anche uno Stato può degenerare, ma può anche essere la vetta della libertà. Dipende dai cittadini e questi non possono ridursi ad essere “cosa”, ma debbono riscattarsi dalla condizione servile e tornare ad essere uomini e creatori del mondo.