Archeologia, messianismo religioso e idiotismo fanatico. Perché realtà storica e scienza suscitano tanta paura?

08 Giugno 2013

Fonte: televisione  laeffe – canale 50

Nota di Domenico Cambareri

 

 

 

 

 

 Vicino Oriente, Palestina, bibbia

Cosa presentano le più recenti scoperte archeologiche

Come e perché il fanatismo religioso israelita e cristiano viene sistematicamente smentito dalle ricerche sul campo? – Con grande disincanto e con eccezionale neutralità la studiosa  Francesca Stavrakopoulou ci informa sulle diverse teorie e ci presenta delle sintesi da cui emerge come delle “scuole” archeologiche abbiano ripetutamente tentato e tentano di strumentalizzare ad usum delphini i risultati degli scavi archeologici attarverso il vetusto, ricattatorio strumento della bibbia intesa come diretta parola di dio, che ha generato inenarrabili fiumi di odio bestiale e di sangue in duemila anni di storia. In nome di una fantasiosa e in sé incolpevole verità rivelata. – Perché giudeo – israeliti, l’Israele di oggi e le chiese “storiche” cristiane che sommersero i primi cristiani che non parlavano della divinità di Gesù hanno così tanto da temere dalle conquiste della scienza? – Quanto è difficile l’emancipazione intellettuale, morale e spirituale di masse di passivi credenti sull’onda di un’ancora inesausta ricezione “tradizionale” vergata con il battesimo dei neonati e con l’inculcata, “inconscia” paura della dannazione? – Domenico Cambareri

 

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Il codice segreto della Bibbia

Francesca Stavrakopoulou, dottoressa in Studi biblici e esperta di siti e reperti archeologici, va alla scoperta dei misteri racchiusi nella Bibbia… Esiste il giardino dell’Eden? Gli antichi ebrei adoravano anche una divinità femminile? Il regno di David è leggenda o realtà?
 
 
 
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Traduci questa pagina  Francesca Stavrakopoulou (born 1975 in Bromley,ngland with an English mother and a Greek father) is Professor of Hebrew Bible and Ancient Religion in the .. 
 
Francesca Stavrakopoulou is Professor of Hebrew Bible and Ancient Religion in the Francesca studied Theology at the University of Oxford, where she also
 
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Si veda anche l’importantissima opera di Mario Liverani, anche se non risulta aggiornatissima in riferimento ai più recenti rinvenimenti avvenuti nelle stazioni archeologiche della terra di Canaan o Palestina, con una recensione critica ripresa da cartesio-epsiteme.net:

Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele

Autore Liverani Mario

Prezzo € 22,00
 Dati 2009, XV-510 p., ill., brossura
Editore Laterza, Bari, 2004  (collana I Robinson. Letture)
 

 

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<<Le storie dell’antico Israele si assomigliano tutte perché tutte assomigliano alla storia contenuta nel testo biblico, ne assumono la linea narrativa, ne fanno propria la trama. Quest’opera riporta la vicenda della nascita d’Israele alla sua realtà storica, prende atto dei risultati della critica testuale e letteraria, dell’apporto dell’archeologia e dell’epigrafìa ed è concepita secondo i criteri della moderna metodologia storiografica. Partendo dalla constatazione che il racconto biblico è frutto di una elaborazione molto tardiva, Liverani riporta i materiali testuali all’epoca della loro redazione, ricostruisce l’evoluzione delle ideologie politiche e religiose in progressione di tempo, inserisce saldamente la storia d’Israele nel suo contesto antico-orientale. Emergono così la ‘storia normale’dei due piccoli regni di Giuda e d’Israele, analoga a quella di tanti altri piccoli regni locali, e la ‘storia inventata’, che gli esuli giudei costruirono durante e dopo l’esilio in Babilonia, proiettando indietro sulla loro storia i problemi e le speranze del loro tempo. Un libro importante che parla a tutti.>>
[In copertina: Gerusalemme, l’accesso alle tombe dei re, da The Holy Land and Syria (1842) di David Roberts.]
Mario Liverani insegna Storia del Vicino Oriente antico all’Università di Roma La Sapienza. E’accademico dei Lincei e membro onorario dell’American Oriental Society. Dirige la missione archeologica nell’Acacus (Sahara libico). Con l’editore Laterza ha pubblicato: Guerra e diplomazia nell’antico Oriente (1994), Uruk, la prima città (1998), Antico Oriente (2003). ISBN 88-420-7060-2, Euro 24.00
Indice
Prefazione – Abbreviazioni – Imprinting
1. La Palestina nel Tardo Bronzo (secoli XIV-XIII)
Parte prima – Una storia normale
2. La transizione (XII secolo)
3. La nuova società (ca. 1150-1050)
4. Il processo formativo (ca. 1050-930)
5. Il regno di Israele (ca. 930-740)
6. Il regno di Giuda (ca. 930-720)
7. L’impatto imperiale assiro (ca.740-640)
8. Pausa tra due imperi (ca. 640-610)
9. L’impatto imperiale babilonese (ca. 610-585)
Intermezzo
10. L’età assiale
11. La diaspora
12. Il paesaggio desolato
Parte seconda – Una storia inventata
13. Reduci e rimanenti: l’invenzione dei Patriarchi
14. Reduci e alieni: l’invenzione della conquista
15. Uno stato senza re: l’invenzione dei Giudici
16. L’opzione monarchica: l’invenzione del regno unito
17. L’opzione sacerdotale: l’invenzione del tempio salomonico
18. L’auto-identificazione: l’invenzione della Legge
Epilogo
19. Storia locale e valori universali
Bibliografia
Indice dei nomi di personaggi e divinità
Indice dei nomi geografici
Indice dei termini citati
Indice dei testi citati
Indice delle tavole e delle figure
Fonti delle tavole e delle figure
 
 
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Mario Liverani insegna Storia del Vicino Oriente Antico all’Università “La Sapienza” di Roma. Il suo mestiere è quello di scavare vecchie pietre, decifrare antiche iscrizioni e compulsare vetusti manoscritti per ricostruire ciò che è successo in passato. Mestiere difficile e di poca soddisfazione, temo, perché di eventi accaduti migliaia di anni fa non si riuscirà mai ad avere l’assoluta certezza (i corsivi sono miei: N.d.A.) Oltre tutto è perfino accaduto che i nostri avi, per un motivo o per l’altro, ci abbiano mentito, a volte clamorosamente. Lo hanno fatto, per esempio, gli anonimi scribi che misero nero su bianco, nella versione che ci è pervenuta, la Scrittura. Così afferma Liverani, sicuro che quel testo, che pretende di essere la fedele relazione delle vicende del popolo d’Israele, con la “vera” storia abbia in realtà ben poco da spartire perché fu redatto a distanza di molti secoli dagli avvenimenti, ma soprattutto perché la sua visione dei personaggi e dei fatti descritti è interessata o, per usare un eufemismo, fantasiosa e lusinghiera.
Certo, la datazione della stesura finale della Bibbia è un problema: scritta a molte mani, in diversi periodi e vari stili (ciascun libro peraltro è un caso a sé), porta i segni di interpolazioni, censure e adattamenti d’ogni genere, ed anche solamente a una lettura superficiale abbonda di incongruenze e di affermazioni contraddette dai fatti. Poiché esistono per fortuna altre vie per reperire informazioni più attendibili, sia in loco che d’altra provenienza. L’archeologia, l’epigrafia e documenti scritti quali lettere, annali e altro. È sulla scorta di quelle testimonianze che l’Autore intende, con questo libro, ristabilire la verità storica di quegli eventi, resa quasi inaccessibile dalla millenaria sacralità del racconto: “Tutte le storie dell’antico Israele si assomigliano perché tutte inevitabilmente assomigliano alla storia contenuta nel testo biblico”, osserva, sottintendendo che la storia da lui proposta sarà invece differente, come in effetti è.
La sua indagine ci mostra quindi le due diverse facce di una realtà che segue il cammino cronologico del popolo d’Israele dalle sue più lontane origini – risalendo addirittura alla Creazione – fin quasi al suo dissolvimento finale come nazione: la versione normale, accertata usando i criteri della moderna metodologia storiografica, e quella tradizionale a tutti nota, affermata dalla Bibbia, che Liverani reputa in buona parte inventata.
Già la storicità delle parti più antiche e favolose è stata confutata negli ultimi tempi dalla critica più razionalista e laica, a lungo in precedenza ostacolata da remore religiose: per ciò che riguarda la Creazione (be’, certo…), il Diluvio, i Patriarchi, Mosè e l’esodo, Giosuè e la conquista, i Giudici e la Lega delle 12 tribù, le cose non andarono affatto come la Scrittura sostiene, ammesso che si siano mai verificate.
Tuttavia il regno unito all’epoca di Davide e Salomone finora era considerato sostanzialmente storico; ma pure tale entità, ossia l’esistenza stessa di un “regno unito” – e di una certa consistenza – di Giuda e Israele, è stata messa in crisi totale, cioè negata, dalla più recente critica, che lo vede solo come “uno dei tanti regni palestinesi spazzati via dalla conquista assira” e poi da quella babilonese: cosa incontestabilmente vera.
Può darsi che il resoconto o la cronaca originale delle vicende ebraiche rispecchiasse più da vicino la realtà dei fatti, da cui verosimilmente sarebbe risultato il quadro di uno staterello insignificante, non più notevole di altri piccoli potentati locali, formato da un’etnia che nulla di epico aveva alle spalle. Ma Liverani pensa che alla primitiva redazione sia stata surrettiziamente, e di proposito, sostituita e sovrapposta l’attuale, in cui quello “staterello” appare autorevole, potente, grande e fornito addirittura di credenziali divine e di fondatori prestigiosi. Ritiene che l’intero complesso di quegli scritti sia stato manipolato in senso apologetico. E crede di aver individuato le due specifiche fasi in cui ciò avvenne: in un caso nel 622 a.C., ad opera di Giosia re di Giuda, nell’altro a partire dal 586 a.C. e nel periodo successivo, per iniziativa degli ex-deportati in Babilonia, più tardi rimpatriati. Ha, insomma, “la consapevolezza che gli elementi fondanti della conquista e della Legge fossero, in realtà, retroiezioni post-esiliche (intese a giustificare l’unità nazionale e religiosa e il possesso della terra per i gruppi di reduci dall’esilio babilonese)”: in parole povere, operazioni mistificatorie a scopi ideologici e propagandistici, oltre che “legali”, che inventavano al popolo ebraico un nobile e glorioso passato nell’intento di (ri)costituire in tal modo un’entità etnica, politica e religiosa forse mai esistita.
Come dicevo, l’Autore si avvale degli strumenti offertigli dall’archeologia, dall’epigrafia e da altre fonti scritte per ricostruire avvenimenti e realtà fisiche. Ma in questo suo pur encomiabile sforzo trascura alcune cose. A cominciare dall’archeologia, dove le antiche pietre che (come si dice) non mentono, possono però altrettanto bene indurre in errore col loro silenzio. Sessant’anni fa W.F. Albright, decano degli studiosi americani di archeologia biblica, in “Archaeology and the Religion of Israel” aveva dichiarato: “È indubbio che l’archeologia ha confermato la sostanziale storicità della tradizione veterotestamentaria”. È chiaro che Liverani pensa che sbagliasse, e lo stesso vale per il best seller di Werner Keller “La Bibbia aveva ragione” di pochi anni posteriore, o per altri simili lavori. In effetti, nonostante le scoperte fatte nel frattempo, il paese, piccolo e povero di risorse, conserva ben misere vestigia del suo passato. Ma sarebbe comunque arduo rintracciare qualche prova materiale delle più superbe costruzioni di Gerusalemme descritte (due sole, peraltro, il Tempio e il palazzo), che non solo furono più volte semidistrutte, e in ultimo definitivamente rase al suolo dai romani nel 70 d.C., ma di cui perfino i resti delle fondamenta son resi off limits dalla situazione politica attuale della città. Si sa che gli israeliani tentano in tutti i modi di aggirare quel divieto scavando ai margini del monte Moriah, senza però poter sconfinare nelle aree di pertinenza musulmana, e che qualche cosa è stato trovato (gallerie, cisterne e camminamenti: quella montagna è come un groviera): motivo per sperare di poter rinvenire in futuro quanto non è finora tornato alla luce. Perché il punto è proprio questo: i mancati ritrovamenti non escludono affatto quella possibilità. Prova ne siano la recente riscoperta del “tunnel di Siloe'” e quella di una tavoletta, proveniente forse dal Primo Tempio, di cui parlerò più avanti.
Peraltro, almeno di quel Tempio non sembra proprio possibile minimizzare la primitiva imponenza: la mole del Muro del Pianto, o Muro Occidentale (tutto ciò che ne resta, una semplice muraglia di sostegno del terrapieno) sta lì a dimostrarla. Lungo 485 metri e alto 15, fatto di enormi massi squadrati di parecchie decine di tonnellate (certo, non così ben connessi come quelli di Cuzco, ché anzi le loro fessure sono la buca delle lettere per il Padreterno, dove i fedeli infilano i loro speranzosi bigliettini), mostra sia le capacità tecniche che le disponibilità economiche di chi lo costruì. Liverani pensa che a erigere il sontuoso edificio che il Libro attribuisce a Salomone (lui alla Bibbia non crede) non sia stato quel re ma qualcun altro. Eppure quel Tempio non può essere quello ricostruito da Erode, perché la redazione della Bibbia che ne contiene la descrizione è precedente; tanto meno può essere stato ripristinato dai reduci di Babilonia, notoriamente pochi e privi di mezzi; e neanche Giosia, da lui prediletto, ne aveva a sufficienza per una tale opera. Quindi chi, se non Salomone? Ma pure la documentazione storica coeva su cui Liverani fa conto può essere parziale, e lo intendo nelle due accezioni di “incompleta, frammentaria” e di “partigiana”. Si tratta per lo più delle lettere di el-Amarna del XIV secolo e di alcuni paralleli con situazioni egiziane, assire, fenicie e di altre realtà diverse da quella di ebraica, in base anche a fonti, come egli stesso ammette, “di dubbia autenticità”. In ogni caso in pratica qualunque scritto, data la distanza temporale che lo rende difficilmente verificabile, può essere interpretato e pertanto travisato. Anche le antiche iscrizioni o le epigrafi sono state scritte da qualcuno, e può darsi benissimo che quel qualcuno avesse intenzioni diverse dalla trasmissione della verità (ricordiamoci dei cartigli dei faraoni grattati via dai successori). Come tutti sappiamo, poi, pure una fotografia e perfino una ripresa televisiva in diretta possono essere fuorvianti per omissioni o per punti di vista particolari. Tutti, credo, siamo stati tra i fiduciosi adoratori dell’autorità della carta stampata (o, come in questo caso, della pietra incisa), ma solo fino a una certa età. Quindi, perché credere ciecamente a uno scriba di Ugarit o di Damasco e non a uno di Gerusalemme?
Da quegli scarni e incerti elementi emerge l’immagine di un àmbito politico-economico modesto e trascurabile. Ma come si concilia tale immagine con quanto invece la Bibbia ci espone, almeno in relazione ai “tempi d’oro”? Appunto, dice Liverani, non si concilia. Perciò quelle descrizioni sono opera di fantasia assai posteriori.
Ora, nessuno ha intenzione di negare che diverse parti del Libro siano di stesura tarda, sia quanto al linguaggio che per certi riferimenti che vi sono contenuti. Ma ciò non significa automaticamente che il contenuto sia falso. Può esserlo oppure no. Io lo vedo piuttosto come qualcosa di simile a quando si è cominciato a dire la messa in italiano invece che in latino perché la gente capisse, e gli anacronismi sono banali sviste (esiste un’associazione di cacciatori di anacronismi nei film storici, come Attila che mangia le patate fritte, si divertono come matti). Il fatto poi che la storia ufficiale sia stata abbellita non dovrebbe certo sorprendere l’Autore. Come egli stesso può testimoniare, una quantità di antichi regnanti l’ha fatto e, come anche noi possiamo constatare, una miriade di autorevolissimi libri lo fa tuttora. Liverani fa risalire la maggior parte di quelle manipolazioni alla “storiografia deuteronomista”. La quale può avere esagerato la potenza e la ricchezza di Davide e di Salomone, ma che vantaggio avrebbe mai avuto ad inventarsi Mosè? Certo, potersi riferire a figure carismatiche fa sempre comodo; fa gioco tutto quel miracoloso profluvio di divine visioni (argomento che ho affrontato in altra sede); ed è pure vero che piove sempre sul bagnato: cioè che si produce un processo di aggregazione (come fanno i cristalli di zucchero nel doppio kummel) e di accumulazione della fama, positiva o negativa che sia, attorno a un personaggio mitico, o a uno reale che diventa mitico – il che è esattamente la stessa cosa -, ma non intorno a un “nessuno”, a un nome inventato; a meno che non sia un dio. Inoltre, se non puoi negare gli effetti, non puoi negare nemmeno che abbiano avuto un qualche tipo di causa. E c’è anzi da rallegrarsi che, mentre tutti i re di solito sono famosi solo per le guerre, Salomone (benché fiscalmente esoso) lo fosse invece per tutt’altri motivi, tra cui il pacifismo e la saggezza. Di Mosè non posso dire la stessa cosa.
Ma sembra assai strano che gente che per secoli, anzi millenni, ha fatto tesoro di quel suo Libro – dopo un certo numero di errori i copisti distratti venivano esonerati -, al punto di ritenere immodificabile ogni singola lettera e virgola (vi dice niente la Cabala? e il Codice Genesi?), non si sia fatta scrupolo di manipolare la “Parola di Dio” così sostanzialmente come l’Autore sostiene, anche se in vista di un “nobile scopo” e per una “buona causa”, per poi copiare con fanatica cura e tramandare ai successori storie inventate. Quel Libro per loro era ed è sacro. Lì è delineato il percorso dell’intera loro esistenza in quanto etnia specifica e unica, lì è scritto che solo con loro Yawè ha stretto il Patto, e che ai loro doveri verso di Lui corrispondono dei diritti, attestati dalla genealogia. E quella storia, quei diritti e quella genealogia, così come sono definiti nel Libro, non si toccano.
Inoltre, a parte il fatto che quello scopo e quella causa potrebbero pure esser considerati l’alibi per ordire, come qualcuno ha scritto, “un mostruoso complotto” e “una truffa organizzata”, l’operazione di distorcere i dati utopisticamente e ideologicamente è non solamente più fattibile, ma anche più sensata, se riguarda eventi contemporanei; ma se retroattiva, e su un testo di quella vastità e complessità, sarebbe un lavoro immane e di esito dubbio (tant’è che Liverani se ne è accorto: le rare volte che concede che un dato “possa non esser pura finzione”, il termine che usa di più è “sospetto”), con un risultato sproporzionato allo sforzo e comunque inutile. Non c’era nessun bisogno di fabbricare quel gigantesco castello di carte che Liverani sostiene, per affermare il diritto degli ebrei al ritorno e la loro antica identità. Non esiste il minimo indizio che i reduci fossero tenuti a legittimare la propria (ri)presa di possesso delle rispettive proprietà, se non gli elenchi dei rimpatriati che (come quelli dopo la shoà) fecero l’appello e si contarono. E da quando in qua l’unità nazionale e religiosa, che tutti hanno sempre ritenuto meritorio promuovere, è divenuta qualcosa che deve essere “giustificata”?
Come si vede, dunque, le motivazioni addotte dall’Autore si rivelano fragili, se non inconsistenti. Ma a renderle tali ci sono anche altre osservazioni. Liverani infatti sembra ignorare che, oltre agli aspetti positivi e grandiosi, la Scrittura riporta pure fatti orrendi, vergognosi e ben poco lusinghieri, senza escludere sanguinose sconfitte: come mai? A me sembra che si possa considerare contraffatta un’informazione quando è tutta rose e fiori, coerente e univoca in una versione totalmente favorevole dei fatti (oppure esattamente il contrario). Ma perché mai, nel procedere ad una mistificazione tanto importante e radicale, i redattori biblici avrebbero invece lasciato sussistere nel testo aspetti così profondamente negativi e squalificanti come tradimenti, assassinii e sterminii di massa, se non perché quella era la verità? Non fu certo per distrazione. E allora che apologia è?
Tuttavia, si direbbe quasi per partito preso, Liverani si incaponisce nel tentativo di dimostrare ad ogni costo che tutta la Bibbia è menzogna e falsità, giungendo per screditarla, nel suo nichilismo a oltranza (neanche “dubito”, ma “nego ergo sum”, che è comunque un atteggiamento tristissimo), a sostenere posizioni – che vedremo poi – difficilmente definibili come scientifiche: è quel “pathological disbelief ” di cui si parla altrove su queste pagine. Ma non è certamente negando ogni cosa che si arriva a capire cosa sia realmente accaduto in passato. Tra il credere (meglio, certo, se con il beneficio del dubbio) e il non credere per principio a fatti apparentemente inspiegabili, o che comunque superano la nostra capacità di comprensione, c’è però anche una terza via: quella di tentare di dar loro una soluzione razionale e possibile, fermo restando che non c’è garanzia che sia quella vera. Oppure, umilmente, astenersi dal giudizio. Anche l’Aeronautica Militare Americana (Progetto Blue Book), fra le decine di migliaia di casi esaminati e “smontati”, non è riuscita a trovare risposte a una settantina di presunti avvistamenti UFO, rimasti pertanto, prudentemente, irrisolti. E io penso che i misteri relativi al tempo siano da affrontare non diversamente da quelli ambientati nello spazio, e che in tutti i casi, anche delle cose straordinarie e “soprannaturali” – escludendo l’intervento “divino” – bisogna cercare le cause naturali.
È un dato acquisito che la Bibbia non fornisce un resoconto completo, e che contiene inoltre elementi fantastici mescolati e sovrapposti a quelli reali; ma quasi sempre di quella realtà rimangono tracce dalle quali è possibile ricostruire, se non l’irraggiungibile Verità Assoluta, almeno una certa gamma di possibili spiegazioni più o meno probabili. Personalmente, sono del parere che lo strumento migliore da impiegare per sciogliere i nodi più ostici sia il buon vecchio rasoio di Occam, e che – al di là di questo – nessuno abbia la verità in tasca.
Ma, detto ciò, vorrei muovere all’Autore un’obiezione più pertinente.
Par di capire che, nel suo impegno per dare un nuovo e più realistico assetto (“secondo me, io sono oggettivo”, ma non l’ha detto lui) a quelle antiche faccende, il suo obiettivo prioritario sia quello di distruggere la credibilità del Libro, in quanto “testo unico ufficiale” e universalmente accettato. E in qualche caso può pure aver ragione. A tal proposito sarebbe interessante appurare nel dettaglio (ma non è questa la sede più adatta) se esistono versioni della Bibbia differenti e precedenti la riforma di Giosia e/o la cattività di Babilonia. È noto, per esempio, che gli ebrei etiopi (i “falàsha”) non conoscono il Talmùd ma hanno altre tradizioni orali; che i loro testi sacri – Torà compresa – non sono esattamente “ortodossi”; e che alcuni loro riti, celebrazioni e abitudini presentano divergenze rispetto a quanto canonicamente accettato. Questo gruppo (forse 20.000), probabile discendente della tribù di Dan e rimasto isolato dai suoi correligionari fino a non molto tempo fa, è presente forse fin dal VI secolo a.C. in Etiopia, dove si trasferì, o fu trasferito, sicuramente prima della distruzione del Secondo Tempio. Ma, a parte ciò, non credo che sia smantellando la documentazione “di stato” che si ricostruisce la storia vera, che mai è stata fatta solo dai libri canonici e dalle dichiarazioni formali. Liverani, per appoggiare la sua tesi, prende in considerazione anche i profeti più insignificanti – perfino il “trito Isaia” – come fossero depositari di alte verità, ma trascura completamente tutti gli scritti extrabiblici, di significativo valore, secondo me, anche storico, di cui nella letteratura ebraica c’è una fioritura enorme.
Mi riferisco al Talmùd (o “insegnamento”), la “Torà parallela”, approfondimento della Legge che la tradizione fa risalire alla rivelazione sul monte Sinai, ma principalmente al midràsh aggadà (“spiegazione, interpretazione”), esegesi rabbinica del testo biblico essa pure di grande antichità, che utilizzando diversi generi letterari (racconti, parabole, leggende) si propone, esprimendosi con un linguaggio semplice e immediato, come tramite per l’applicazione dei princìpi religiosi e morali alla vita quotidiana: un valido supporto ai fedeli, per aiutarli a destreggiarsi attraverso gli scogli di un codice di comportamento irto di regole rigidamente codificate, spesso cervellotiche. Unitamente a diverse altre manifestazioni dell’inesauribile lavoro di indagine con cui gli israeliti tentano di scoprire il senso più profondo del loro Sacro Libro, entrambe queste forme letterarie, a lungo trasmesse di generazione in generazione solo in forma orale, per motivi dottrinari e teologici non furono comprese, dalle autorità religiose, nell’opus biblico. Non rappresentano quindi la storia pubblica ma piuttosto la tradizione popolare che, sfuggendo ai criteri e al controllo dell’ufficialità, escluderei possa aver subìto quel trattamento di “rilettura interessata”. I midrashìm infatti, che (pur traboccando, questi sì, d’immaginazione e di elementi fantastici) trattano esattamente degli stessi personaggi e degli stessi avvenimenti della Bibbia con le medesime caratteristiche, costituiscono a parer mio una dimostrazione che la storia non è stata manipolata più di tanto; perché chi si sarebbe presa la briga di farlo su leggende?
Credo che il lettore avrà colto l’ironia di una situazione, in cui, mentre di norma il nostro Autore tribola e fatica alquanto per racimolare i pochi ed ermetici frammenti testuali provenienti dalle altre culture minori di quell’area geografica, nel caso di quell’insignificante staterello simile a tutti gli altri, si trova invece di fronte a una pletora di scritti (troppa grazia, sant’Antonio !), accreditati o meno, tra cui non c’è che l’imbarazzo della scelta.
Colpa del fatto che gli ebrei sono non soltanto l’unico popolo totalmente alfabetizzato – per legge – mai esistito, ma sono pure grafomani, e che nessun altro popolo ha mai scritto, come loro, non soltanto tutta la sua storia, ma anche tutte le sue favole. L’incertezza sul dove finisca l’una e incomincino le altre è il rischio che si corre. Ma Liverani, invece di essere contento di tale abbondanza, rifiuta in blocco tutta questa “manna del cielo”.
Mi sembra doveroso tuttavia a questo punto esporre, il più concisamente possibile, il succo del suo lavoro così come è stato concepito.
LA STORIA “NORMALE”
L’Autore descrive la situazione politico-economica della Palestina (come lui continua a denominarla) del Tardo Bronzo, in cui parecchi piccoli “regni” vivono sotto il dominio di potenze straniere. Ma importanti cambiamenti subentrano quando migrazioni di massa, causate da mutamenti climatici (leggi desertificazione), portano i libici del Sahara nella valle del Nilo e dall’altra parte i “popoli del mare” (tra cui i filistei, che si insediano sulla costa sud della Palestina) fino alle soglie dell’Egitto. Ittiti ed egiziani perdono il controllo sul territorio, nel quale all’inizio del XII secolo si consolidano le tribù di quelli che egli chiama “protoisraeliti”.
L'”etnogenesi dei protoisraeliti” vista da Liverani, che tien conto più delle fonti esterne che di quelle tradizionali, a suo parere inattendibili perché tarde, distorte e “inventate”, è tutta particolare. Come egli afferma, “il modello genealogico è chiaramente artificiale”: non è vero che le tribù siano imparentate per discendenza comune, ma a un certo punto “decidono di considerarsi tra loro imparentate” inventandosi un capostipite comune. Sono le famiglie, i clans che, nel tempo, si mettono insieme per costituire le tribù, molte delle quali “si autoidentificano” tardivamente e per motivi politici: come lui dice, sono “sospette”, non gentilizie, o magari neanche mai esistite. “È del tutto improbabile – dice – che già nel XII secolo i gruppi umani avessero un’autoidentificazione etnica” come israeliti, per via di diverse forme della cultura materiale e degli insediamenti.
Concezione particolare, dicevo, perché da quando in qua le tribù, invece di essere filiate da altre, “si formano”? “si autoidentificano”? Soprattutto in un’area geoculturale in cui l’appartenenza ad un gruppo, documentata proprio da una inattaccabile genealogia e dagli onnipresenti patronimici, costituisce l’unica attestazione del diritto di vivere? Anche le 4 madri dei 12 figli di Giacobbe sono “presunte”, “sospette”, “inventate”? E, potrei aggiungere, come mai solo gli ebrei son tenuti a esibire i documenti, la carta d’identità, il certificato di nascita? Quanto alle diverse forme della cultura materiale, sarebbe come dire che la ricetta della torta di mele che faccio io è diversa da quella di mia cognata.
Liverani ammette solo che le tribù avessero in comune le antiche norme del diritto penale e civile, espressione di un’economia agro-pastorale, e del diritto di famiglia tipico di una società contadina chiusa, a base gentilizia – e qui si contraddice -, che compaiono nel Decalogo.
È solamente nel XII e XI secolo che, sviluppando un forte sentimento di unitarietà basato sulla coscienza, “o teoria”, della comune discendenza, sul dio nazionale e sulla chiusura verso l’esterno, le tribù israelitiche si aggregano fra loro, e occupano con modesti villaggi altopiani ed alture (colonizzando pure le meno ambite zone semiaride) nell’interno del paese, dove anche i filistei, in buona parte assimilati ai canaanei, cercan di penetrare partendo dalle loro città della Pentapoli sulla costa. Le guerre per la conquista delle scarse terre coltivabili e delle risorse idriche sono una costante. Infine, comunque, verso il 1000 la “lega delle tribù di Israele” – secondo Liverani mai formalmente esistita -, sotto Saul e poi sotto Davide, si impadronisce, militarmente o meno, delle due città-stato di Sichem a nord e Gerusalemme a sud.
È con Davide, si dice, che i due territori si unificano in un regno di cui Gerusalemme diviene la capitale e dove dall’originaria Ebron viene importato il culto di Yawè. Ma la storia della sua ascesa da modeste origini al trono è “propagandistica e fiabescamente colorita”, e mentre “si può accettare” che Davide abbia trasmesso il regno a Salomone, e “non è escluso” che abbia costruito insediamenti fortificati e un palazzo reale, o che abbia dato vita a un embrione di struttura amministrativa, l’Autore nega invece che quel regno si estendesse a nord di Sichem, o in Galilea, o in Transgiordania, definendolo piuttosto “una modesta formazione politica sotto l’egemonia dei filistei”, che Davide non scalzò mai. La Bibbia darebbe cioè una falsa visione pan-israelitica di quel periodo.
Circa Salomone, poi, Liverani sembra indeciso: forse regnò su un territorio uguale o addirittura minore di quello di Davide, oppure su tutte le tribù dal Neghev all’alta Galilea. Non certo, comunque, “dall’Eufrate al torrente d’Egitto” (e questo pare ragionevole) perché “non vi sono tracce” del suo controllo a nord, né “un supporto di dati concreti”, e neppure sono citate spedizioni vittoriose (forse ormai superflue). Anche le sue imprese commerciali marittime sono “assai sospette” e improbabili, e così pure quelle terrestri, poiché il regno era tagliato fuori dai grandi traffici, e non poteva controllare le strade carovaniere. Per non parlare della categorica, recisa negazione della “incredibile” visita a Salomone della regina di Saba; chissà cosa ne avrebbe pensato Hailè Selassiè, che su quella antica e un po’ boccaccesca faccenda basava (lui sì) la legittimità dell’intera, ininterrotta e trimillenaria ascendenza della sua stirpe, oltre all’asserita presenza in Etiopia dell’Arca dell’Alleanza.
Quanto poi alla celebrata “saggezza” e alla sapienza di Salomone, i Proverbi non sono altro che banali “massime di saggezza spicciola”. Che godesse di quella fama non vuol dire niente, perché ogni sovrano assiro-palestinese diceva di sé stesso di essere giusto, saggio e retto, e “nulla osta a che” Salomone abbia lasciato delle iscrizioni in cui si vantava di quelle virtù, dando origine a tradizioni “arricchite”.
In merito inoltre alla sua attività come costruttore dei palazzi di Meghiddo e Hazor che la Bibbia gli attribuisce, secondo Liverani (e Israel Finkelstein, del quale riparleremo in seguito) essi sono invece di età più tarda, e nemmeno le fortificazioni, e neanche le “stalle” sono opera sua. Sembra insomma che l’archeologia non gli riconosca nessuna costruzione importante; e in quanto al suo palazzo e soprattutto alla sua opera somma, il Tempio di Gerusalemme, l’obiezione viceversa è che nella descrizione biblica essi sono troppo grandi per trovar posto nella piccola “Città di Davide” (da notare che le misure date per il Tempio sono di m 30 x 10 x 15 di altezza). Su Salomone è tutto qui. Ma vorrei far osservare che non si parla affatto delle sue attività industriali, e nella fattispecie dello sfruttamento minerario, documentato senz’ombra di dubbio, dei giacimenti di rame del Sinai, e della ricchezza che ne derivò. Quella ricchezza che permise la costruzione di un Tempio forse non immenso, ma di sicuro così sfarzoso da fare gola ai molti invasori che nel corso del tempo ripetutamente lo saccheggiarono, ultimi i romani. L’Autore, come vedremo più avanti, ascrive quella realizzazione, “di grande pregio e attrazione”, a un qualche re successivo (nessuno dei quali però maneggiò tanto denaro quanto Salomone, né tanto riuscì a spremerne al popolo per quella sua ambizione: N.d.A.). Il Tempio – egli afferma – fu fatto risalire a Salomone dalla tradizione posteriore. In conclusione, secondo questa tesi estremamente riduttiva, non solo Salomone non costruì praticamente nulla di notevole, né lui o Davide furono re particolarmente importanti, ma – come Liverani tiene a sottolineare – l’esistenza stessa del regno unito di Israele-Giuda è “presunta”, basata su riletture anacronistiche e “deformate” e su interventi testuali tardi, celebrativi, imperialistici. Mancano però “attendibili” fonti scritte, come egli stesso, negando qualsiasi affidabilità ai libri “storici” dell’Antico Testamento, ammette.
Ad ogni modo, anche nel caso che quel “presunto” regno sia esistito, non durò a lungo. Nel 930, con la morte di Salomone, si sfascia dividendosi in due: Israele e Giuda.
Il regno del centro-nord, Israele, con capitale Sichem e più tardi Samaria, più popoloso, prospero e progredito, prevale su quello di Giuda e, pur essendo vassallo del vicino Aram, gode di un notevole benessere per un secolo e mezzo. Vi domina il pluralismo religioso fino circa all’850, quando Yawè diviene dio “nazionale”.
Il regno di Giuda, a sud, dove il culto di Yawè si impone dal 900, è spesso percorso e depredato da egiziani, israeliani, aramei. Gerusalemme, la capitale, nel X secolo è piccola, modesta e murata (ma allora perché, dico io, se era così irrilevante, tutti volevano conquistarla?), e comunque le tracce urbanistico-architettoniche dei suoi monumenti sono irrecuperabili.
Entrambi i regni vengono attaccati dagli assiri, che nel 721 prendono Samaria ponendo fine a quello d’Israele e deportandone la popolazione, mentre Giuda, pur costretto a pagare tributo e soggetto alle deportazioni, resiste. In seguito anche alla riforma religiosa di Ezechia re di Giuda per distruggere i culti diversi, lo “yawismo” diventa, per reazione, sempre più definito ed esclusivo, dando forza a un rinnovato senso di identità etnico-politica contro le invasioni straniere, viste come punizione divina per l’infedeltà al Patto con Yawè. Secondo Liverani, questa idea fu applicata allora dai giudei a Yawè “facendo risalire” il Patto al tempo di Davide, “se non di Mosè”.
Verso il 640 inizia ad espandersi l’impero babilonese, a spese di quello assiro infine sconfitto nel 614.
Nel regno di Giuda così “liberato” dagli assiri, in un momento politicamente ed economicamente favorevole, re Giosia, forse meditando di ampliare i suoi confini a tutto il territorio abitato dai fedeli di Yawè, nel 622 “ritrova” (o finge di ritrovare, come in parecchi credono) l’antico Libro della Legge, “espediente” per avallare una riforma innovativa.
Con questa, si ribadisce l’obbligo di fedeltà al Patto di Mosè con Yawè, Unico Dio e salvatore di Israele a cui ha concesso Canaan, che deve essere conquistata con la guerra santa; base del Patto sono le Tavole della Legge e deve esserci un solo Tempio.
In quel Tempio infatti Giosia fa importanti lavori di restauro, “attribuiti” poi a Salomone, ed elimina luoghi e culti idolatri. A lui si devono poi – dice Liverani – il modello di un’unità etnica e statale di Israele e Giuda mai tentata prima e la traccia della “ricostruzione storica retroattiva”, della falsa storia, che ne spiega fortune e disfatte con la fedeltà o il tradimento di Yawè. Inizierebbe dunque qui, con il Codice Deuteronomico e con quella che l’Autore chiama “storiografia deuteronomistica”, quella manipolazione delle narrazioni – continuata e perfezionata in seguito, durante e dopo la “cattività babilonese” – che coinvolge tutti gli episodi, fin anche i più antichi, delle vicende ebraiche.
“Deuteronomistica” ad esempio – così asserisce Liverani – fu l’idea di collegare agli avvenimenti dell’esodo la celebrazione della Pasqua, “che doveva essere una vecchia festività” di transumanza pastorale. E così quella di “retrodatare” il Patto a Mosè, preso a modello (insieme a Giosuè, Davide e Salomone) come Padre della Patria. Ma la morte di Giosia nel 609 fa sfumare sia la riforma che ogni possibilità di unificazione d’Israele.
Il vuoto di potere lasciato dagli assiri viene colmato dai babilonesi, i quali nel 598 assediano e conquistano Gerusalemme; depredano i tesori e deportano il re con 10.000 notabili, mettendo sul trono un re-travicello che dopo 9 anni di vassallaggio si ribella, causando un nuovo assedio della città, che cade definitivamente nel 587. Gerusalemme è incendiata, le mura atterrate, gli abitanti deportati tranne i contadini. Quasi tutte le altre città sono distrutte. Poco dopo, quando il governatore babilonese viene ucciso, tutti i superstiti fuggono in Egitto.
Ha termine così anche il regno di Giuda.
E questo, secondo quanto afferma Liverani, è quanto accadde nella storia “normale”.
LA STORIA “INVENTATA”
Ma, proseguendo nella cronologia, l’Autore ci espone gli eventi che seguirono la caduta di Israele e di Giuda. Avvenuti non tanto in quei territori, vittime di un totale tracollo demografico e culturale (soltanto pochi contadini poveri e ignoranti vi erano rimasti), dove negli spazi vuoti presto si installarono – senza diritti – edomiti, fenici e altri intrusi stranieri, quanto fra i prigionieri di guerra deportati. Per motivi diversi, mentre la deportazione assira aveva cancellato l’identità nazionale delle “10 tribù” provenienti dal regno d’Israele, assorbite dalle altre etnie, quella babilonese strinse viceversa forti legami fra i giudei esuli appunto in Babilonia, i quali si compattarono attorno all’idea – con l’aiuto di Yawè – del riscatto e del ritorno. Come in effetti, a 50 anni di distanza, accadde.
Nel 538 Ciro re di Persia, che l’anno prima aveva sconfitto e conquistato Babilonia, venne “incaricato da Dio” di ricostruire il Tempio e di liberare gli ebrei a suo tempo deportati dai babilonesi. L’editto che sancisce quella decisione è dello stesso anno (ma Liverani pensa che si tratti di un falso).
A partire da quell’anno e fino al 445 tornarono dunque, in maggioranza a Gerusalemme, circa 50.000 persone, per lo più nobili e sacerdoti; di loro Liverani dice che erano abbienti, forti e decisi, e addirittura che avevano una struttura paramilitare: cosa quanto meno strana, per dei deportati (gli ebrei oppressi in Egitto certo non l’avevano avuta), dei quali anzi in un altro punto dichiara che erano controllati dalle guardie reali. Mentre Esdra racconta nel suo Libro di aver bandito un digiuno espiatorio prima di intraprendere il viaggio di ritorno, perché “aveva avuto vergogna di chiedere al re una scorta armata” che li difendesse “dal nemico e dal predone”.
Non rientrarono tutti, e molti scelsero invece di rimanere in Babilonia nelle varie località dove si erano stanziati. Di quelli che rimpatriarono, l’Autore sostiene che dovevano dimostrare il proprio titolo di possesso delle terre da tempo abbandonate e finite in mano ai “rimasti” o ad estranei: proprietà concesse ai loro antenati in virtù del Patto stipulato con Yawè. Per tale motivo, egli afferma, si inventarono la propria ascendenza risalendo fino ai Patriarchi – i personaggi di altre etnie sono “fittizi” o “sospetti” – insieme al concetto-base della promessa divina di aiutarli a conquistare una terra occupata da altri (il quadro che ne emerge è comunque indicativo di una patologica carenza di “terre da seme” e di acqua).
Il Deuteronomio, e comunque i redattori del Pentateuco “cui si deve la stesura delle saghe patriarcali”, insomma avrebbero “costruito” per intero, tardivamente e traendole da fonti di origine palestinese, le antiche genealogie, quelle di Abramo, Isacco e Giacobbe, pastori nomadi nella Palestina centrale fin dal XIII secolo, e la storia di Giuseppe, “novellistica di intrattenimento” post-esilica che ha diversi paralleli nelle favole persiane.
I reduci applicarono – la Bibbia lo racconta – una specie di “apartheid” nei confronti dei rimasti e dei forestieri; ma non risulta in alcun modo che vi siano stati conflitti né tanto meno scontri armati. Ché anzi durante il viaggio non furono attaccati da alcun nemico e si reinsediarono “in tutte le città di Giuda, ognuno nella sua proprietà”. Se di quegli scontri “abbastanza paradossalmente, non abbiamo notizie”, come dice Liverani, significa forse che non ve ne furono, e che la legittimità delle loro rivendicazioni non veniva messa in discussione. Ma di quella da lui asserita ostilità egli ha bisogno per giustificare un’altra sua congettura, cioè che pure la conquista di Canaan sia stata “inventata” per motivi propagandistici.
Prima di parlare della conquista di Giosuè, però, per rimettere al loro posto anche altri mitici eventi del passato, Liverani provvede a demolire le più antiche, venerate e intramontabili leggende, riconducendole alle loro origini.
Come quella del Giardino dell’Eden, che sarebbe il giardino del re, con piante ed animali ornamentali e rari. L’altro termine, “paradiso” (giardino cintato), è persiano, l’uso di raccogliere piante esotiche in orti botanici è egiziano e poi assiro. È questo il primo episodio della ricorrente vicenda di trasgressione e punizione, ma pure della vana ricerca umana dell’immortalità (da parte di Adamo, di Adapa, di Gilgamesh), leggenda babilonese.
Anche quello del Diluvio “universale” è un caso evidente di derivazione letteraria, perché (come tutti da tempo sanno) ci sono troppe e troppo precise concordanze con le leggende della Mesopotamia, cui corrisponde il piatto paesaggio descritto, che non è quello collinare palestinese; si tratta, come testimonia l’archeologia, secondo Liverani, del fenomeno ricorrente di esondazioni stagionali dei grandi fiumi dell’area, poi assurto ad archetipo mitico, non della memoria di un evento estremo e reale in tempi preistorici. Il suo inserimento nella tradizione d’Israele è dovuto all’insegnamento “morale” che ne deriva, altro esempio della “punizione divina contro l’umana violenza”. Liverani insomma riduce tutto a una banale piena fluviale (che comunque un abitante della Palestina nemmeno avrebbe potuto immaginare), cosa che non spiega né la presenza di imponenti depositi alluvionali in tutt’altre zone né tantomeno l’esistenza, in ogni parte del mondo, di più di 500 versioni di quella vecchia storia, raccolte da J.G. Frazer ne “Il ramo d’oro” (a parte il fatto che non si capisce come mai, nella vittoriosa Babilonia, gli esuli avessero trovato “un sistema di canalizzazione in dissesto”, “antiche città in rovina”, “un mondo desolato da ricostruire”). La Torre di Babele è essa pure una fola, un racconto della seconda metà del VI secolo: la pluralità di lingue dei deportati (ebrei, aramei, anatolici, iraniani) era reale, mentre nel perfetto mondo originario la lingua doveva essere una sola, e il rudere di una ziggurat poté sembrare agli ebrei una torre “incompiuta”.
La Tavola delle nazioni, come elencate in Genesi 10, dati i nomi che vi compaiono è del 600-550. Non vi risultano né Israele né Giuda, ma solo il grande sistema delle “generazioni” che risalgono, tramite Noè, fino ad Adamo, e connettono fra loro tribù e popoli. Di tali opere storico-genealogiche, di influenza babilonese, vi sono anche esempi greci, e in Egitto e Babilonia le liste dei re e la ricerca degli antenati mitici sono usuali.
A parte il fugace accenno alla leggenda di Giuseppe, comunque, dell’oppressione in Egitto (che fu certamente una realtà, dato che i nomi di schiavi ebrei sono ben documentati) e di Mosè – il quale, afferma, “non è mai citato prima dell’età post-esilica” – Liverani non dice una parola. E neppure, giudiziosamente, affronta il discorso sulla fuga attraverso il mare e sulla “teofania” al monte Sinai, o sulla faccenda del vitello d’oro, per non dire del momento culminante di quell’epopea, e cioè la consegna a Mosè ed al popolo delle Tavole della Legge, lasciando che sia qualcun altro a cercare di capirne il senso (come molti, me compresa, hanno fatto). Si limita a dire che “nelle formulazioni dell’VIII secolo il motivo della venuta dall’Egitto era già abbastanza affermato, ma soprattutto come metafora di liberazione dal dominio straniero” e affrancamento politico e non già come spostamento fisico; e, in poche parole, che “quel trasferimento mai ebbe luogo” (ma è un dato di fatto che la città di Avaris, nell’enclave ebraica di Gosen, fu abbandonata in massa, anche se gli egiziani non ne sono fieri e non ne parlano). A quanto pare, in base a quanto sopra citato, Liverani è convinto (ma non è il solo) che l’esodo biblico non fu un episodio singolo né epico, ma che avvenne in tempi diversi e per piccoli gruppi, magari alla spicciolata, con modalità più simili a un’infiltrazione che a una conquista. Io penso però che se non fossero stati in molti non sarebbero riusciti, contro la volontà del governo, a lasciare il paese, del quale costituivano un’importante forza-lavoro, e che se non fossero stati organizzati e uniti mai avrebbero conquistato Canaan.
Ma secondo l’Autore l'”artificiosa e complicata” composizione dell’Esodo (percorso e luoghi), che sarebbe assai tarda, di età post-esilica, aveva uno scopo ben preciso; vale a dire che nel VI-V secolo “tutta la vicenda dell’esodo e della conquista venne rielaborata in funzione della vicenda allora attuale della deportazione babilonese e del ritorno degli esuli, in funzione dunque di un ‘nuovo esodo’che fosse prefigurato da quello mitico ” (questo però potrebbe aver senso se s’intendeva, tingendo artatamente di eroismo gli antichi fatti, esortare gli indecisi esuli – mentre ancora erano tali – a replicarli, cioè se quella “rielaborazione” fosse stata ideata in età esilica; mentre invece non ne avrebbe alcuno se lo fosse stata in seguito, a rientro avvenuto, poiché non solo non ci fu una “fuga” – visto che avevano lasciato Babilonia con tanto di autorizzazione – ma che neppure incontrarono una tenace resistenza degli “indigeni” simile a quella descritta nel Libro di Giosuè).
Con un ciclopico lavoro di fantasia, i redattori avrebbero anche arricchito il racconto di particolari, come quelli delle difficoltà incontrate dalla spedizione dell’esodo – episodi di sedizione e di disfattismo -, che in realtà indicherebbero i dubbi sull’opportunità di lasciare Babilonia, non l’Egitto (laddove, a dire il vero, e in maniera piuttosto inquietante, le tradizioni popolari raccolte nei midrashìm dicono che fu solo una minoranza a partire dall’Egitto e che “Dio” ammazzò “nottetempo” molti che non volevano farlo). La descrizione delle peregrinazioni nel deserto, poi, fatta da chi non ne aveva alcuna esperienza e le considerava assai dure (mentre nel deserto, dice Liverani, “le tribù vivono a loro agio”, ma è tutta una questione di numeri), utilizzò spezzoni noti di itinerari commerciali o di pellegrinaggi (dove?). Mentre l’organizzazione “militare” dell’esodo non avrebbe a che fare con le trasmigrazioni pastorali (e perché dovrebbe?), bensì con gli spostamenti dei deportati e dei reduci sotto scorta armata dei babilonesi.
A ogni modo dice Liverani che alcuni gruppi concepirono anche questo ritorno come impresa paramilitare, e che il redattore, del filone deuteronomista, “decise di raccontare la conquista-modello” in chiave di unitarietà bellica delle 12 tribù (anche se i reduci erano invece soltanto le tribù di Beniamino e di Giuda, e non tutte 12) contro i locali (anche se i locali erano per lo più mezzi parenti, e non stranieri). La storia della conquista e il personaggio di Giosuè avrebbero in sostanza rappresentato solo “il modello” epico e mitico di come il rientro da Babilonia sarebbe dovuto avvenire, e pertanto non è attendibile. Solo che il rientro si svolse in pratica pacificamente e i reduci non dovettero combattere per la terra (e allora che “modello” è?). Magari c’era anche un suggerimento, neanche troppo velato, a imitare Giosuè che – così si legge – in guerra fece sterminii, rimpiazzando con gli ebrei le popolazioni sconfitte: e questa, dice l’Autore, è un’idea che non solo “non può essere stata concepita prima delle deportazioni imperiali” (a me però risulta tutt’altro) ma è proprio un’utopia, un progetto che comunque non ci fu l’occasione di mettere in pratica.
Ci si inventò quindi la conquista, afferma Liverani, ai danni però di popoli “dai nomi in gran parte fittizi, popoli mai esistiti”, poiché le liste delle presunte genti pre-israelitiche citate nella Scrittura come annientate dagli ebrei sono costruite “con elucubrazioni completamente artificiose”, e niente hanno a che vedere con la realtà storica contemporanea al rientro, e neppure con quella pregressa. Se la Bibbia dichiara che quei popoli furono distrutti, mente: quelli che non risultano non ci sono mai stati, sono soltanto nomi di fantasia che gli ebrei citano per vantarsi delle loro immaginarie vittorie su quegli altrettanto immaginari popoli-fantasma, assai opportunamente spariti per far loro posto. Quelli “veri” invece, che erano sempre stati i più forti (filistei, fenici, edomiti, moabiti e ammoniti) rimasero, anche nel V secolo, non eliminati né da Giosuè né in seguito. E poi nel XIII secolo in quella regione c’eran stati effettivamente solo i canaanei, nessun’altra etnia nota. Pure i famosi refaìm e anaqìm sono “giganti” leggendari, che gli ebrei ipotizzarono per via delle loro tombe megalitiche (e basta andare a misurare lo scheletro di oltre due metri che sta al Museo Archeologico di Gerusalemme per rendersi conto dell’abbaglio).
Questo è il pensiero di Mario Liverani.
A tutto ciò potremmo obiettare che si trattava probabilmente di piccoli gruppi locali, e pure che spesso un’etnia vien chiamata con nomi diversi dai diversi popoli (per un russo la Cina è tuttora il “Kitài”, e per un ebreo l’Egitto è ancora “Mizràim”); come anche che càpita, a volte, che la gente cambi nome (che è quanto accadde con gli edomiti, che sono la risultante della fusione di un gruppo hurrita con quello ebraico di Edòm, appunto, che era il soprannome – il “Rosso” – di Esaù, quello delle lenticchie). Ma preferisco, con un’osservazione di carattere più generale, far notare che nelle ricerche archeologiche e dei testi scritti come in questo caso, ma anche in quelle paletnologiche e praticamente in tutte, è imprudente asserire che quanto non si trova non esiste. È più o meno come un test di gravidanza: se ti dicono che il bambino c’è, vuol dire che c’è; se ti dicono che non l’hanno trovato, non è detto che non ci sia.
A parte ciò, la Palestina era anche piena di tell (è il singolare, e io non sapevo che significasse “rovina”; ma non lo sapeva, evidentemente, neanche chi diede il nome a Tel Aviv intendendo, credo, “Collina della Primavera”), di ruderi di città di quei “fantomatici” popoli estinti, che la Bibbia vuole distrutte da Giosuè, prima tra esse Gerico; che però – dice Liverani – era molto più antica di Giosuè, e che all’epoca sua era già stata abbandonata da tempo (ma come facciamo a stabilirlo se non sappiamo quale era di preciso quell'”epoca sua”? la datazione dell’esodo “verso il 1200” è solo un’opinione come un’altra, la mia ad esempio è diversa). Gli ebrei spiegarono – dice – quei mucchi di pietre, “che stanno ancora lì ai giorni nostri”, come testimonianze di fatti mitici della conquista archetipica e dunque giustificazione di quella storica, che però non ci fu. Pure “le stesse modalità dell’espugnazione appartengono chiaramente al genere della saga leggendaria e non conservano alcuna memoria propriamente storica” (ma anche altre mura furono abbattute così, bruciandone i sostegni delle fondamenta).
Sono invece realistiche le descrizioni di terre e confini delle tribù, che tuttavia non sarebbero originarie, bensì risalgono a “un qualche regno” (Salomone, o meglio Giosia). E comunque, nel suo complesso la storia della conquista è “un costrutto artificioso” pieno di contraddizioni, così come la distribuzione a sorteggio dei territori, che “prefigura” quella agli ex deportati (e io mi chiedo perché mai si dovessero assegnare terre ai reduci, se tornavano a casa loro e nelle loro proprietà, in parte – oltretutto – dopo soli 50 anni; a meno che oggetto del contendere non fossero i possedimenti degli ebrei rimasti a Babilonia).
Come che sia, una volta ritornati in patria, ai giudei si prospettavano tre differenti ipotesi di forma di governo: 1) i giudici; 2) un re; 3) la città-tempio. Dal termine dell’esilio fino al 515 (data della rifondazione del Tempio) furono guidati in effetti solamente da giudici e anziani, e anche quella soluzione fu retrodatata, dallo storiografo deuteronomista, all’epoca fra la conquista e la monarchia, con 12 giudici con funzioni di capi militari, mandati occasionalmente da Dio a salvare il popolo da varie “oppressioni”. Le saghe che ne trattano sono leggendarie e fiabesche, ma è tutto quel che c’è, poiché le memorie degli avvenimenti pre-monarchici sono assai scarse e prive di riferimenti storici. Anche la “lega delle 12 tribù” formalmente intesa, dice l’Autore, non funzionò mai: è un espediente storiografico del VI secolo, ideato per affermare l’unitarietà passata delle tribù (alcune delle quali scomparvero), che si radunavano invece in alcuni luoghi specifici soltanto raramente, per decidere insieme azioni comuni in momenti di crisi politica o per motivi religiosi. Non abbiamo quindi alcuna informazione, o idea, di come si governasse il popolo ebraico in quel periodo, del quale il redattore, filomonarchico, ripete con tono di biasimo che “non c’era allora un re in Israele, e ognuno faceva quel che gli pareva”.
E in realtà nel VI secolo una parte dei reduci sperava, per far risorgere il paese dalle rovine, di darsi un re (anche se vassallo dell’impero) con maggior controllo da parte del popolo. Ma un altro partito, antimonarchico, voleva invece affidare il paese alla guida di Dio (ossia a sacerdoti e profeti), superiore a qualunque re: infatti erano stati delusi da Saul, e fu solo per la “virtù” di Davide, il quale aveva stretto un rinnovato patto con Yawè, che in effetti iniziò la regalità, fondata sulla giustizia ma anzitutto sulla pietas. Sono le infedeltà dei re a Dio, come è noto, a provocare il degrado del regno e la sua divisione. In tale ottica “si immaginò o si postulò”, da parte degli storiografi filomonarchici da Giosia in poi, che sotto Davide e Salomone il regno fosse stato grande e unito attorno al Tempio, ma in realtà, dice Liverani, quel regno era stato piccolo e la sua capitale modestissima. I confini utopici, non-realistici, del “presunto impero davidico-salomonico” (dall’Eufrate al torrente d’Egitto, il wadi el-Arish) non sono storici, ma corrispondono invece a quelli della satrapia persiana dell'”oltre Eufrate”. Le limitate guerre di Davide contro piccoli regni “possono essere state ampliate”, le grandi costruzioni “possono esser state attribuite ai re più prestigiosi” (ma allora, se li giudica così insignificanti, perché erano prestigiosi?). Il regno-modello unito delle 12 tribù è una favola inventata. E le storie infamanti – come quella di re Davide che manda a morte Uria per prendergli la moglie, e che la Bibbia condanna piuttosto blandamente – poiché non si vede per quali canali possano esser state tramandate, e quindi devono essere state inventate in seguito, non possono far parte (“se non per eccesso di acritica credulità”) della “ricostruzione storica realistica” del X secolo e di quella dinastia, finita comunque, dopo lotte e discontinuità della successione legittima, verso l’840.
Il sogno utopistico (e retroattivo) di una monarchia unita e indipendente fu tuttavia battuto dalla più realistica tesi di un “regno di Dio”, con ruolo guida dei sacerdoti nella città-tempio, che svolgeva anche tutta una serie di attività economico-politiche di origine e ispirazione palestinese, o meglio babilonese, anzi sumera. C’erano sì alcuni templi alternativi, come quello di Samaria ed altri, ma l’unico “vero” Tempio era quello di Gerusalemme. La Bibbia però parlando (oltre che del palazzo reale, “in realtà il progetto di un palazzo in stile persiano del VI-V secolo”) della sua prima edificazione, non descrive tuttavia – dice sempre Liverani – il Tempio di Salomone, bensì quello, successivo, “rifondato probabilmente da Giosia”.
Egli ha in effetti la curiosa opinione, nonostante il Libro parli chiaramente di “consolidamento e restauro” dei “locali che i re di Giuda avevano lasciato andare in rovina” e dell’Arca dell’Alleanza fatta ricollocare da Giosia “nel tempio costruito da Salomone”, che l’intera opera, così come illustrata con tanta minuziosità nel Libro dei Re, sia da attribuirsi appunto a quel re riformatore. Opinione da me non condivisa prevalentemente, ma non soltanto, per motivi economici poiché (come lui stesso direbbe) “non risulta”, e l’ho già ho fatto notare, che Giosia potesse disporre di tanto denaro quanto Davide, con alle spalle molte vittorie militari, poté fornirne al figlio. A meno naturalmente di ritenere completamente falsa anche la quantificazione delle spese sostenute.
Secondo l’Autore, comunque, la descrizione del Primo Tempio e del palazzo di Salomone è “inventata” anzitutto perché, come sopra accennato, quegli edifici, troppo grandi, occuperebbero tutta la Città di Davide. La struttura del Tempio concorda con quella di altri, siro-palestinesi, però i cortili interno ed esterno sono neo-babilonesi. Decorazioni e arredi parrebbero dell’Età del Ferro, ma “le dimensioni sembrano sospette”, e colonne e capitelli assomigliano a quelli di età persiana. “Non c’è ragione di dubitare – concede Liverani – che Salomone avesse costruito un tempio di Yawè” che fu danneggiato e restaurato più volte e poi semidistrutto; ma probabilmente, dice, era fatto soltanto di mattoni crudi, non tutto pietra e legno e di dimensioni così “potenziate” come quello immaginato più tardi dagli esuli.
Sta di fatto, in ogni caso, che nel IV secolo la classe sacerdotale, cui quel Tempio (certamente ben più povero di quello di Giosia, o di Salomone che fosse) non bastava, prese il potere pure della città di Gerusalemme, in qualità di unica legittima interprete della Legge.
Anche quella Legge però, il principale documento di auto-identificazione del popolo ebraico, è da considerarsi, dice ancora Liverani, “inventata”.
Per cominciare, il Patto stipulato fra Dio e il re (su modello del “patto di fedeltà” assiro) o – in assenza del re – il popolo, è “storicamente accertato” solo a partire da quello di Giosia, mentre tutti i precedenti da Abramo in giù sono soltanto “immaginati”. Poi, si può forse ammettere che i semplici principi-base del Decalogo, non databili (tranne il primo comandamento, non anteriore a Giosia), fossero stati dati, come regolamentazione delle norme di convivenza, da Mosè, o magari dall’assemblea di Sichem (e in questo secondo caso vorrebbe dire che per tutti quei “40 anni”, quando più era necessario, vissero privi di qualsiasi strumento di controllo). Ma tutto il resto della Torà, il corpus di leggi miticamente attribuito alla figura fiabesca e “piuttosto artificiosa” di Mosè, è invece “tardo”, post-esilico, oltre ad essere – come chiunque può constatare – vario, disorganico e incoerente. Con esso alcune feste agrarie furono trasformate in commemorazioni legate all’esodo, ma la maggioranza è costituita da leggi rituali di santità e di purità, alimentare o meno, intese sostanzialmente a contrastare ogni contaminazione, da quelle responsabili di contagi infettivi alle mescolanze razziali rappresentate dai matrimoni misti, che possono mettere a rischio l’identità dell’etnia (affidata inoltre ad aspetti particolari del culto come la circoncisione e l’osservanza del sabato).
Tramite l’isolazionismo e l’esclusione – benché teorica e spesso parziale – degli estranei idolatri, con la gelosa conservazione delle proprie peculiari caratteristiche, e soprattutto con la rigida osservanza della Legge, i reduci dalla “cattività” di Babilonia tentavano, forse anche mentendo a se stessi sul proprio passato, di creare una nuova coesione tra la dispersa schiatta d’Israele e di ricostituire una nazione.
 
 
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Ciò a Liverani dà molto fastidio. E non solo a lui, a quanto pare. La sua ricerca infatti, oltre a essere piuttosto deprimente come tutte le opere distruttive, non è neanche originale, poiché ricalca praticamente le posizioni di un altro lavoro, uscito in Italia nel 2002, di cui qui di seguito darò un riassunto, elaborato (io non l’ho letto) sulla scorta di una mezza dozzina di recensioni pubblicate da quotidiani e periodici.
Israel Finkelstein-Neil Asher Silberman – “Le tracce di Mosè-La Bibbia tra storia e mito” (Carocci)
Gli autori sono ambedue al di sopra di ogni sospetto. Israel Finkelstein è, infatti, Direttore del Nadler Institute of Archaeology dell’Università di Tel Aviv e condirettore degli scavi di Tel Meghiddo, uno dei più importanti siti di archeologia biblica in Israele; Neil A. Silberman è Direttore dell’Ename Center for Public Archaeology in Belgio. Due scienziati, quindi, molto accreditati nella comunità scientifica mondiale, che smantellano pezzo per pezzo, alla luce delle nuove scoperte archeologiche nei luoghi sacri, gran parte della storia raccontata dalla Bibbia, e illustrano i risultati di decenni di scavi in Israele, in Egitto, in Libano ed in Siria, e il loro significato per la nostra comprensione dell’Antico Testamento.
L’obiettivo dei due autori è quello di “verificare” la storicità dei racconti dell’Antico Testamento e di utilizzare le scoperte archeologiche per ragionare sul quando e sul perché sia stata scritta la Bibbia, cercando di separare la storia dalla leggenda. D’altra parte, la Bibbia è talmente piena di contraddizioni e di discrepanze storiche e narrative che l’attuale ricerca archeologica non ha potuto che confermare quanto i biblisti già sospettavano.
Scopriamo, così, che è molto improbabile che la Genesi si sia svolta in Palestina; che il diluvio universale forse fu soltanto una piena del Tigri e dell’Eufrate e che Noè non è mai esistito; che la nascita del monoteismo non può essere fatta risalire all’epoca di Abramo; che non ci sono prove storiche sufficienti delle peregrinazioni dei patriarchi, né della fuga dall’Egitto, né della conquista di Canaan; che il crollo delle mura di Gerico è solo una fantasia, e che la vera conquista israelita si compì quando una moltitudine di contadini canaanei, senza invasioni o migrazioni, si ribellò ai propri padroni e divenne “israelita”; e infine che non è stata trovata alcuna prova archeologica che confermi le grandiose descrizioni bibliche dell’impero di Davide e Salomone. Stando ai recenti ritrovamenti archeologici, scrivono i due scienziati, la Bibbia – in particolare i libri che vanno da Genesi a 2 Re – fu un prodotto geniale dell’immaginazione umana. “Essa fu concepita nell’arco di due o tre generazioni, circa 2600 anni fa (nel settimo secolo a. C., a distanza di centinaia di anni dagli eventi narrati), nel regno di Giuda”.
Israel Finkelstein e Neil Silberman “non hanno alcun dubbio sulla non autenticità dei grandi racconti fondatori. Per loro, la Bibbia è una geniale ricostruzione letteraria e politica di tutta la storia del popolo ebraico, che corrisponde all’emergenza del regno di Giuda”. Questa “ricostruzione”, che è una manipolazione della Bibbia, avviene sotto il regno di Giosia (640- 609 a.C.), re di Giuda. Giosia avviò una totale riforma religiosa e politica nel tentativo di riunificare le due frazioni dell’etnia, quella del sud (Regno di Giuda) e quella del nord (Regno d’Israele) perché non ci fosse che un solo popolo (ebreo), un solo re (presumibilmente lui stesso), un solo Dio (Yawè), una sola capitale (Gerusalemme) e un solo Tempio (quello di Salomone). Era necessario per arrivare a questo scopo fare violenza al territorio del nord, e fare violenza anche allo stesso contenuto del Libro della Legge, facendogli dire ciò che conveniva al piano espansionista di Giosia: creando cioè un testo immaginario e mitico che potesse fornire una giustificazione ideologica alla riforma di Giosia e determinasse “un punto fermo spirituale” perché si potesse contare su uno scritto di natura religiosa “ancorato” alla generazione mitica di Davide e Salomone. Ossia bisognava motivare il popolo religiosamente, far apparire ai suoi occhi lo “splendore” passato da recuperare, un “impero salomonico” da ristabilire, una indipendenza e una egemonia territoriale. Tutto questo in nome di Yawè e per la gloria divina tramite “il suo popolo eletto”.
Per giustificare tali ambizioni fu annunciato il “ritrovamento”, fittizio, del Libro della Legge: in esso, oltre a “inventarsi” le antiche glorie, gli scribi fecero dire a Dio anche ciò che non aveva mai detto riguardo i sacrifici e le offerte dovute ai sacerdoti, profittando dell’occasione per introdurre nel Libro della Legge quanto era materialmente loro favorevole.
Gli autori, andando a “ricostruire la storia come ce la rivelano le scoperte archeologiche, che rimangono l’unica fonte a non avere subìto né purga né rimaneggiamento, né le censure esercitate da numerose generazioni di scribi biblici”, “propongono una rivoluzionaria chiave d’interpretazione della Sacra Scrittura” e dei suoi “racconti leggendari, amplificati, abbelliti” per servire il progetto di Giosia. Ma pure un altro professore di archeologia dell’Università di Tel Aviv, Zeev Herzog, aveva già scoperto che “non esiste una tesi scientifica che provi la realtà di questa uscita dall’Egitto, di questi lunghi anni di erranza nel deserto e della conquista della Terra Promessa”. La conclusione dei due autori è che “i siti menzionati nell’Esodo sono veramente esistiti. Alcuni erano conosciuti e furono apparentemente occupati, ma molto dopo il presunto tempo dell’esodo, molto dopo l’emergenza del regno di Giuda, quando i testi del racconto biblico furono composti per la prima volta”.
Come si può notare, la differenza principale fra i due lavori consiste nel fatto che Liverani attribuisce gran parte di quelle “invenzioni” all’epoca esilica e post-esilica, oltre che a quella di Giosia, mentre Finkelstein e Silberman le collocano esclusivamente in quest’ultima. Per il resto le “negazioni” e la demolizione sono suppergiù le stesse.
Una delle obiezioni mosse a Finkelstein e Silberman è che un’eccessiva attenzione alla dimensione archeologica li porta a trascurare una vera analisi dei testi biblici, e non c’è niente di strano, dato che la loro specializzazione è quella (mentre Liverani è più “letterario”). Ma la critica principale è un’altra: infatti gli autori del libro, insieme ad altri ricercatori, fanno parte “dei revisionisti accusati di fornire argomenti ai palestinesi” dimostrando attraverso l’archeologia e la critica storica che la Gerusalemme dei Re era, all’epoca di Davide e di Salomone, solo un piccolo villaggio di nessun interesse.
E qui ti volevo, perché il filo conduttore di ambedue le opere è proprio quello.
Nonché curarsi di prendere imparzialmente le distanze da situazioni che a voler ben vedere sono tuttora attuali, entrambe “ridimensionano” pesantemente non solo l’importanza presunta di quello “staterello”, ma addirittura ne metton quasi in forse l’esistenza, smentite tuttavia proprio da quegli stessi ritrovamenti archeologici invocati dagli autori a sostegno della propria tesi. Come sopra accennato, senza occuparci qui del riscoperto “tunnel di Siloe'”, citerò un episodio che, se da un lato entusiasma grandemente archeologi e storici, potrebbe dall’altro esser fonte di contrasti politici e razziali fra ebrei e islamici ancor più aspri, se possibile, di quanto già non siano.
Si tratta di questo. Verso la metà del 2002 è stata rinvenuta a Gerusalemme una tavoletta di pietra, incisa in una grafia ebraica corrispondente al periodo, con la quale Ioas (re di Giuda dall’835 al 796 a.C. circa) ordinava ai sacerdoti di prendere “il denaro sacro per comprare pietre grezze, legname e rame rosso, e per pagare gli operai per terminare il lavoro con la fede”. Che Ioas – uno dei pochi re che fecero “ciò che è retto agli occhi del Signore” – avesse fatto fare riparazioni al Tempio, già lo sapevamo da un brano piuttosto consistente del Secondo Libro dei Re (12, 5-17), in cui si dice appunto che quel sovrano fece riservare parte delle pubbliche offerte al Tempio, spontanee o dovute per legge, per le opere necessarie (è la prima menzione di restauri fatti al Tempio dopo la sua costruzione), aggiungendo che non veniva chiesto “alcun rendiconto agli uomini ai quali era versato il denaro per pagare i lavoratori, perché essi agivano con onestà”. La tavoletta in questione costituirebbe dunque la conferma storica che quei lavori furono eseguiti, che Ioas è davvero esistito, e soprattutto che a quell’epoca il Tempio necessitava di ripristini, essendo in piedi già da più di un secolo.
Tutte cose che i musulmani negano invece ostinatamente, affermando che prima delle loro moschee sulla Spianata non c’era, e non c’è mai stato niente, e che mai Gerusalemme è stata capitale di un “presunto” stato ebraico. È chiaro quindi il motivo per cui si oppongono violentemente al riconoscimento dell’autenticità di quell’imbarazzante reperto, che implicherebbe necessariamente anche quello di un’antecedente occupazione ebraica. Ed è ovvio che gli ebrei viceversa la sostengano a spada tratta, pur con le dovute cautele diplomatiche. Certo che agli israeliani, anzi agli ebrei in genere, un simile colpo di fortuna (il ritrovamento di incontestabili prove fisiche del loro diritto di precedenza sulla città) farebbe sommamente comodo: lo farebbe, in verità, in modo sospetto. Ma della tavoletta (che fra l’altro contiene microscopici granuli d’oro, la cui presenza è attribuita alla vicinanza di oggetti aurei nel corso di un incendio, forse quello del 587 a.C.) non sono purtroppo noti né l’origine né il contesto archeologico: è comparsa sul mercato antiquario letteralmente dal nulla, e le autorità musulmane smentiscono con fermezza che provenga – furtivamente, s’intende – da lavori di scavo o di restauro da loro fatti eseguire sulla Spianata stessa, come insistentemente si mormora. La questione è attualmente allo studio.
Come se non bastasse, i musulmani aggiungono dell’altro: il Gran Mufti di Gerusalemme asserisce difatti che il Muro del Pianto, il cui vero nome secondo lui è “Muro Barrak”, o Muro Splendente, appartiene all’Islam, e che (pur senza saperne indicare l’epoca di costruzione né l’artefice) esso “fa parte integrante della Moschea di Al-Aqsa” ed è un “patrimonio islamico a tutti gli effetti di legge”. Proprio quello stesso, ultimo superstite rudere al quale con un immenso atto di fede, da duemila anni, gli ebrei orfani del Tempio distrutto tornano da ogni parte del mondo in cui sono stati sparpagliati pur restando un popolo. Ma il Gran Muftì giura che lì non c’è mai stato un Tempio ebraico, e Finkelstein – in buona fede oppure no – dichiara che non è stata trovata alcuna prova archeologica che lo confermi (d’altra parte Norman Finkelstein, altro seminatore di zizzania, campa scagliandosi contro quella che chiama “l’industria dell’Olocausto” che sfrutterebbe la cattiva coscienza mondiale per la shoà, si vede che è una famiglia fatta così).
Ma Liverani, non contento di accodarsi a Finkelstein per quanto riguarda la storicità del regno di Gerusalemme, amplia i suoi orizzonti demolendo altre bibliche certezze e incentrando la sua maggior attenzione sulla conquista e sul ritorno in patria degli ebrei dopo Babilonia, in pratica mettendo in discussione il loro diritto di cittadinanza. Che, trasposto in termini odierni, indica “velatamente” (!) la sua opinione circa gli attuali cittadini di Israele.
E questo pare chiaramente un atteggiamento antisionista. Per quale motivo lo faccia non saprei. Ma, dato che ogni presa di posizione è per forza soggettiva e di parte, se Giosia e i reduci avevano interesse a dimostrare, addomesticando la storia, che Israele era stato un tempo grande e unito, qual è l’interesse di Liverani nel cercare di provare il contrario?
Naturalmente, se parliamo della “Palestina”, non c’è problema a riconoscere – secondo la sua ricostruzione – che gli israeliti non sono stati altro che uno dei numerosi popoli che si sono avvicendati in quella tormentata regione (benché sarebbe onesto anche ammettere che fu l’unico che vi abbia costituito un’entità politica, per quanto transitoria, di qualche rilievo). Io comunque voglio credere che l’intento di Mario Liverani sia quello di contestare in generale le pretese più oltranziste e radicali delle frange estreme dell’ebraismo sionista, che rivendicano il possesso esclusivo di una terra che furono costretti ad abbandonare duemila anni fa e in cui, secondo il più banale dei meccanismi, altri si sono insediati. Prendendo atto obiettivamente della realtà dei fatti, questi altri esistono e hanno anche loro dei diritti.
Ma c’era bisogno, per arrivare a dire una cosa così semplice, di sprecare tanta scienza e di buttare i libroni nel fuoco?
 
(Lia Mangolini)
[Una presentazione dell’autrice di questa recensione si trova nel N. 6 di Episteme, Parte I.] lia.m@tiscali.it