Tra illuminismo, romanticismo e chiesa. Il riformismo di Alessandro Aleandri nel risorgimento italiano. Un saggio di Raffaele Panico

20 Luglio 2013

Raffaele Panico

 

 

 

 

 

Alessandro Aleandri (1762-1838)

Vita e opere tra Stato e Chiesa in età romantica,

di Raffaele Panico

 

 

 

 

 

 

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Il mio interesse è la ricerca che ruota attorno la Storia unitaria degli italiani e suoi ricorsi storici, gli Stati pre-unitari, quindi le culture e le letterature affini (in Dalmazia, ad esempio, abbiamo perso la lingua dalmatica… oggi  invece tuteliamo il romancio o ladino in Italia, Svizzera e Austria); il Colonialismo italiano e il Futuro (futurologia come scienza esatta di cui vi è una voce su wikipedia mia e del mio professore Antimo Negri); inoltre il mio autore, Aleandri, scrive di Primato già nel 1789. Così ne parla il mio Alessandro Aleandri, e oltre che indubbi indirizzi di socialismo cristiano in merito al regimento dell’economia e della società, accenna anche, ad un proto neo-guelfismo, decenni prima di Vincenzo Gioberti, Primato cattolico, e prima del Primato laico di Giovanni Papini poi fatto proprio dai futuristi italiani, l’avanguardia maggiore tra le altre d’Europa. Spero possiate farne “luce” di tanto ingegno di un autore finalmente ora conosciuto, natio di uno splendido Borgo, il Comune di Bevagna sua patria come allora amavano dire. – Raffaele Panico

 

 Pubblichiamo la premessa dell’opera di Raffaele Panico:

           

Alessandro Aleandri: uno scrittore italiano e il senso dello Stato

 

PREMESSA
 
Il lavoro su Alessandro Aleandri ha avuto vari momenti di raccolta documentaria, brevi articoli su riviste, brevi saggi e analisi storiche a carattere pubblicistico, e, infine suscitò un interesse complessivo attraverso la mia tesi di Laurea in Storia moderna e contemporanea presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Questo accenno è doveroso per poter inquadrare la complessità di questo umbro che, pur raggiungendo ottimi traguardi istituzionali con la Repubblica Romana – nel 1799 diventa Presidente del Consolato cioè la massima carica della cosiddetta ‘giacobina repubblica romana’, è un autore minore ma significativo del suo tempo. Impegnativa la ricerca su più fronti che poteva essere affrontata senza pre-giudizi da un laureando che iniziava a conoscere l’Aleandri dalla sua opera principale del 1789 sulle Riforme dello Stato della Chiesa. Veniva pertanto interpellato il professor Vittorio Emanuele Giuntella nel 1992 e, ancora,  nel ’93, per alcuni consigli di ricerca e analisi sulla personalità dell’Aleandri. L’emerito professore della Repubblica Romana del 1798-99 aveva infatti stilato il profilo bio-bibliografico del Dizionario biografico degli Italiani Illustri. Ricordiamo dunque che Giuntella si rammaricò per  aver trascurato di continuare la ricerca sull’Aleandri negli anni Cinquanta perché il succedersi delle sue ricerche – disse –  l’aveva distolto e quindi si andò ad occupare di altri aspetti e prospettive della sua ricerca storica.  Aggiungeva però, e ci teneva a sottolinearlo, che l’Aleandri avrebbe meritato un completo esame.
La completezza nell’esaminare l’Aleandri significava affrontare una ricerca minuziosa delle fonti e tra le fonti, cioè con un rimando tra quelle d’archivio e quelle librarie (la sua bibliografia, scandagliare tra e pieghe delle 9 opere edite e l’inedita), ‘girare’, andare nei diversi luoghi, in Umbria, nelle Marche, a Roma e nel Lazio negli archivi privati e statali, centrali e periferici del Vaticano, a Roma e delle ex delegazioni pontificie. Occorreva, anche, un’esegesi della sua produzione letteraria, relativa alla prima metà della sua vita perché, come suggerì Giuntella, con un piglio severo e determinato, era tempo oramai di capire perché il nostro Aleandri dopo i suoi incarichi con la Repubblica Romana del 1798-99 non scrivesse più opere a stampa. Occorreva tentare di capire il motivo di quella cesura attuata nei confronti dell’intellettuale di Bevagna dopo un’intensa giovanile attività.
La personalità dell’Aleandri  era – in un certo senso – ancora schermata alla ricerca storica, solo uno studio attento e meticoloso su tutto quanto aveva scritto e prodotto ci avrebbe consentito di trovare l’intreccio tra l’uomo, il suo tempo e  la produzione politica e letteraria, tra quegli aspetti pubblici e privati, l’insieme della personalità risultata dalla sua vita, dalle sue scelte e dal suo lavoro. In seguito, era il professor Claudio Vinti, anch’egli di Bevagna, contattato per la relazione Un giacobimo alla corte di Pio VI: il bevanate Alessandro Aleandri (Atti del convegno Dalla Rivoluzione alla Restaurazione, ESI 1991) a confermare questo senso di non pienezza di conoscenza intorno alla figura particolare di Aleandri. La collaborazione col professor Vinti è risultata oltre che di impulso e verifica, di continuità d’analisi storica per poi riuscire ad organizzare due convegni in Umbria in occasione del bicentenario della Repubblica Romana. Di questo autore umbro siamo riusciti a dare una visione meritoria della sua attività e della sua vita, e a ben osservare non era poi un minore, forse certo secondario, ma assai significativo del suo tempo. Insomma era, come si è detto, un autore ancora da valutare in pieno, e quella tesi sembrava essere l’occasione propizia per intraprendere una ricerca proseguita nel tempo.  Così l’Aleandri, grazie a chi scriveva e che ne diventava una sorta di suo ‘procuratore della causa di conoscenza’, iniziava ad entrare nei circuiti prima divulgativi, con una serie di articoli su giornali quotidiani e periodici, per poi entrare a pieno titolo nelle celebrazioni del bicentenario, sia in Umbria che presso L’Archivio di Stato di Latina, dove il nostro Aleandri entrava a pieno titolo tra gli autori ed interpreti del tempo storico, tanto della bonificazione pontina di Pio VI intrapresa nel 1777 e da lui illustrata e commentata nel 1789, quanto della sua importante partecipazione alla citata repubblica romana. Così nel 1998, il 24 ottobre, si promuove insieme a Claudio Vinti una giornata in onore di Alessandro Aleandri, presso il Comune di Bevagna, con la partecipazione della Facoltà di Economia dell’Università di Perugia, la Regione dell’Umbria, il Dipartimento di Studi Storico Geografici Antropologici dell’Università di Roma Tre, l’Università di Roma La Sapienza, Centro Italiano per gli Studi Storico-Geografici di Roma. L’incontro è finalizzato alla costituzione del Comitato Scientifico per il “Convegno Aleandri”, che si terrà poi a Bevagna 1-2 ottobre 1999:  Aleandri e il suo tempo – Un intellettuale umbro tra Settecento e Ottocento.
A Terracina, col patrocinio del Comune, organizzato  dall’Archivio di Stato di Latina grazie al direttore la dott.ssa Lucia Mione Ployer, si teneva nei due giorni  15-16 gennaio 1999 il convegno Campagna Marittima e Terra di Lavoro (1798-1799), di cui si pubblicavano poi gli Atti  (a cura dell’A.S.Lt nel 2001) con la relazione di Raffaele Panico: Alessandro Aleandri: un umbro nelle maggiori cariche istituzionali della Repubblica Romana,  atti del convegno Campagna Marittima e Terra di Lavoro 1798-99. Dello stesso anno, precisamente del febbraio 2001, sono gli atti del convegno scientifico “Aleandri e il suo tempo – Un intellettuale umbro tra Settecento e Ottocento” tenuto come detto a Bevagna 1-2 ottobre del 1999, a cura della Università di Perugia Facoltà di Economia, Regione dell’Umbria, Comune di Bevagna.
Una serie di articoli nel 1995, sopra citati, ospitati dapprima sul quotidiano L’Umanità a piena pagina, avviavano un importante interesse sul nostro autore umbro. Altrettanto preparatorio dell’interesse sull’Aleandri e la celebrazione delle sue esperienze repubblicane in occasione del bicentenario del 1998-99 sono stati, nel 1997, un breve saggio dal titolo: La pianura pontina nel Settecento. Una storia del paesaggio attraverso una lettura geografico-storica delle controversie economiche ambientali (in “Geografia – trimestrale di ricerca scientifica e di programmazione regionale”, Epigeo, Roma, n° 3-4, luglio-dicembre 1997).
A seguire, altri aspetti della vita dell’Aleandri vengono accolti, nel 1998, sul terzo numero del quadrimestrale “Notiziario del Centro Italiano per gli Studi Storico-Geografici” (Centro Italiano per gli Studi Storico-Geografici, Roma) col titolo: Un confronto tra due autori di Bevagna: Fabio degli Alberti e Alessandro Aleandri.
I convegni  celebravano il secondo centenario della Repubblica Romana, ma anche l’interesse del pensiero aleandrino per l’ambiente naturale e una pianificazione territoriale di fine Settecento su cui lui si era “esercitato” nelle sue opere a stampa. Ecco come veniva affrontata la personalità Aleandri. Nell’ultimo lustro del secolo scorso la vicenda Aleandri tornava in auge in questo modo: le bonifiche, le riforme del Papa-re  e le avventure repubblicane dei francesi e, parte oscurata e come si è detto da ri-velare, la sua presenza istituzionale durante la Restaurazione del potere temporale dei papi da Pio VII fino a Gregorio XVI.
Personalità minore si è detto che però, merita attenzione sia come letterato che politico. Un politico particolare che ha seguito nella cattiva sorte quelle riforme volute da Pio VI e il tesoriere generale Fabrizio Ruffo, ma ferocemente contrastate dai ceti privilegiati. Un giovane Aleandri che ha tentato, osato in quell’ambiente politico ostile alle riforme e, quindi, pagato uno scotto per il suo ardire nello scrivere. Osserveremo anche in lui il funzionario di Stato e cittadino esemplare per onestà e dedizione al lavoro, sensibile alle istanze dei meno abbienti. 
Del resto, il relatore della tesi su Alessandro Aleandri è stato il professor Alberto Caracciolo, titolare della Cattedra di Storia Moderna, presso la Facoltà di Lettere dell’Università “La Sapienza” di Roma che nel corso di quegli anni si interessava di una storia dell’ambiente in età pre-industriale. Tematica che ho seguito per conseguire la “felicità e il benessere” dei suoi cittadini con riforme illuminate.
 
 
INTRODUZIONE
 
§ 1. Alessandro Aleandri: la personalità, il senso dello Stato, l’equivoco sulla componente temporale, l’idea d’Italia.
 
Alessandro Aleandri  nacque a Bevagna il 14 agosto del 1762, da Tommaso, originario di Foligno, dal 1758 a Bevagna con l’incarico di cancelliere della Curia Ecclesiastica e pubblico notaio, e da Teresa Genga, di Pesaro figlia di un medico. Perde presto i genitori e verrà educato dallo zio paterno. Conseguiti gli studi diventa avvocato di professione e governatore di varie località. E’ personalità poliedrica e  un autore eclettico.
Tra gli scrittori economici dello Stato della Chiesa è singolare per la libertà di coscienza e di pensiero con cui affronta rilevanti tematiche politiche ed economiche. Ha un forte senso dello Stato. Volitivo, con zelo lo vediamo impegnato sia come funzionario e consulente giuridico dello Stato ecclesiastico, sia per l’attuazione del programma politico dell’esecutivo della Repubblica romana del 1798-99. L’analisi biografica, lo studio delle principali opere e la disanima di fondamentali documenti dell’epoca conservati negli archivi dell’Italia centrale, ricostruiscono il contesto storico dello Stato della Chiesa tra ancién regime e modernità, del resto puntualmente evocato dall’Aleandri, acuto osservatore e testimone di quel periodo storico, attento alle istanze sociali e politiche dei vari ceti, specialmente di quelli meno abbienti.
Aleandri ha un alto senso dello Stato e una scrupolosa onestà. E’ una sorta di necessità introspettiva, prestare il suo ingegno e le azioni per il bene pubblico dei suoi concittadini. La meticolosa attenzione per l’interesse pubblico si accompagna ad un forte senso di partecipazione alla comunità. Questa vocazione politica personale, nei suoi scritti, si manifesta con una prosa effervescente, connotata da un’immaginazione intuitiva e da una  narrativa che lo porta a cimentarsi in soluzioni avveniristiche per i progressi delle tecniche e delle scienze applicate. Forse, nella sua funzione pubblica di governatore, d’ispettore e commissario e di  giudice processante, aveva ben presente la massima del console romano Emilio Paolo: “nessuno che voglia rinnovare la costituzione di uno Stato incomincia con grandi violazioni della legge; bensì chi disdegna la precisione nelle piccole cose distrugge quella cura che si deve avere delle grandi”.  La precisione, l’attenta e minuziosa cura dei pubblici affari, accompagnerà per tutta la vita, l’opera, le azioni e il pensiero dell’Aleandri. Il momento centrale di questo iter politico-letterario è segnato dalla vivacissima ambizione giovanile per la riforma dello Stato, intrapresa dal pontefice Pio VI e dal cardinal Fabrizio Ruffo, Tesoriere generale.  L’Aleandri era legato ai sodalizi delle Società economiche agrarie, sorte in 4 o 5 cittadine dello Stato della Chiesa, raccordate a Roma nel Congresso Politico (di cui si hanno scarse notizie) presieduto dal cardinal Ruffo. Il disegno riformatore di Pio VI trovava questa pattuglia di sostenitori, ma non riuscirono nell’impresa di riformare l’economia e la finanza: la costituzione del sistema di governo e le fondamenta dello Stato avevano bisogno di grandi ed innovative riforme che partissero dal governo centrale e da poche élites, ma anche di una favorevole opinione pubblica, per la gravità della situazione economica e finanziaria da affrontare. Ne segue un’amarezza personale dell’Aleandri che lo accompagnerà per tutta la vita di funzionario e di cittadino di uno Stato, quello della Chiesa, sovrano su di un popolo e un territorio senza però senso di patria e di nazione.  Con notevole anticipo aveva anche intravisto una possibilità di riscatto dell’Italia unita  attorno al Pontefice a capo di uno Stato guida per tutti i suoi “amorevolissimi concittadini italiani”: solo dopo che le riforme agognate avessero innescato il moto di crescita economica e civile nello Stato della Chiesa, precisa. Il fallimento per il montare di un’opinione pubblica ostile al disegno riformatore seguì repentino, quello che a posteriori appare a noi un accenno di proto neoguelfismo non riaffiorerà negli scritti aleandrini.
Questa idea d’Italia si trova nell’opera di Aleandri del 1784: “Delle macchine aerostatiche”. L’autore cita l’ardito aeronauta italiano, un giovane nobile milanese che riuscì ad elevarsi con i globi nei pressi di Monza. Auspica che tanti altri suoi concittadini italiani lo seguano nell’impresa.
 Quei primi tentativi di volo ebbero una grande eco nei periodici letterari del tempo. Alcuni versi del suo poema annunciano il risorgere di una patria di tutti, l’Italia:  …E a ridestar l’Italico Valore/Efficace movente ancor si feo./ Di Dedali novelli è già fecondo/L’Italo Suolo; e tal che forse mai/ Non sullo altro Terreno, ed il suo Charles/Vanta Egli pur, cui non appare eguale/Rapido nel sentier, ch’adduce al Cielo.  In altri versi, scrive: E l’un l’altro sacrare a te, cui brama/ la grata Italia, ch’Io mi volga umile…
 
Nel saggio  “Dell’Ingrandimento dell’Agricoltura delle Arti e del Commercio nello Stato della Chiesa” del 1789, l’Aleandri ha piena fiducia nelle riforme. Abolire gradualmente gli abusi e la corruzione di alcuni elementi, ceti e corpi sociali;  debellare il malcostume, le violenze e i soprusi, per il miglior ordine sociale specie per i troppo oppressi contadini e salariati urbani. Quelle riforme sul finire del ‘700 sono presentate dal nostro autore come l’atto del sovrano pontefice, magnanimo ed illuminato, a cui però deve seguire un moto generale. L’intrapresa dall’alto è considerata lo stimolo esterno ai “papalini” (i sudditi dello Stato della Chiesa) per l’ingrandimento dei settori agricolo, manifatturiero e commerciale per perseguire la <felicità> e  il benessere dei cittadini dello Stato attraverso una rinnovata legislazione. Allo stimolo esterno della nuova politica del sovrano, deve seguire  – sostiene –  una rinnovata energia morale nella coscienza dei cittadini, un rinnovamento che, Aleandri, estende a tutti i suoi  rispettevolissimi Concittadini Italiani  (siamo nel 1789). Questa esigenza  di rinnovamento proviene dalla coscienza storica dell’età trascorsa, quando gli italiani conseguirono il primato in Europa:  “età della quale è sembrato fin qui, che noi per nostra massima disavventura ci fossimo dimenticati. Si, io lo rammento con giubilo. L’Italia nostra fu il  centro, e la madre dell’Arti… La pace, che godevan gli Stati del Papa avanti di Carlo V aveva molto contribuito all’avanzamento, o per dir meglio, alla perfezion delle Arti” (1789). Le capacità ed il talento degli italiani per le arti (industriosità e commerci), ritiene Aleandri, possono esprimersi produttivamente con una rinnovata legislazione. Italia, gli Stati del Papa e l’età del primato italiano… certo, che desiderava, l’Aleandri, una guida al rinnovamento degli stati italiani dopo il successo dell’intrapresa riforma di Pio VI. Credeva al piano di riforme del Papa e intravedeva una futura guida al rinnovamento generale dell’Italia. Un momento, un solo momento di speranza. L’equilibrio nel giudizio in Aleandri è vivamente presente, per questo nei scritti successivi non torna più sull’argomento! E’ stato un intellettuale al servizio di un’età di riforme, tanto dibattute nello Stato della Chiesa, ed egli – lo notiamo nella ricerca storica – è lì a prendervi parte, ma di proto-neoguelfismo, dopo questi cenni, non si riscontra più traccia nel suo pensiero. Sicuramente, l’idea principe, è il necessario rinnovamento d’Italia; per  l’Aleandri  è un cruccio che rimane nel tempo. Quel continuo richiamo, nei suoi scritti,  agli esempi degli stati di Francia, d’Inghilterra e di Prussia, hanno fatto avvertire, all’Aleandri, la ristrettezza di un’Italia suddivisa dai confini regionali, specie quando considerava la competizione, innovativa e commerciale, per le nazioni civili, fondamentale per il progresso dei popoli, o, son sue parole, “l’Ingrandimento dello Stato e la felicità dei Cittadini”.  
 
Meticoloso e attento all’utilizzazione del pubblico denaro, come funzionario più volte lo vediamo segnalare, alle autorità centrali, gravi e sistematiche vicende di corruzione. Cosa traspare attraverso l’analisi delle vicende aleandrine di funzionario, di governatore e di giudice processante che sentiva e partecipava attivamente alle cose dello Stato – possiamo dire in odore di incenso – della Chiesa?  Si aggiunga solo che, quello Stato, per sua natura e attraverso i suoi uomini, che  erano anzitutto uomini di Chiesa e provenienti da patrie diverse, era  sbilanciato in una dimensione  extranazionale, non internazionalista che è un termine proprio dalla seconda metà dell’Ottocento e  affermatosi nel secolo XX.  Lo Stato della Chiesa per sua natura ricercava la legittimità nell’esercizio del potere temporale attraverso la componente religiosa e la supremazia del potere spirituale,   lasciando però in secondo ordine o, in  ultimo, le faccende di casa propria. Il popolo e il territorio governato erano solo un involucro vuoto, senza patria, per l’assenza complessiva  di un accento di mentalità e vocazione  nazionale nelle strutture di governo della monarchia elettiva papalina.  Figuriamoci poi se Pio VI, il pontefice dell’età in cui Aleandri  percepisce – e non è il solo –  uno spazio geografico dai caratteri italiani radicato ben oltre l’ambito letterario e culturale, potesse, allora, quel papa, dedicarsi ad un’ipotesi confederativa italiana di accento protoneoguelfa. D’altro canto il problema della lingua era già risolto circa due secoli e mezzo prima, da Pietro Bembo, che riconosceva al volgare fiorentino la dignità di  lingua nazionale condivisa dai popoli d’Italia, superiore anche allo stesso latino, e codificato in precetti di grammatica e di stile. La percezione politica di uno spazio italiano potrà generarsi solo alcuni decenni dopo, col neoguelfismo, vagheggiato che tentava, e falliva, con Pio IX. Il tentativo del moto unitario neoguelfo con Pio IX doveva poi cadere sull’equivoco liberale e sull’impossibilità di continuare una guerra contro la cattolica Austria. Il pontefice passava repentinamente dai principi nazionali italiani, e liberali, all’abbandono della causa perché pensava di non poter conciliare la religione con la patria, non poteva continuare la guerra contro l’Austria per lo stesso motivo religioso che trionfava sulla ragion di Stato, e non poteva per esso rinunciare a quel potere temporale disimpegnato, che pur avvenne nei destini delle vicende risorgimentali. Attraverso le vicissitudini di’Aleandri possiamo annotare che lo Stato della Chiesa non si poneva  in prima istanza finalità statuali e politiche di carattere territoriale. La Chiesa sosteneva anzitutto il primato del potere spirituale sopranazionale, o extranazionale,  nel senso che la sfera d’interesse si ampliava fuori dei confini nazionali. Lo Stato era subordinato a questa visione, la Chiesa aveva in questo un primato, era il fine principale dello stesso Stato che era di natura religiosa, tanto che ne risentiva lo stesso ordinamento giuridico e istituzionale. Lo Stato della Chiesa, di natura religiosa quindi, era una sorta  presidio temporale e mezzo necessario per la missione spirituale universale della Chiesa. Concezione spesso esplicitamente affermata in molti documenti ufficiali dei Papi, condizione ancora più evidente e manifesta dopo l’esilio avignonese.  Il diritto canonico era fonte del diritto nell’ordinamento giuridico dello Stato. Questa la visione sostanziale dello Stato della Chiesa in cui l’Aleandri si trova ad agire, si può riassumere, e così concludere in breve la vicenda aleandrina: l’equivoco di un funzionario che auspicava nel governo delle popolazioni “papaline” – come vedremo – una “politica sperimentale”, anziché «una metafisica», come avvertiva lo stesso protagonista alla Segreteria di Stato vaticana negli anni della Restaurazione.
In Aleandri è presente, oltre al senso dello Stato da lui vissuto attraverso il movimento culturale riformista, un aspetto vitale della comunità nazionale. Sentiamo palpitare l’ambito della grande patria, l’Italia, definita nell’opera del 1789 “gli Stati del Papa”, un concetto riferito all’autorità del pontefice romano, referente di una sovranità di Stati che soddisfi la somma dei valori di idioma ed etnia, di nazione con tradizioni e caratteri antichi ed in essere, che richiedono la coscienza dell’indipendenza e identità in una forma di Stato-comunità italiana. L’idea d’Italia è presente anche nei discorsi aleandrini pronunciati nel senato della Repubblica Romana (ricoprirà, poi,  la massima carica istituzionale: Presidente del consolato della Repubblica) nel 1798-99 richiamandosi alle “repubbliche e libertà d’Italia”. In merito, quando l’intellettuale impegnato politicamente guarda oltre ai particolarismi dei principi, viene delineata un’idea d’Italia unita nella matrice culturale, nelle opere dell’arte e dell’industriosità, nell’ingegno e laboriosità dei suoi popoli. Nel poema aleandrino del 1784, sentiamo:
 
“De’ bei fatti de’ Galli andò la fama, / Pel Cielo intanto gloriosa a volo, / E a ridestar l’Italico Valore / Efficace movente ancor si feo. / Di Dedali novelli è già fecondo / L’Italo Suolo; e tal che forse mai / Non sullo altro Terreno, ed il suo Charles (nome del primo aeronauta francese, ndr) / Vanta Egli pur, cui non appare eguale / Rapido nel sentier, ch’adduce al Cielo; / Che sebben di languo ornato in viso / Felice il volo ritentò più fiate”.
Questi sono i versi a pagina 36 del poema del 1784. Una nota chiarisce che “Il Chiarissimo Sig. Cavaliere Andreani Patrizio Milanese, e reggente professor di Fisica Sperimentale, benché di assai giovane età può chiamarsi a ragione il Charles Italiano, avendo coraggiosamente replicati (cioè più volte, ndr) i viaggi per l’aria nella Real Villa di Monza sempre felicemente, e con applauso universale”.
 
 
 
 
Cultura economica e istanze di riforma nello Stato della Chiesa nella fine del ‘700: l’esperienza di Alessandro Aleandri.
Alessandro Aleandri, avvocato di professione, personalità poliedrica, è un autore eclettico e studioso di economia politica. Tra gli scrittori economici dello Stato della Chiesa è singolare per la libertà di coscienza e di pensiero con cui affronta rilevanti tematiche politiche ed economiche. Ha un forte senso dello Stato. Volitivo, con zelo lo vediamo impegnato sia come funzionario e consulente giuridico dello Stato ecclesiastico, sia per l’attuazione del programma politico dell’esecutivo della Repubblica romana del 1798-99. L’analisi biografica, lo studio delle principali opere e la disanima di fondamentali documenti dell’epoca conservati negli archivi dell’Italia centrale, ricostruiscono il contesto storico dello Stato della Chiesa tra ancién regime e modernità, del resto puntualmente evocato dall’Aleandri, acuto osservato e testimone di quel periodo storico, attento alle istanze sociali e politiche dei vari ceti, specialmente di quelli meno abbienti.
In merito alla attenta lettura delle opere e dei documenti afferenti l’iter culturale e politico dell’Aleandri, si può desumere la presenza continua di un ideale illuminista e riformista. L’Aleandri però, è un moderato che osserva gli eventi rivoluzionari francesi con indignazione per gli eccessi e l’estremismo giacobino, nonostante ricoprirà la carica di Presidente del Consolato della Repubblica Romana del 1798-99. L’Aleandri è stato partecipe comprimario di una politica illuministica moderata, gradualista ed avulsa dal radicalismo politico di tipo rivoluzionario-giacobino. Il biennio repubblicano rappresentò, per le esigenze di riforme politiche e di dinamica sociale sentite dagli individui più illuminati di fine ‘700, il momento decisivo per la concreta partecipazione alla vita politica, civile e sociale dei cittadini equiparati giuridicamente nella formula della libertà ed eguaglianza. Per l’Aleandri, in specifico, tale partecipazione significò  il passaggio dalla poesia del periodo letterario giovanile, il superamento dell’epica nell’opera del 1789 sulle riforme del Sovrano-Pontefice involutasi nel pathos e nel dramma vissuto evidente dal contesto e dalle testimonianze inerenti le sue opere del periodo dell’amarezza e della delusione, ed infine, negli anni repubblicani del 1798-99 la piena luce e la prosa, certo non affrancata da rovesci e da circostanze avverse, della partecipazione piena alla vita politico-istituzionale dello Stato repubblicano.
D’altra parte per una indagine penetrante ed incisiva sull’itinerario storico-culturale dell’Aleandri, deve essere preliminarmente rilevato a chiare note il momento culminate che segna una netta cesura tra la vita dell’uomo e la di lui produzione pubblicistica.
In merito va osservato che sussiste, indubbiamente, uno iato palese tra il periodo della prima metà della di lui esistenza (quei primi 37 anni di vita, sino alla redazione dell’ultima opera pubblicata nel 1799),  fecondo per la fioritura di opere date alle stampe fino al momento della partecipazione alla vita pubblica della Repubblica Romana, mediante numerose e versatili pubblicazioni in diversi settori e discipline scientifiche data la dimensione vivace e poliedrica della personalità dell’Aleandri. Per i successivi 39 anni della sua esistenza, fin dunque al 1838, è partecipe nella vita pubblica dello Stato della Chiesa con plurime iniziative culturali, accademiche, politiche ed istituzionali, anche se, per converso, sono assenti saggi e pubblicazioni relativi a quest’ultima sequenza temporale-esistenziale.
Inoltre, il quesito storico che deve essere individuato, anzitutto, quale metodologia e prospettiva di ricerca storica sul pensiero dell’Aleandri si fonda sulle cause di giustificazione alle vicende politiche della Repubblica Romana  che lo vide partecipe attivamente, e fautore di acuti e magistrali interventi nelle sedute del Senato, ed è prioritario e fondamentale tentare di capire perché dopo il biennio politico repubblicano in cui fu vivamente impegnato, non si hanno più pubblicazioni e scritti editi.
Infatti, da una rivisitazione del pensiero aleandrino attraverso la cognizione della biografia nonché dei fatti di vita privati e pubblici dell’autore, analizzati studiando il materiale archivistico, pubblicistico e saggistico, tutte queste fonti e accadimenti ci consentono di svolgere osservazioni critico-riflessive sia sulle opere letterarie dell’autore, sia sulla dimensione diacronica delle istanze politiche, storiche ed economiche che si sono susseguite nell’arco della vita dell’illustre cittadino di Bevagna.
Pertanto, la valutazione, in linea parallela, da un lato, della vita dell’uomo e dall’altro della di lui produzione letteraria e scientifica è legata, a doppio filo, alla questione affrontata nel saggio Dell’ingrandimento. Al riguardo, nell’opera “di mezzo” della sua produzione letteraria  vengono delineate le basi per un progetto economico-politico di riforma dello Stato della Chiesa al fine di poter ottenere un progressivo affrancamento e, infine,  diffuso benessere per i sudditi.
Il disegno riformatore, delineato nel saggio aleandrino, rappresenta l’aspetto speculare delle istanze riformatrici del pontefice Pio VI,  encomiate e ritenute utili per il benessere dei sudditi unitamente al monito lanciato agli oppositori e conservatori alla politica del Sovrano-pontefice diretto a far osservare la moderazione necessaria negli interventi sociali, congiuntamente alla critica politica da Aleandri mossa  agli eccessi di giacobinismo del primo periodo franco-repubblicano.
Nel saggio Dell’Ingrandimento inoltre, l’autore svolge una fondamentale premessa circa il ruolo della ottimizzazione del lavoro nell’intervento sull’ambiente naturale, ai fini dello sviluppo economico della società civile dell’epoca per il benessere e il progresso dei sudditi. Le istanze riformatrici fondate sui principi di stampo illuminista, unitamente alle nuove scoperte della tecnologica e della scienza di quel periodo storico, osserva acutamente l’Aleandri, ampliano, ed amplieranno la sfera d’influenza dell’uomo nel limite però di una crescita non distruttrice e conservazionista della natura.
In materia di socialità, l’avvocato umbro pone un altro postulato fondamentale: la popolazione come centro di riunione da cui promana la legislazione e la forza d’intraprendenza del lavoro umano, l’organizzazione del lavoro e i suoi rapporti di produzione e consumo.
Pertanto, l’opera aleandrina si fonda, da un lato, su una rivalutazione del ruolo uomo-ambiente inteso come tutela della natura per garantire determinati cicli economici, dall’altro la creazione di un dinamismo nell’ambiente sociale che ispirandosi ai principi della fisiocrazia determina poi dei cambiamenti strutturali della economia politica in seno al territorio dello Stato della Chiesa con incremento delle manifatture.
 Così l’Aleandri, oltre ad aver  intuito i principali  fattori di crescita e di progresso materiale e morale dell’uomo aveva percepito alcune conoscenze dirette o indirette che avviavano l’Europa occidentale verso profondi cambiamenti politici, culturali, scientifico-tecnici ed economico-sociali. 
La valenza storica, economica e politica che si delinea dalla lettura organica  delle opere dell’Aleandri, è, che egli aveva percepito le linee fondamentali della duplice rivoluzione, industriale e politica, che poneva l’Europa davanti alla svolta epocale.
Dal materiale d’archivio degli anni 1817-1833, soprattutto dal progetto “Cenni di statistica e Sistema governativo” del 1828, e dalle lettere inviate alla Segreteria di Stato Vaticana nelle quali ricorda e sottolinea questo progetto, si evince, dopo l’entusiasmo giovanile delle opere a stampa 1782-94, una amarezza di fondo per l’occasione mancata “dell’ingrandimento”. La seconda metà del XVIII secolo, tra l’antico regime e la modernizzazione della società, in questo arco temporale di lenta e progressiva formazione dell’età contemporanea, il divenire degli ambiti economico, politico-diplomatico e politico-sociale, oltreché del circuito di idee e di cultura, immette anche nello Stato della Chiesa una stagione riformista con la serie dei sovrani-pontefici dell’età delle riforme.
D’altra parte, questo periodo storico di circa mezzo secolo, il cui principio possiamo ravvisarlo già nel pontificato di Benedetto XIV (1740-58), rappresenta una stagione sulla quale cade repentina la cesura della prima invasione francese del 1798-99. Questo processo storico generale delle riforme settecentesche in Europa, all’interno dello Stato della Chiesa a causa della sua duplice natura temporale e spirituale, è lento, oscillante ed incerto. Una discontinuità può essere rilevata con la elezione di Pio VI, infatti, durante questo pontificato, vengono intraprese riforme economiche e finanziarie concepite ed iniziate nel precedente pontificato di Clemente XIV (1769-1774), quando lo stesso Braschi era allora Tesoriere generale (poi, appunto, al soglio pontificio col nome di Papa Pio VI dal 1775-1798). Il momento decisivo è la sostituzione, nel 1785 del Tesoriere Generale, voluta da Papa Braschi, che nomina monsignor Fabrizio Ruffo al posto dell’uscente monsignor Pallotta. La ricerca  sull’Aleandri ci  permette di individuare le premesse storiche ed ideologiche di alcune problematiche in tema di storia, economia, politica e costumi di quel periodo.
Sui suddetti profili l’Aleandri sin dal 1789 propugna il rinnovamento in seno allo Stato della Chiesa e, sostanzialmente, quale portatore degli interessi generali di tutte le classi sociali, è un sostenitore di una riforma agraria che, garantendo la proprietà agraria non leda gli interessi delle classi contadine e rurali costrette a vivere quotidianamente per realizzare i frutti naturali della terra ai fini della sopravvivenza.
In tal senso l’Aleandri critica aspramente il conservatorismo, l’apatia e l’inerzia quotidiana degli individui, dei gruppi e delle classi sociali che vivevano in quel periodo storico interessate a mantenere quelle condizioni in cui  tutti, di fatto, si erano adagiati.
In questa analisi è presente una acuta distinzione che Alessandro Aleandri, vero illuminista e riformista moderato, fa tra “l’ozio cagionato dal lusso” in cui versava la classe benestante, e “l’ozio politico” imputabile all’ineguale distribuzione del lavoro e del profitto a cui era costretto il basso popolo. 
Il saggio Dell’ingrandimento del 1789  è  il manifesto delle riforme economiche e politiche per un rinnovamento legislativo, finanziario ed economico in una cornice ispirata alla fisiocrazia e al neomercantilismo degli economisti settecenteschi. In merito, l’Aleandri, pur non soffermandosi su i due indirizzi di politica economica dei francesi Colbert e Sully, insiste nel mettere in rilievo la valenza riformista delle riforme di Pio VI e di Fabrizio Ruffo, programma politico dello Stato della Chiesa inteso a incrementare l’economia agricola, manifatturiera e commerciale di quel periodo.
Il pensiero aleandrino si sviluppa con speculazioni empiriche di politica economica e sociale connessa al generale progresso civile, senza distinzioni di classi sociali e di luogo geografico. Questa prospettiva mette in rilievo il miglioramento delle tecniche produttive e della cultura economica. L’incertezza di indirizzo dottrinale speculativo è sottolineata, anche, dalla allora fondamentale problematica a conservare il grano per scongiurare le crisi alimentari e demografiche a cagione delle carestie, e dall’esigenza di una larga commercializzazione dei grani per salvaguardare i produttori e i consumatori con “il giusto prezzo” del mercato.
Inoltre, il saggio dell´Aleandri del 1789 è il frutto della fiducia che l`autore ha riposto in alcuni circoli culturali nazionali, esponenti di quelle nuove idee illuministe che rappresentano i presupposti per le riforme antifeudali.
Sul punto, appare vero mettere in rilievo che quelle riforme del pontefice-sovrano trovavano proprio nelle società economiche-agrarie dei ferventi laboratori politici.
Al riguardo, il “congresso politico“, riunitosi intorno al Tesoriere Generale Fabrizio Ruffo, doveva raccordare a Roma le cinque o sei, società economiche-agrarie sorte nello Stato della Chiesa, composte da ristrette élites di intellettuali e di aristocratici di pensiero che volevano proporsi come fautori e pionieri di una discussione riformista in senso generale finalizzata all’inizio delle riforme politiche, economiche e sociali.
Infatti, la struttura dello Stato ecclesiale si incentrava su privilegi e privative di cui erano titolari soltanto alcuni gruppi di potere. D’altra parte, più che uno Stato a base regionale, così come lo erano altri stati del nord Italia e la Toscana al centro, o uno Stato-nazione, come era al sud Italia quello borbonico, il Pontificio era un campionario dei vari stati italiani del nord, del centro e del sud, un variegato mosaico di regioni e di province. 
Pertanto, solo recentemente assumono una loro rilevanza gli scrittori illuministi di cose economiche ora visti con una organicità di pensiero ed autonoma collocazione rispetto ai due poli della dialettica neomercantilista e liberista. La storiografia economica dove vediamo citato l’Aleandri, è  quella dove viene catalogato il pensiero  economico  incerto tra il liberismo e il neomercantilismo, e risale alla fine dell’Ottocento[1].  L’approccio storico empirico degli illuministi si basava su un aumento di beni materiali, di produzioni e di consumi, accompagnato di pari passo alla maggiore circolazione di idee, cultura, istruzione, e in senso ampio una maggiore coscienza di civile consorzio per la progressione produttiva e la migliore distribuzione delle ricchezze. Alla nuova prospettiva degli studi sul settecento napoletano si lega il pensiero aleandrino. Già ad un confronto con i temi trattati nel pensiero di Genovesi da Lucio Villari[2], troviamo varie risonanze. Aleandri conosceva bene Intieri e il Genovesi, sebbene non li citi nei suoi lavori. Sono invece citati altri napoletani a lui contemporanei. Già Schumpeter aveva sottolineato la capacità speculativa e la portata degli studi degli economisti napoletani: “Essi non erano inferiori per zelo nelle ricerche empiriche e per comprensione di problemi concreti, ai tedeschi, per capacità analitica erano superiori alla maggior parte dei loro contemporanei spagnoli, francesi e inglesi”[3].  Non è in questa sede che si intende affrontare un confronto serrato tra gli scritti di Aleandri posteriori al tempo in cui agirono Intieri, Genovesi e la loro scuola, si vuole solo dare solo una indicazione meritoria per il pensiero economico degli scrittori italiani.
L’importanza dello studio delle personalità “minori” di un dato periodo e di un dato contesto storico e geografico è stata segnalata sia da Piscitelli[4], sia da Venturi[5]; quest’ultimo a una recensione del lavoro del primo. Gli autori minori forniscono spesso testimonianze molto interessanti poiché vivono nel loro ambiente con maggiore recettività, partecipi sia del vissuto quotidiano, sia delle grandi tensioni della vita sociale e civile. Nei loro scritti sono percepibili i loro desideri, le loro aspettative e le loro ambizioni. Seguendoli nei loro viaggi e spostamenti di lavoro, si può ricostruire la trama delle relazioni esistenti tra aree geografiche e ambiti culturali diversi. Sono talvolta i testimoni più sinceri, in quanto investiti di compiti che non li impegnano a sostenere una linea politica precostituita. Monticone ricordando che l’Umbria è un contesto attivo del riformismo peninsulare del ‘700 e riprendendo un giudizio del Candeloro sull’economia autosufficiente della regione scrive: “Si tratta (però) di capire come mai da questo ambiente provinciale e chiuso potessero nel corso di pochi decenni venir fuori elementi assai significativi nel dibattito culturale riformistico e, più tardi, personaggi non trascurabili nelle vicende della Repubblica romana e dei prodromi del Risorgimento nazionale”[6]. Sta di fatto che in quell’ambiente provinciale esistevano in quel secolo centri che tenevano viva una tradizione culturale sulla quale poi si inserì la spinta delle nuove idee riformiste ed illuministiche che circolavano in tutta la penisola. Venturi si chiede se si può parlare di “una corrente locale, una tradizione specificamente romana che precedette e preparò quei tentativi di riforme che vediamo affiorare, anche nello Stato pontificio, nella seconda metà del Settecento”[7], ma al tempo stesso rileva che nell’ambiente di quello Stato “le province, tanto diverse tra loro, costituivano un disordinato campionario dell’Italia meridionale, centrale, e padana, a malapena tenuto insieme da strade pessime e spesso intransitabili”, che queste province erano “continuamente gravitanti verso gli stati limitrofi, il Napoletano, la Lombardia, il Veneto. Mosaico di amministrazioni privilegiate, l’una diversa dall’altra”[8]. In effetti, i “riformatori” dello Stato pontificio, sia che fossero scrittori di cose economiche, più o meno impegnati socialmente, sia uomini politici, e salvo rare eccezioni (il Nuzzi, che era di Orte; il Riccomanni, che era nato in Sabina ma cresciuto nell’ambiente marchigiano), non erano originari né si erano formati a Roma o nel Lazio. “L’idea che lo Stato pontificio fosse peggio governato degli stati barbareschi e che il pontefice fosse più negligente amministratore delle proprie terre del Bey di Tunisi e di Algeri non nacque all’epoca del Risorgimento, ma si trova già espressa nel 1793 in un libro di Giuseppe Gorani. Certo lo Stato pontificio era il peggio governato tra quanti si eran venuti formando nella penisola italiana”, scrive ancora il Venturi.[9] E Luzzatto sottolinea che l’interesse principale del governo pontificio era di assicurare la quiete  e la tranquillità delle popolazioni e non certo lo sviluppo delle forze economiche e sociali[10]. Uno studio più recente, di Gross[11], sottolinea che quand’anche il governo pontificio si trovava impegnato in tentativi di riforme, questi erano carenti in organicità e in concretezza, rimanendo spesso isolati tentativi incompiuti. Però si discosta da dare un giudizio di totale arretratezza di questo Stato, nel quale sappiamo, vi affluivano molti ecclesiastici d’oltralpe, dai paesi che in fatto di riforme erano all’avanguardia, perciò individuali portatori nell’ordine temporale dello Stato di germi d’innovazione[12].
I1 saggio Dell’ingrandimento dell’agricoltura e delle arti nello Stato pontifìcio (1789) dedicato a Pio VI, è diviso in due parti: Dell’ingrandimento dell’agricoltura nello Stato e del disseccamento delle paludi pontine (pp I-XVI, 1-134); Dell’ingrandimento delle arti nello Stato e della istituzione delle finanze (pp 1-203). Presenta due piani d’analisi. E   una fonte a stampa che ci illustra il tentativo di riforme di Pio VI con le resistenze che incontra, con le critiche e le polemiche sollevate al momento, ed è allo stesso tempo il contributo di uno scrittore interessato all’economia pubblica, con le sue vedute, le aspettative e le soluzioni prospettate. L’età giovane in cui scrive, la pronta e sottile osservazione dei fatti e l’onestà intellettuale, la sua sincerità, lo slancio ideale, “l’amore per la verità”, conferiscono al saggio un quadro di carattere generale con una disanima degli interventi economici da affrontare, e ci riferisce dei problemi sociali esistenti. Il contributo dell’autore risulta essere dialettico e speculativo. Dialettico, perché vuol contribuire alla riuscita delle riforme, perciò raccoglie e considera la discussione sollevata dagli oppositori e le critiche suscitate, fino a quel momento in cui i ceti che si opponevano ai cambiamenti, non credevano nella riuscita delle riforme, e non pensavano che Pio VI e il Ruffo agivano con seria volontà di operare in quella direzione. Una opposizione che dopo la pubblicazione del saggio (verso la fine del 1789 quando si decise l’abolizione della precettazione delle carni, provvedimento tanto lodato dall’Aleandri, in una lunga nota al testo)  diventa operativa, sia in generale contro il piano, sia contro l’attivismo degli individui che presero una posizione, come il Tesoriere Generale Fabrizio Ruffo, e il nostro Aleandri accusato faziosamente d’essere un filosofo filantropo, anelante ad un felice stato di natura dell’uomo e anteriore alla società, dunque un imitatore di Rosseau. La posizione che assume l’Aleandri nella dialettica è un impegno diretto a confutare i critici, osservando che essi hanno solo superficialmente esaminato il piano di riforme, dandone un giudizio frettolosamente negativo. Perciò con un atteggiamento da filosofo illuminista controbatte con la ragione ed il coraggio le false opinioni circolanti in quei giorni, riflettendo sui pensamenti degli uomini in generale, considerando le conversazioni nei circoli nei pubblici e nei luoghi di ritrovo. In questo contesto, fiducioso che i “lumi della ragione” possono essere divulgati e propagati agli altri individui della società, l’Aleandri esamina i principi basilari e la natura dei problemi, prendendo deciso partito per l’attuazione del piano di riforme. Un’altro fattore è importante tenere presente, è la contemporanea crisi politica francese che apre la sua fase rivoluzionaria proprio nei giorni in cui l’Aleandri scrive. Perciò le intraprese riforme “papaline” a maggior ragione devono avere vigore, sebbene egli consideri al sicuro da ogni coinvolgimento politico rivoluzionario il trono teocratico.
Il tentativo di riforma economica inizia con l’elezione di Pio VI, bene documentato sulla grave crisi generale dello Stato, avendo prima ricoperto, la carica di Tesoriere Generale. Un tentativo di ristabilimento economico, che dal suo punto di vista l’Aleandri osserva e considera, essere l’opera della “mente illuminata” e del “cuore magnanimo” del sovrano Pio VI. In questo contesto il saggio di Aleandri, se si inserisce nel solco della saggistica settecentesca sulle riforme dello Stato della Chiesa, insieme agli scritti del Fantuzzi e del Vergani risulta tuttavia particolare poiché trova un riscontro pratico nell’attuazione del piano di riforme di  Pio VI.
Se da un punto di vista il saggio di Aleandri cronologicamente è prossimo a chiudere – con altri autori – un secolo di pubblicistica settecentesca riformista, con la peculiarità della illustrazione di fatti concreti e conseguentemente con l’esporsi agli attacchi dei ceti oppositori alle riforme di Pio VI, dall’altra apre un altro tema adusato per oltre un secolo a venire, fino ai primi decenni del novecento. Il problema della bonifica delle paludi ed in generale del ripopolamento delle terre incolte che circondavano la capitale (nel 1785 il Cacherano si interessò dell’agro romano). Una singolarità emerge dal saggio che stiamo esaminando, ulteriormente riconfermatasi nel pensiero di Aleandri soprattutto nell’opera successiva sugli “Orfanotrofi e pubbliche case di lavoro”: è l’importanza fondamentale che l’autore vede nell’applicazione del lavoro dell’uomo. Hanno rilevato il Dal Pane, e poi il Piscitelli, un tratto comune tra gli scrittori economici, un comune denominatore da cui essi partono come premessa generale nei loro scritti. E’ la presunta e non reale fertilità naturale dello Stato e la provvidenza della natura che offre beni e risorse ad infinito. Questo presupposto portava a sopravvalutare le forze e le risorse della natura e a sottovalutare l’organizzazione del lavoro e i rapporti tra la produzione e il consumo. “Non si conosceva, o si ammetteva assai imperfettamente allora, il rapporto che passa tra popolazione e i mezzi di sussistenza, né si aveva la formulazione esatta della legge dei compensi decrescenti”[13]. Da un tale presupposto l’Aleandri è estraneo nelle sue speculazioni. Nelle sue opere il principio di base e di partenza è centrato sull’applicazione del lavoro umano, relegando in secondo ordine la fertilità della natura; inoltre intuisce un limite all’accrescimento continuo di beni e prodotti (incremento allora considerato intimamente corrispondente al popolamento, come lo spopolamento al decremento economico) nella “giusta popolazione”, e, infine, considera le differenti attitudini e fertilità tra le terre capaci di favorire una specializzazione produttiva tra aree diverse, che promuovesse il commercio interno, ed estero tra gli Stati. Certamente la coincidenza della bonifica pontina intrapresa da Pio VI nel 1777 ha influito sulle sue vedute. La congiuntura tra l’osservazione pratica dell’iniziativa del pontefice e la maturazione del suo pensiero, è, però, solo una minima componente nel suo pensiero centrato su delle riforme graduali e sostanziali. Fondamento del pensiero aleandrino è il lavoro dell’uomo nella migliore applicazione, e, specie, nella libera iniziativa sulla diretta proprietà, permeato da una etica sinceramente cristiana e proiettato sulla certa apertura di nuove frontiere dagli esiti del secolo illuminato. Il saggio Dell’ingrandimento è di piacevole lettura, con voli di feconda immaginazione e il frequente ricorso alla metafora dell’analogia, che in questa opera giungono allo zenit nell’insieme sua produzione letteraria, analogia che nelle opere successive perde forza e vigore, a causa del travaglio spirituale procurato dagli attacchi di una elité di oppositori alle riforme economiche, che vede in lui un propugnatore di riforme anche sociali e politiche. Un bel trapasso dalla riposta fiducia nel secolo decimottavo ad un totale scoramento se non rassegnato avvilimento.
 
 
NOTE
 
1 U.GOBBI, La concorrenza estera e gli antichi economisti italiani, Milano, 1884; G.ALBERTI, Le corporazioni d’arti e mestieri e la libertà del commercio interno negli antichi economisti italiani, Milano, 1888; poi citato da A. CANALETTI GAUDENTI, La politica agraria e annonaria dello Stato pontificio da Benedetto XIV a Pio VI, Roma, Istituto di Studi Romani, 1947.
2 L.VILLARI, Il pensiero economico di Antonio Genovesi, Firenze, Le Monnier, 1959.
3 J.A.SCHUMPETER, Storia dell’analisi economica, Torino, 1959, vol. I, p.214.
4 “Il nostro esame vuol essere un contributo alla conoscenza di taluni autori poco noti o non seriamente considerati che, comunque si voglian giudicare, hanno piena cittadinanza fra gli scrittori italiani di cose economiche e non sfigurano troppo, nella modestia della loro opera e della loro personalità, a confronto di molti altri dello stesso periodo, di cui forse si è esagerato il valore”, E.PISCITELLI, La riforma di Pio VI e gli scrittori economici romani, Milano, Feltrinelli, 1958, p.22.
5 “Quello che più manca tuttavia è il rilievo personale, biografico, che avrebbe dovuto esser dato a ciascuno di essi o almeno ai più significativi ed importanti. Soltanto facendo davvero la loro conoscenza, seguendoli nella loro carriera, nei loro gusti, nei loro moventi e ritrosie, potremo capirli sul serio e intendere insieme perché questa schiera d’uomini abbia soltanto parzialmente costituito quel fermento che altre persone simili a loro creavano allora a Milano, a Firenze, a Napoli, ecc.”, F.VENTURI, Recensione a E.Piscitelli , La riforma di Pio VI e gli scrittori economici romani, in “Rivista Storica Italiana ”, LXXI, (1959), pp. 135-142.
6 A.MONTICONE, Problemi dell’età delle riforme in Umbria, “in Storia e cultura in Umbria nell’età moderna (sec. XV-XVIII), atti del VII convegno di studi umbri”, Gubbio 18-22 maggio 1969, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Perugia, 1972, pp. 335-357.
7 F.VENTURI, Elementi e tentativi di riforma nello Stato pontificio del ‘700, in “Rivista Storica Italiana”, LXXV, (1963), p. 778; il Venturi ritiene iniziatore del pensiero riformatore e capostipite della tradizione settecentesca F.NUZZI, col suo Discorso introno alla coltivazione e popolazione della Campagna romana, Roma, 1702.
8 F.VENTURI, Illuministi italiani, tomo VII, Riformatori delle antiche Repubbliche, dei Ducati, dello Stato Pontificio e delle Isole, a cura di G.GIARIZZO, G. TORECELLAN, E F. VENTURI, Milano-Napoli, R. Ricciardi ed., 1965, p. XXIII.
9 F.VENTURI, ibid., p. XXII.
10  G.LUZZATTO, Storia economica dell’età moderna e contemporanea, Padova, Cedam,1960, vol. II, pp. 171-174.
11 H.GROSS, Roma nel ‘700, Bari, Laterza, 1990, p. VIII.
12 Sul dibattito sulle riforme settecentesche nello Stato della Chiesa si segue anche E.PISCITELLI, Studi di storia economica e sociale, in “Studi Romani”, a. VIII n° 6, nov-dic. 1960, pp.712-724, in merito all’argomento le pp. 718-724.
13 E. PISCITELLI, op. cit, 1958.