Tra modelli della storia delle civiltà e dello spazio antropologico

11 Settembre 2014

Mino Mini

con Nota introduttiva di Domenico Cambareri

 

In riferimento al suo precedente articolo del 5 settembre u.s. “Estate di tornasole. Caduta della civiltà urbana” e alla Nota conclusiva di Domenico Cambareri,  Mini così scrive: << Caro Nico, ho letto con estremo interesse la tua recensione al mio articolo e te ne ringrazio sentitamente. Una sola precisazione: Il mio razzismo considera due aspetti spirituali dell’uomo biologico: gli uomini e i mutanti. I primi non ci sono più perché nessuno lotta per diventare uomo (uomini non si nasce, si diventa), i secondi nascono mutanti come degenerescenza dei primi per effetto delle distorsioni della modernità. Un  abbraccio fraterno. Mino Mini.>>.
Domenico Cambareri aggiunge questo: << In relazione a Spengler, colgo l’opportunità, oltre a quanto già succintamente scritto in precedenza, per sottolineare come un aspetto precipuo e particolarmente profondo del suo pensiero sia quasi sistematicamente ignorato e sottaciuto da tanti suoi acritici estimatori e letteralmente obliterato dai suoi acerrimi avversari. Esso è costituito dalla pseudomorfosi, concetto e modello che è risultato estremamente fecondo nell’ambito degli studi storici e delle scienze umane comparate e in particolare in quelle storico-religiose di tutto il ‘900. >>.
Ed ancora: << In questo suo nuovo articolo, Mino Mini si rifà in particolare alla teoria antica di Polibio, senza tralasciare di indicare ulteriori utili riferimenti, in particolare alla cultura filosofica ellenica. Ben scrive Mini. In realtà, al modello ciclico della storia umana sta sotteso tutto un mondo di riferimenti alla storia cosmica in cui esso è inscritto in modo affatto inscindibile. Le antiche culture orientali, indoeuropee e non, lo indicano in modo chiarissimo, e la letteratura di riferimento è molto vasta, oltre a quella quasi canonica costituita dal nome di René Guenon. L’importanza dei movimenti cosmici era tale e tanta che essa veniva ad “animare” e informare non pochi aspetti centrali delle trame delle cosmogenesi e delle teogenesi, non ultima quella propria alla religiosità e all’antica religione dualistica persiana. I nuovi orizzonti che ci sono stati aperti da pochi decenni dalle interpretazioni “non accademiche” dell’archeo-astrologia porteranno a sempre meno inattese e profonde correzioni del tradizionale e asfittico panorama interpretativo rispetto al ruolo degli astri e dei mondi presso altre civiltà, quale quella egiziana in particolare; e riplasmeranno la storia delle antiche civiltà in modo molto ampio, anche al di là dalla concezione ciclica della storia. La ciclicità ellenica e le sue quattro età (come non di meno quella romana e quella germanica), indubbiamente si muove entro un orizzonte cosmico di … yuga e kalpa … in cui l’umanità è la protagonista. Essa è resa peculiare dall’introduzione di un fattore di rottura “asistematico”: l’arroganza o hybris (guerriera, ma in realtà pre-umana e umana), ovvero dalla particolare condizione di “devianza” insita in nuce nella natura umana.
In questo suo ulteriore intervento, Mini delinea una sua particolare interpretazione del concetto di ciclicità della storia umana, interpretazione degna di sicura e intelligente attenzione. A differenza delle diverse e precedenti concezioni antiche e moderne, e a differenza del modello del procedere dialettico a spirale hegeliano, egli propone il modello sinusoidale, ritenendo questo moto e modello temporale (recepito dalla relativa immagine del moto spaziale) come il più atto a dare contezza delle altrimenti recalcitranti e inspiegabili “aberrazioni” di particolari aspetti dei fenomeni storici, specie quelli considerati negativi, risultanti irrazionalmente persistenti e non soggetti a veloce consunzione, rispetto alla loro forzata collocazione entro il già definito quadro morfologico delle civiltà e della storia universale. La “spanatura” della vite sarebbe la tabe che spiegherebbe queste anomale e persistenti oscillazioni, la tabe che darebbe contezza delle devianze e “aberrazioni” rispetto al quasi armonico e uniforme progredire del moto spiraliforme, in sintonia con i ritmi cosmici in cui la storia umana è inavvertitamente incardinata. Non meno degna di rilievo è la motivazione secondo cui  il mutamento della concezione ciclica del divenire inerisce i concetti basilari di stabilità e di mutamento quali estremi del suo intervallo: cosa degna di approfondimento e che simultaneamente richiama i simboli delle due colonne alle porte del tempio di tradizioni esoteriche. >>. Domenico Cambareri

 

 

ANAKYKLOSIS O DELLA CICLICITA’

 

 

 

 

Chiusi i corsi di Polaris su FINANZA E POTERE (Polaris 15,) avevo in animo di riprendere l’argomento ampliando alcuni concetti formulati in precedenti articoli, apparsi come Riflessioni, su queste pagine. In maniera occasionale avevo accennato alla realtà edificata (la città) come simbiosi di uomo e natura, al concetto di crisi e decadenza, al concetto di “misura” della stessa realtà. Avevo altresì accennato al fenomeno di mutazione dell’uomo organico in cyborg e delineato il concetto di organismo. Nell’intenzione, tutto ciò doveva aprirmi la strada verso la presentazione, sotto forma di metodo operativo, di una mathesis che ponesse, operativamente, i termini per il superamento della crisi della modernità. Sennonché mi sono reso conto di aver obliato un concetto cardine per la comprensione della mathesis che proprio il tentativo di riprendere l’argomento dei corsi ha messo in luce: l’anakyklosis (in greco) o anaciclosi.
L’anakyklosis è la forma settoriale con la quale, in campo storico-politico e filosofico, si esprime il principio della Ciclicità. Essa, infatti, è la teoria dell’evoluzione ciclica dei regimi politici la cui formulazione si fa risalire a Polibio. Non il liberto di Claudio, amico di Seneca, fatto uccidere – si disse – da Messalina, ma il Polibio greco di Megalopoli nato 247 anni prima ai tempi di Scipione l’Emiliano (c.a 200-118 aC). Secondo questa teori,a le tre costituzioni, monarchia, aristocrazia e democrazia sono soggette ad un progressivo deterioramento: la monarchia degenera in tirannide venendo abbattuta dall’aristocrazia; questa degenera, a sua volta, in oligarchia venendo sostituita dalla democrazia che – per la stessa teoria- degenera in oclocrazia e viene sostituita dalla monarchia. Si ha, in tal modo, una successione secondo un andamento circolare del tempo e, giunti all’ultimo stadio, il processo ritorna alla forma iniziale di partenza ricominciando il ciclo. Questa teoria godè di enorme fortuna nel mondo antico e fu riscoperta e adottata in età umanistico- rinascimentale ispirando il nostro Machiavelli e, sopratutto, il nostro Giovanbattista Vico. Fu, invece, osteggiata dalla chiesa sin da S. Agostino che nella “Città di Dio” tentò di dimostrare la fallacità dell’anakyklosis. A suo dire, non esistendo, in questa concezione, un inizio del tempo né una sua fine, ma tutto svolgendosi in modo uguale da sempre e per sempre, preludeva ad un cosmo la cui durata si profilava come una ripetizione di eventi. Dottrina che, nella logica del padre della chiesa, conduceva alla reincarnazione delle anime, ovvero alla metempsicosi e quindi in contrasto con la verità della tradizione ebraica e cristiana per la quale “in principio Dio creò il cielo e la terra ” ed, insieme ad esso, il tempo. Da questo punto iniziale, il tempo si sarebbe sviluppato unilateralmente in avanti verso un futuro che avrebbe avuto un limite.
Ponendoci al di là della agostiniana “dimostrazione per fede” e ponendoci su un piano puramente razionale ci troviamo in presenza di due concezioni del tempo: una concezione ciclica che, secoli prima di Agostino aveva elaborato una visione cosmica del mondo portando l’uomo a raggiungere vette impensabili nel campo del pensiero e dell’arte ed una concezione lineare che prima di Agostino non aveva generato altro che una visione ideologico-religiosa della realtà. Sennonché le due antitetiche concezioni del tempo hanno portato in superficie un conflitto ancora oggi non risolto: la concezione della ciclicità – secondo i suoi detrattori – ha rappresentato per secoli la ineluttabile condizione di assoggettamento dell’uomo al mito cosmico dell’eterno ritorno dell’uguale senza possibilità di pervenire alla libera scelta di creare il proprio mondo, mentre la concezione lineare ebraica e cristiana ha aperto all’uomo il dominio della natura per grazia divina e lo ha spinto alla creatività ed alla novità. In realtà le cose sono andate diversamente. La concezione ciclica non è – e non è stata – una linearità circolare, che gira in circolo ritornando sempre sullo stesso punto come la intendeva S. Agostino, bensì un processo, secondo l’intuizione di Eraclito, di due cicli cosmici: un ciclo all’in giù, di degradazione della forma in materia e un ciclo all’in su di risalita dalle forme della materia alla forma originaria. Una concezione che, attraverso il mito ha guidato la costruzione del mondo nell’ambito dell’equilibrio cosmico di uomo e natura fino all’avvento dell’era volgare.
La concezione ebraico-cristiana, invece, si è dispiegata tormentosamente per più di duemila anni, con un breve periodo di rinascita della ciclicità, trasformando il rapporto cosmico di uomo e natura in dominio conflittuale dell’uno sull’altra. L’esito è l’attuale condizione di crisi che sta precipitando in una fase di decadenza apparentemente senza fondo di cui un aspetto settoriale è quello che ha fornito l’argomento dei corsi di Polaris.
Qualcuno si chiederà che senso abbia, oggi, parlare della ciclicità posti, come siamo, di fronte alla crisi incombente. Più banalmente: a che serve?
La risposta sta nel dramma della modernità: le conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali ovvero nell’eterogenesi dei fini.
Dopo che la concezione biblica di un tempo lineare ha pervaso il pensiero dell’uomo occidentale per almeno due millenni guidandolo nella concezione delle scienze e nelle conquiste della tecnica e dell’economia, raggiungendo risultati settoriali spesso al di là di ogni immaginazione, la modernità si è trovata davanti alle sconfitte più brucianti per il suo demiurgico orgoglio: non riuscire a prevedere l’esito dell’attuazione delle sue scelte nel campo dell’azione umana sia individuale che collettiva. Sfugge all’uomo moderno, ignorando il rapporto uomo e natura, il senso della totalità ed incappa, quando tenta di dar forma alle sue scelte, nel totalitarismo. Si pensi al caso del totalitarismo economico della finanza vittorioso sul totalitarismo etico-economico comunista. Una lotta tra figli della modernità. Ciò si spiega se si pensa all’impossibilità della concezione lineare di andare al di là di una successione di attimi tutti uguali e quindi di ipotizzare, con certezza, il divenire.
Diverso è il caso della concezione ciclica del tempo e del rapporto dialettico fra uomo e natura. La realtà – il rapporto in questione – è un processo in continuo divenire dove ogni mutamento avviene con il preciso fine di realizzare una nuova e necessaria condizione di equilibrio nel rapporto uomo- natura. In definitiva, questo processo contempla la presenza di due principi apparentemente contraddittori: la stabilità e il mutamento. In altri termini: la tradizione ed il divenire. Che tale condizione sia solo apparente si spiega: la stabilità è data dal rapporto dei due fattori uomo e natura; tale valore, espressione della condizione di equilibrio necessaria alla sopravvivenza, deve essere costante e quindi stabile, permanente nel tempo. Perché questo avvenga, però, occorre che al mutare di uno dei due fattori anche l’altro cambi. Da ciò ne viene che il cambiamento è la condizione evolutiva necessaria al mantenimento dell’equilibrio nel rapporto uomo-natura.
Come si può comprendere, la storia del rapporto uomo-natura si esprime, appunto, come alternanza dialettica di permanenza e mutamento.
Sembra un ossimoro, ma non lo è tanto è vero che la logica matematica afferma che una legge che comprenda e leghi in sistema le due condizioni di permanenza e di mutamento è una legge ciclica dove il mutamento – il divenire – assume una stabilità, cioè un comportamento continuo: quello che si dice un comportamento ciclico.
Sul concetto di tempo ciclico non dovrebbero esservi dubbi: si sviluppa per periodi determinati dal ripetersi o dal rinnovarsi più o meno costante di un fenomeno. Che il processo di formazione e di sviluppo di una civiltà segua, appunto, una legge ciclica ne erano convinti gli antichi greci (che adottarono la ruota come flusso circolare del tempo), i romani, gli indiani (in particolare i buddisti), i cinesi (ying-yang) e tra i moderni Vico, Comte, Nietzsche, Spengler alla maniera di Eraclito, Georg Simmel, Evola – per citare i più conosciuti – ed altri. Ebbene, nel caso di un organismo simbiotico immaginiamo, per semplificare di molto, che tale legge ciclica sia esprimibile figurativamente con la proiezione del moto circolare di una ruota che giri intorno ad un perno. Se riportiamo su un asse perpendicolare orizzontalmente al perno l’altezza della proiezione di un punto situato sul bordo della ruota in movimento, otteniamo un tracciato continuo chiamato sinusoide. Avete presente i grafici che rappresentano le oscillazioni sismiche o le pulsazioni cardiache sullo schermo del computer del vostro cardiologo? Beh, quei grafici sono sinusoidi. Il nostro caso di ciclicità, però, ha una particolarità inconsueta: la superficie su cui si dipana l’asse della sinusoide non è piana come un foglio, ma segue l’andamento della spira ascendente avvolta – come la spirale di una vite – su un cilindro dalla geometria particolare. Spiegare questa geometria richiede nel lettore delle conoscenze nel campo della matematica che non tutti posseggono, ma visivamente possiamo dare l’idea di questo “cilindro” particolare.
Conoscete Larderello, vicino Pisa? Vi sorge una centrale geotermica con delle torri di raffreddamento assai suggestive la forma delle quali assomiglia molto al nostro “cilindro virtuale”. La loro forma si chiama iperboloide ad una falda. Immaginate questo iperboloide come il nucleo di una vite “conica” la cui impanatura o filettatura sviluppantesi e restringentesi asintoticamente all’infinito verso l’alto, sia percorsa dalla sinusoide di cui sopra. Abbiamo, così, la rappresentazione di un ciclo a spirale ascendente. Normalmente il moto del nostro punto periferico della ruota, che assimiliamo a quello della nostra civiltà, procede nel cammino con i suoi periodi o cicli di ascesa e declino secondo il percorso lungo l’impanatura della vite che, essendo dotata di un “passo”, porta la civiltà a ritornare sulle sue posizioni ma ad un livello o grado più elevato. Il livello – o scala – superiore è quello in cui il metaforico punto si trova dopo aver compiuto un giro di vite, cioè una spira. E’ la rappresentazione concettuale della tradizione (l’eterno ritorno) e del divenire (il passo della vite).
Se però la filettatura della nostra metaforica vite si spana, il nostro metaforico punto sul bordo della ruota (la nostra civiltà) si ritroverà a girare sempre sulla stessa spanatura con un ripetersi senza sbocco e senza salti di livello dei periodi di ascesi e declino. Avremo, allora, che il processo andrà furori orbita ovvero fuori filettatura. Come a dire fuori del solco della tradizione.
 E’ quel che è accaduto alla nostra fase civile: incorrere nella “spanatura della vite” senza avanzare in salita e con effetti disastrosi. Rimanendo nell’analogia: la nostra ruota-civiltà mossa dall’impulso verso la salita all’infinito, all’assoluto, nel momento in cui è incorsa nella spanatura ha diretto la spinta in orizzontale dove il minor “attrito” ha provocato l’aumento a dismisura della velocità dei processi non già dell’intero organismo civile, che è rimasto fermo al livello in cui si è rotta l’impanatura, ma dei suoi componenti: logica e scienza, economia e tecnica, etica e politica, estetica. Fuori dell’unità della coscienza e in conflitto tra uomo e natura, ogni componente ha sviluppato un proprio processo di crescita, ma non più organico bensì lineare, progressivo, quantitativamente inflazionistico e perciò stesso programmaticamente totalizzante. La modernità, come si è detto, ha visto imporsi come momento totalizzante rispetto alle altre componenti, l’economia nel suo aspetto ideologico: l’economicismo ovvero l’ideologia del capitale. Nella forma liberista, nella fattispecie del denaro o in quella statalista, nella fattispecie della forza lavoro, il capitale ha coinvolto, nel proprio conflitto interno, tutte le altre componenti della civiltà.
Vi fu, con il formarsi di un sentimento più organico, ma ancora immaturo, dell’esistenza un tentativo velleitario di rimessa in orbita, di spinta in avanti della civiltà verso il superamento della rottura del solco della tradizione. Ne conosciamo fin troppo bene l’esito: la reazione, sopiti i conflitti interni al capitale potenziò lo stesso, si ammantò di moralità e instaurò il suo dominio.
Torniamo all’oggi, al nuovo millennio che ci vede ruotare senza sbocco intorno al fusto della nostra metaforica vite, ai temi ed agli interrogativi impliciti nel corso di Polaris. La condanna della modernità il suo peccato originale, come abbiamo detto, è dato dall’ incapacità di prevedere – le conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali ovvero nell’eterogenesi dei fini. E’ chiaro come questa sia la tabe da cui emendarci e solo la ciclicità ci consente di praticare – con una speranza di successo – l’arte della previsione seguendo l’andamento dei fenomeni espressi, appunto, ciclicamente. Ma per arrivare a tanto occorre reimmettere in orbita il processo della civiltà, superare la rottura del solco della tradizione, ma stavolta con più maturità, con valori espressivi di funzioni più articolate che in passato.
La reimmissione in orbita comporta un grande salto culturale che riconduca la inflazione settoriale delle componenti l’organismo civile all’unità per superare e risolvere i problemi posti, ad esempio, dalla eugenetica di ritorno, dalla demonìa del denaro squilibratore della funzione economica, dalle aberrazioni e dalla dissociazione morale provocata dalla proletarizzazione per ricondurre l’individuo alla libertà responsabile; dalla desertificazione che si manifesta nella solitudine annichilente delle espansioni urbane dove si vive solo virtualmente. E ancora, dall’aridità spirituale dovuta all’impossibilità di stabilire un percorso verso l’assoluto (l’infinito della vite metaforica). Infine, occorre riconquistare il diritto a perseguire il più alto fine dell’uomo: creare il proprio mondo quale inveramento dello spirito nella materia, dell’uomo nella natura, quale ponte tra Cielo e Terra.