Mini: crollo della civiltà urbana e necessità di andare oltre

12 Aprile 2015

Mino Mini

C’è bisogno estremo di coraggiose scelte normative in grado di porre fine allo sciacallaggio politico-sindacale e speculativo a scapito degli incapienti e degli emarginati onesti, anche al fine di sottrarre i più deboli al racket dei violenti e alle espulsioni forzate, di azzerare il mercato clandestino dell’edilizia rubata e distrutta, di ridare certezza al reale esercizio di godimento e preservazione della proprietà  privata. In urbanistica, i tempi sono più che maturi per superare le alienazioni delle periferie meccanicistiche, delle periferie più periferie delle altre, delle periferie pungi chiusi e lotta di classe per tornare all’idea di città mediterranea e organica. Sono più che maturi i tempi per investire in edilizia popolare con la certificazione della qualità dei prodotti utilizzati dalle ditte e con garanzie estese, durevoli, puntuali, anti racket partitocratico e anti corruzzione. Giacché la prima vera mafia che ci distrugge è quella del delle corruttele partitiche, del sistema politico imperante e dilagante, e quindi di quelle pubbliche. Il marcio e il cancro: la partitocrazia e la gestione del potere non profittevole a pro della società ma a pro del meccanismo politico partitocratico e delle sue sterminate ramificazioni mafiose. – Eulà

 

Caduta della civiltà urbana /4

SUBALTERNITA’

 

 Dà il via alla settimana santa della MalaPasqua l’assessore capitolino alle Politiche sociali Francesca Danese :<< Ho la città che mi sta esplodendo sotto le mani >> dice parlando al convegno << La mafia non abita qui!>> mentre in via Amarilli – zona La Rustica – vigili e rom bosniaci si scontrano a causa di un tentativo di sgombero necessario per far fronte ad un incendio. La mafia non abita lì, forse, ma al Tuscolano un’organizzazione, sgominata dalla polizia del Commissariato locale, si dedicava ad occupare case in immobili disabitati di proprietà pubblica per conto di abusivi stranieri ad un prezzo oscillante tra le quattromila e le ventimila euro ad appartamento.
Poco tempo prima era ritornato alla ribalta televisiva il problema di Tor Sapienza a Roma per via di quaranta sfratti comunicati dall’ATER ad occupanti abusivi ed il TG2, in un servizio di approfondimento, lo aveva associato al caso del Villaggio Olimpico di Torino invaso da extracomunitari e da disperati ed a quello di via Padova a Milano, occupata da viados brasiliani per farne la piazza del mercato della prostituzione trans. La macchina da presa aveva indugiato, quasi morbosamente, sulle condizioni miserevoli degli edifici di edilizia sociale bisognosi di manutenzione a Roma evidenziando intonaci distaccati, finestre dagli infissi rotti, porte rabberciate, ascensori non funzionanti etc.; a Torino era entrata dentro gli alloggi della struttura olimpica ridotti a tuguri brulicanti di una turba di esseri viventi; a Milano i microfoni avevano tentato di registrare lo sdegno degli abitanti nel vedersi sottrarre, con violenza, uno spazio interconnettivo della periferia come i marciapiedi di via Padova.
Qualcosa di nuovo sotto il sole?
No. Il tardivo approfondimento del TG2 ha aggiunto poco o nulla ad altri casi di degrado urbano documentati da altri programmi TV. Interi edifici di nuova costruzione, ad esempio, sono stati “svenati” con l’asportazione dei fili di rame dell’impianto elettrico sfilabile sottotraccia trasformandoli in una sorta di informe ed ingombrante Golem cibernetico privo di vita: fermi gli ascensori e le comunicazioni verticali, spenta l’illuminazione e l’energia, spente le autoclavi, i sistemi di condizionamento climatico, quelli elettrici di sicurezza e antincendio. La vita dei cyborg, alimentata dalle prese di corrente vi è resa impossibile: sarebbero stati muti i televisori , le radio e ogni comunicazione con il mondo esterno, sarebbero state spente le lavatrici, i forni a microonde, gli scaldabagni e tutti i piccoli elettrodomestici di uso quotidiano. A questo punto, ucciso l’edificio, ne è iniziato lo smembramento. asportandone dai bagni, gli apparecchi igienici nuovi di zecca – ad eccezione degli incomprensibili bidet – nonché i lavelli dalle cucine e, va da sé, le costose rubinetterie.
Cronaca di una morte annunciata che la televisione d’inchiesta ha debitamente documentato e trasmesso, senza chiedersi – mai una volta – quale fosse la causa di questi effetti. Preoccupata, questo sì, di individuare i colpevoli delle depredazioni, di imputare ai vari ATER l’incuria degli edifici, di denunciare la sin troppo sfruttata, mediaticamente, “emergenza abitativa”, di mostrare il cuore sanguinante per le condizioni incivili in cui “sono costretti a vivere” i poveri occupanti abusivi e gli immigrati.
Ma chi li “costringe a vivere” miserevolmente, l’indigenza o piuttosto la mancanza di dignità?
Facciamo a capirsi con una breve digressione. Non è giustificabile che venga occupata abusivamente una casa disabitata, ma è comprensibile che ciò accada a fronte di una condizione di indigenza che precluderebbe il dare un ricovero ad un infante, ad una donna incinta, ad una giovane madre con prole, ad un vecchio e via elencando. Non è, però, comprensibile e tantomeno giustificabile che l’abitazione occupata divenga una discarica di rifiuti, che sia lasciata all’incuria o, peggio, venga deliberatamente ammalorata o deturpata come i servizi televisivi ci mostrano e come le condizioni di certi spazi della città denunciano. Se un soggetto non ha rispetto di se stesso e pretende di imporre agli altri questa sua deficienza non è un indigente perché povero, ma perché miserabile moralmente. E ciò indipendentemente dal fatto che sia italiano, mezzo italiano, comunitario, extracomunitario, clandestino o regolare; quale che sia l’età, il colore della pelle, la religione professata, il paese di provenienza. La dignità del povero merita rispetto, l’indigenza morale richiede l’esecrazione. Chiuso l’inciso.
Torniamo alla causa di tutto quello che sta accadendo nelle periferie delle città. Come avemmo modo di ribadire più volte su queste pagine la periferia, in senso stretto, è “un fenomeno tutto moderno dovuto alla frammentazione dell’unità dell’esistenza, non è soltanto la borderline di un insediamento, ma identifica tutto ciò che risulta marginale alla città intesa come espressione concreta, tangibile della civiltà”. Nel senso espresso ogni insediamento moderno è, a nostro modo di vedere, una periferia, ma al proprio interno vi sono zone che – parafrasando Orwell – sono ” più periferie delle altre” perché espressione di subalternità di una classe sociale rispetto alle altre. Stiamo trattando degli insediamenti di edilizia residenziale sociale – in sigla ERS – che non molto tempo fa, quando si parlava e si scriveva politicamente scorretto, veniva denominata edilizia economica e popolare.
Precisiamo: Il fenomeno dell’edilizia per gli abitanti meno abbienti non è un’invenzione moderna. La Serenissima repubblica di Venezia, ad esempio, aveva realizzato l’esemplare quartiere delle Zattere; a Firenze ed a Roma istituti religiosi, pii sodalizi, confraternite religiose avevano contribuito all’edificazione delle loro città di residenza con edilizia destinata a categorie di abitanti meno abbienti e potremmo citare altri notevoli esempi. Si era in presenza di fenomeni urbani di entità modesta dal momento che l’umanità, allora, era ben lontana dalla sovrappopolazione che ci affligge oggi.
Tuttavia il carattere distintivo di quell’ edilizia era quello di essere agente formatore dell’organismo urbano perché lo stesso era l’unità simbiotica di uomo e ambiente edificato. Fu solo con l’avvento della società borghese, figlia dei Lumi e della visione meccanicistica dell’esistenza, che si verificò la scissione fra uomo e ambiente e, al tempo stesso, la divisione della società in classi contrapposte che ha dato luogo alla distinzione delle rispettive zone residenziali. Da noi assai meno che nel resto d’Europa.
Senza dover ripercorrere le vicende storiche che caratterizzarono il fenomeno della nascita dei suburbi – e quindi delle periferie – nonché quello dell’accentuarsi della contrapposizione fra le classi dovuta alle ideologie con i conseguenti fallimenti nella costruzione dell’ “uomo nuovo”, rapportiamoci al nostro immediato dopoguerra. Il regime appena decaduto, che aveva ereditato l’ICP – Istituto Case Popolari – nato nel 1903 per volontà di Luigi Luzzatti, ne aveva affidata la direzione, nel 1928, all’architetto Alberto Calzabini. Questi aveva adottato il principio guida di evitare la creazione di quartieri di edilizia economica e popolare che evidenziassero la subalternità di classe degli abitanti cui erano destinati. Nelle intenzioni del regime fascista, che alla stregua delle altre visioni ideologiche perseguiva la formazione dell’uomo nuovo, la contrapposizione fra le classi doveva superarsi nel quadro di una visione organica della comunità che si esprimesse soprattutto in una “idea di città”. L’edilizia ICP, pertanto, avrebbe dovuto – come fece – fondersi con il resto della città partecipando da protagonista alla costruzione della medesima.
L’ “idea di città”, che avrebbe dovuto superare quella borghese frutto della speculazione fondiaria ed edilizia, non superò mai la fase intuitiva e aurorale. All’interno della cultura architettonica del tempo, infatti, relegata in margine la cultura accademica, si svolgeva un confronto aspro all’interno del cosiddetto Movimento Moderno tra i fautori di una visione “mediterranea” e organica della città contemporanea e i sostenitori della visione meccanicista della stessa che si esprimeva attraverso i CIAM e la Carta d’Atene. Non era estraneo al confronto il fatto che Le Corbusier, il corifeo della visione meccanicistica della Carta, fosse – allora – un ammiratore del fascismo come rivela Xavier de Jarcy in Le Corbusier, un fascisme français. Sta, di fatto, che la visione meccanicista prevalse. Negatrice della città degli uomini per scelta culturale elaborò un <<modello>> di città meccanica esemplificato dallo zoning e dagli standards statuiti dalla legge n. 1150/42 altrimenti nota come legge urbanistica . Con il dopoguerra si aprì il vaso di Pandora, ritornò la divisione classista della società, la tecnica urbanistica regredì al 1875, l’anno del piano di Berlino, e nacquero le ” periferie più periferie delle altre”.
I vari piani di edilizia economica e popolare del primo dopoguerra, UNRRA, GESCAL, INA casa,  Piano Fanfani, generatori di periferie, furono presto soppiantati dal più drammatico agente dissolutore della città :il piano L.167/62 per l’edilizia economica e popolare. Frutto della politica egemonica in campo culturale dell’allora P.C.I., il mondo della cultura architettonica si sentì investito del compito di riformare la società creando ,infine, l’”uomo nuovo”, formato dalla lotta di classe, per il quale veniva inventata la casa economica e popolare in una zona marginale alla città, ma innovata nella concezione e protetta da ogni contaminazione borghese. La formula realizzatrice prese le mosse – e non poteva essere diversamente- dalla “macchina per abitare” concepita dall’ex fascista Le Corbusier e dalla utopia ottocentesca del falansterio di Charles Fourier.
Il piano di zona L.167/62 fu, per l’appunto, il campo di azione nel quale poterono esercitarsi le velleità riformatrici degli esponenti della cultura ufficiale – quella delle università, degli uffici tecnici pubblici, degli IACP – che, allora in auge, alligna tuttora nella pubblica amministrazione. A quella pseudo-cultura dobbiamo il formarsi dell’”arcipelago gulag” di periferie-dormitorio senza identità che non sia quella dell’alienazione, dell’insicurezza, del degrado. Sempre alla stessa dobbiamo la incapacità di previsione e di progettazione di edifici all’insegna del gigantismo che avevano, nella impossibilità di gestione e manutenzione i loro “piedi d’argilla”.
La cosiddetta cultura moderna non ha mai studiato le città degli uomini e i loro processi di formazione perché ritenuti fuorvianti in quanto espressioni di un passato da cancellare. Si è accecata mutilando le proprie capacità di giudizio e si è affidata all’estro più sfrenato ed imbecille ritenendo che bastasse la conformità agli standard urbanistici della città meccanicistica per cacciare il loro “uomo nuovo” nell’inferno delle ” periferie più periferie delle altre” dove “sorge il sol dell’avvenire”, dove orde di miserabili cacciano con la violenza le infelici vittime nate subalterne, marginali, al resto della città, dove nuove ondate di miserabili venute dal profondo dell’Africa rifiutano di vivere per mancanza di vittime sulle quali esercitare la loro forma di parassitismo.
C’è chi propone di recuperare gli edifici ormai fatiscenti, di integrarli con i “servizi” riproponendo il degrado della vita urbana all’infinito. Si innescherebbe un processo infame di dispendiosa manutenzione straordinaria seguito dal degrado conseguente l’errore iniziale di pianificazione gestionale cui seguirebbe una nuova dispendiosa manutenzione straordinaria.
Le periferie sono infette e lo sono antropologicamente prima che urbanisticamente. Vanno distrutte nella loro concezione meccanicistica e ricostruite in una visione diversa dell’umanità che dovranno ospitare e dell’organicità urbana. Se mai si volesse affrontare il problema. Diversamente che vadano in malora.