FUAN Catania. Gagliardi quegli anni di pericoli contro masse ubriache e regime. In memoria di Felice Merotto

 

13 Ottobre 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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AMOR

ROMA

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Per Felice, come per Stella. Il nostro ’68 fu tutto diverso.

Il nostro presente e il nostro futuro prossimo 

rimarranno grigi e anonimi?

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Il 13 luglio, esattamente tre mesi addietro, cessava di battere,

in modo affatto inatteso per tutti,

il cuore di Felice,

nonostante stesse in degenza da diverse settimane in una struttura ospedaliera di Catania.

Felice Merotto,

il simpatico, sempre effervescente e indimenticabile camerata siculo-veneto che conobbe non meno di altri  giovani universitari del FUAN  il  vero volto del regime partitocratico assoggettato alla banda filosovietica.

Felice Merotto

Quanto abbiamo scritto per il ricordo di Stella Rao, qui lo scriviamo ancora per Felice Merotto e per tutti quanti noi, per chi è in vita e per chi ci ha lasciati:

Primavera di una generazione che si trovò completamente immersa nella violenza politica scatenata dagli obiettivi perseguiti con la più implacabile determinazione dai vincitori che si erano posti già nel ’45 su fronti contrapposti. Violenza politica quale duplice espressione degli strumenti della strategia indiretta e della controinformazione/disinformazione, attuata d’un lato dai governi democristiani per la sempre più traballante egemonia politica per le usuranti lotte intestine e con gli alleati minori e per la crescita elettorale del PCI e le azioni dei primi gruppi armati dell’ultrasinistra. Dall’altro lato, come risultanti e frutti delle operazioni di destabilizzazione realizzate dalla infiltrazione sempre più ramificata e profonda azione dei servizi di spionaggio dei Paesi del Patto di Varsavia e, per contro, dallo sbarramento messo in opera da quelli occidentali, in primis la Cia.
In un siffatto contesto di cronici, accesi contrasti partitici, paralisi dell’azione di governo e affossamento totale della funzione e del ruolo del parlamento, l’alternativa comunista era diventata pericolosamente credibile. Ciò aveva radicalizzato la lotta politica nelle piazze e in ogni dove con lo scontro oratorio che istigava apertamente all’attacco e blandiva con il silenzio in riferimento al ricorso ad ogni altro mezzo nell’attuazione della violenza aperta. Classico topos dei sindacati e della sinistra estrema diventerà infatti il Cipputi, l’operai senza cervello armato di chiave inglese o sbarra di ferro.
Il successo elettorale della piccola forza della destra sociale neofascista, il MSI (forza antisistema sul piano di puro principio ma di nessuna fattibilità politica, a differenza di quella rappresentata dal PCI) avvenuto dapprima in Sicilia e poi a livello nazionale, frutto della reazione della piccola borghesia costituita dai dipendenti pubblici ancora non sindacalizzati e non massacrati, dai piccoli e medi proprietari terrieri e dai commercianti, scatenò una spiralizzazione estremamente accentuata, di cui ancora oggi ne possiamo cogliere la pericolosa portata nelle parole di un fanatico esponente della sinistra democristiana, antifascista e partigiano di rango (come era stato già giovane fascista filonazista di rango, come Giorgio Bocca), parole che in maniera martellante furono amplificate per anni dai media e poi attuati pienamente sul piano politico dal nuovo leader democristiano Ciriaco De Mita con l’artificio dell’arco costituzionale e dal primo governo frutto di questo mistificatorio artificio: il primo governo dell’ex garante pro USA, Giulio Andreotti (assieme a Emilio Colombo). Le parole sconsiderate e l’azione sconsiderata di P. E. Taviani.
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Di fronte alle fiumane interminabili dei cortei delle più diverse e violente organizzazioni dell’ultrasinistra e dei sindacati “confederali”, i giovani di destra erano quasi capocchie di spillo. Nonostante le migliaia di studenti e perfino di operai che sfilavano insieme durante le grandi manifestazioni di protesta dell’estrema destra parlamentare come a Catania, Napoli e perfino Roma. La loro presenza e la loro azione costituì un eccezionale, per quanto impari, contrappeso allo strapotere e alla straviolenza della piazza comunista filosovietica. Essi hanno scritto pagine di storia rese anonime da un vigliacco sistema di filtraggio della diffusione dell’informazione.

Felice Merotto da giovane
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Il regime assorbì velocemente entro la sua dissennata macchina divoratrice non poche persone fra quelle che guidavano la coalizione del centro destra guidata da Silvio Berlusconi e non di meno e in particolare quelle che provenivano da questa destra nazionale e sociale. Persone che in generale si rivelarono presto sul piano caratteriale e ancor più su quello culturale e su quello della preparazione dell’operatività politica assolutamente scialbe e del tutto inadeguate a svolgere ruoli delicato e impari rispetto alle qualità richieste al fine di realizzare un passaggio politico e istituzionale di eccezionale importanza per la Nazione, davvero epocale. Trapasso così niente affatto attuato. Anzi, appena appena avviato e velocemente abortito. Sono gli anni in cui Gianfranco Fini e i suoi vennero a scompaginare, sconquassare tutto, davanti alla disillusione e alla costernazione quasi generale, sia dei militanti e dei simpatizzanti e degli elettori sia degli avversari politici delle più diverse latitudini.
Una vittoria storica, una vittoria che aveva visto la disfatta del comunismo sovietico e mondiale cadere in mille pezzi e che vedeva giorno dietro giorno le crisi ininterrotte provocate dall’azione tossica e depauperante svolta dal capitalismo finanziario internazionale (sistema raffinato di criminalità resa impune dagli organi normativi occidentali, tollerato e protetto sino alla grande crisi del 2008); una siffatta vittoria che riportava nel cuore delle problematiche politiche, politologiche, ideologiche la validità della terza via tracciata da Benito Mussolini e che imponeva agli stessi ex comunisti nostrani di sopravvivere smerciando merce contraffatta, ossia il modello della socializzazione fascista, siffatta vittoria veniva dunque orrendamente tarpata da questi tristi e vili figuri che si erano rivoltati contro Berlusconi solo per questioni di poltrone e NON di attuazione di svolte epocali in Italia e in Europa. E nel mondo.
Per realizzare dei rapporti sociali e lavorativi meno ingiusti, non classisti, più umani e “umanitari”, cioè solidali e non di inconcludente assistenzialismo, di promozione culturale sociale economica dei ceti più deboli e di accettazione delle diversità entro il principio di uguaglianza giuridica. Per dare il via a una grande trasformazione epocale, quella dell’Umanesimo del Lavoro. Umanesimo il quale intende preservare in modo rigoroso e intangibile il legittimo diritto del creatore, dell’artefice, del produttore, del grande e del piccolo organizzatore; e che non di meno intende che queste demiurgiche energie non vengano insaccate e disperse da un selvaggio, incontrollato, fatuo e disgregatore egotismo ma vengano proficuamente utilizzate entro un’impresa non meno nobile. Una più ampia, generale e universale visione che richiede addizionali, moltiplicate energie e spinte atte a compiere una globale azione di diffusione, ramificazione progettuale di tali creazioni e porre in essere il coinvolgimento e l’attivazione delle volontà e dei fecondi entusiasmi delle menti operose organizzative e ideative degli altri soggetti operanti. Al fine di promuoverne il miglioramento e il grado di collaborazione e integrazione nel più ampio processo osmotico delle imprese produttive e di tutte le figure lavorative che in esse sussistono in base agli specifici e non omologabili compiti e ruoli, dell’economia nel suo complesso e dei benefici che da ciò riceve l’intera struttura sociale, appianando così con la collaborazione la partecipazione e l’intesa i contrasti e fugando il pericolo di scontri.
Riteniamo che a Catania e in tutta la Sicilia, come a Roma, il quadro fosse analogo se non pure più drammatico, visto il disastro esistenziale e storico oltre che politico e generazionale che produsse. Le eccezioni, che pur vi furono, quale quella di Enzo Trantino, vanno sottolineate e ricordate ma non incisero e non potevano incidere in nessuna misura rilevante in un siffatto quadro degenerato. Ricordiamo, ad esempio, che il leader della coalizione, Silvio Berlusconi (da noi per alcuni aspetti difeso), agì in maniera distruttiva in parecchi ambiti e nodi cruciali della politica estera e della difesa, della politica sulle professioni e sulla giustizia sociale. Come fu ad esempio per l’annodare rapporti privilegiati e pericolosissimi con Israele anche nell’ambito della difesa e della tecnologia avanzata: sentiero non interrotto dai successivi governi. Come fu nel non bloccare ma incentivare la corriva, mafiosa legge sulla dirigenza pubblica, di dalemiana memoria.
Ricordiamo, scandalo degli scandali e ingiuria delle ingiurie, che un senatore proveniente dalle nostre file (divenuto presidente di commissione e che si sperticava in attivismi parlamentari e clericali reboanti quanto nel veicolare una concezione fondata in apparenza sui “valori” e sull’attività intellettuale ma in realtà a nostro convinto parere su quella familistica e ultraclientelare della politica) sul quale non vogliamospendere neppure una parola per appropriate contumelie, ottenne l’approvazione di un’abominevole legge con cui veniva attribuito in ambito lavorativo al parlamentare che cessava la rappresentanza elettiva un inquadramento funzionale al vertice della dirigenza. Più degenerazione partitocratica di questa, più mafia di questa, cosa poteva ancora esserci nell’ambito della “destra sociale e neazionale” e del parlamento eletto dal popolo?
Neppure tutta la prima fase storica della partitocrazia era giunta a perpetrare in modo così disinibito e sfacciato un tale misfatto! Ricorderemmo pure altre cose, a proposito di parlamentari e anche vecchi amici etnei. Ma è meglio lasciare stare. Lasciare stare, senza dimenticare e condannando. E condannando apertamente.

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IL LEADER DEL FENASP

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