Governo Draghi. Ceti marginali e salari minimi. Cosa fare?

19 Febbraio 2021 Autore: Enea Franza

LAVORO COME PRIORITA’ NELL’AGENDA DI MARIO DRAGHI

Secondo l’art. 36 della Costituzione “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Una bellissima affermazione di principio che però si scontra, come tante norme programmatiche, con una realtà produttiva che difficilmente riesce a conciliare il diritto al lavoro ed al giusto salario con una sempre più agguerrita concorrenza internazionale, spesso sostenuta da interventi statali diretti a sostegno delle imprese o del lavoro, a sfregio di ogni regola di correttezza.

In effetti, concentrandosi solo sul nostro Paese, i dati dell’ultima relazione di Eurostat, vedono quasi il 12% dei lavoratori dipendenti riceve un salario inferiore ai minimi contrattuali contro una media Ue del 9,6%. In Italia, come noto, l’individuazione della paga-base è demandata alla contrattazione collettiva dei vari settori, ovvero, la concertazione fissa le regole del salario minimo, ma manca un riconoscimento di questa prassi da parte di una legge ordinaria. In Germania, dove esiste un sistema differente, il salario minimo è stato portato nel 2019 a 9,19 Euro l’ora e dovrebbe a breve essere aggiornato.

ll presidente Usa, dopo aver aumentato la retribuzione per i dipendenti federali, ha annunciato che aumenterà il salario minimo da 7,25 (cosi fissato nel 2009) a 15 dollari l’ora per 27 milioni di lavoratori americani, accompagnando questa sua decisione con le parole: “Nessuno in America – ha detto – dovrebbe lavorare 40 ore alla settimana rimanendo al di sotto della soglia di povertà. Quindici dollari portano le persone al di sopra della soglia di povertà”.                                                                                  In 47 Stati, oltre un quarto di tutti i lavoratori guadagna meno, anche se le lotte del movimento “Fight for $15” hanno ottenuto dei risultati e dal primo gennaio 2021 venti Stati e trentadue contee hanno aumentato la cifra minima.

Il timore di un innalzamento del salario minimo è stato che, a fronte di maggiori costi, le aziende riducano il personale a basso salario, ma le rilevazioni empiriche non hanno confermano tale impressione. In effetti, alcuni degli studi condotti dalla Commissione europea rilevano che l’incremento del costo del lavoro per un salario minimo potrebbe comportare, almeno in una prima fase (soprattutto per quelle imprese rientranti nei settori in cui attualmente si applica un trattamento retributivo non adeguato), una compensazione data da un incremento dei consumi da parte dei lavoratori a basso salario, sostenendo la domanda interna (in modo pressocché automatico, in ogni caso come effetto direttamente consequenziale).

Si potrebbe, dunque, anche per il nostro Paese imboccare questa strada? Bene, per quanto la scelta possa apparire complessa, a nostro avviso, sarebbe possibile attuarla, anche con immediatezza, qualora l’istituzione del salario minimo orario fosse accompagnata da misure volte ad attenuare eccessivi incrementi del costo del lavoro e dalla detassazione degli incrementi retributivi derivanti dai rinnovi dei CCNL.

Da qui, dal nostro punto di vista, potrebbe determinarsi una svolta a favore dei consumi, asfittici oramai da oltre due anni e porre le basi per una loro ripartenza trainata. Solo allora, in un riacquistato clima di fiducia, potrebbero ripartire gli investimenti privati, congelati per l’assenza di un mercato interno dinamico.

Tra le misure, dunque, da porre con forza all’attenzione del Presidente Draghi, teniamo a sottolinearle la primarietà che riveste l’azione sul salario minimo, che come amava peraltro ripetere il Prof Federico Caffè nelle sue lezioni di politica economica  (insegnamenti che ho l’onore di condividere con il Primo Ministro), può rappresentare il fulcro centrale di una efficace azione di Governo, qualora, tuttavia, venga opportunamente articolato e concordato con le forze produttive del Paese.

Al tema del lavoro, si affianca, naturalmente, quello delle tutele, dell’accesso al sapere e alle cure primarie, nonché dell’inserimento dei giovani.                                                   E’ noto che, in questi dieci anni, i salari mediani sono diminuiti. Il part-time involontario è passato dal 50 al 67% e la capacità produttiva del nostro Paese ha perso circa il 20% in quantità e si è, senz’altro, impoverita in qualità.

Da qui, ci uniamo alla richiesta di coloro che chiedono al nuovo Governo di mettere al centro il lavoro e la giustizia intergenerazionale, , se non c’è dignità del lavoro e sicurezza sociale, non c’è, a nostro modo di vedere, vera libertà e progresso condiviso.

Enea Franza, Direttore dipartimento di scienze politiche di UniPace-O.N.U. delegazione di Roma