ARCHITETTURA URBANA, DEMOLIRE PER RICOSTRUIRE

MINO MINI

(fonte: Il Borghese, Novembre 2008)

 

DEMOLIRE PER RISOSTRUIRE

 

RIPENSARE LA CITTA’

 

        Ci voleva la rivolta nei banlieu francesi del 2005 perché il problema delle periferie ritornasse d’attualità, ma il modo in cui è stato posto e le proposte risolutive che qualcuno ha formulato, in particolare il governo con il citato art.13. Misure per valorizzare il patrimonio residenziale pubblico della L.133/08, lasciano intendere come, al fondo, permangano ancora gli equivoci che a lungo, nei decenni passati, avevano permeato le discussioni sul tema.
        Risulta ostico, allo spirito di chi scrive, dover restringere la trattazione di un fenomeno così vasto e complesso come quello delle periferie che da più di duecento anni, internazionalmente, rappresenta il paradigma tra i più significativi dei guasti della modernità,negli angusti limiti di un articolo. Soprattutto in considerazione delle ridotte capacità dello scrittore nel proporre una stringata sintesi del fenomeno con il rischio di generare equivoci Ad evitare gli stessi occorrerebbe capire bene questo fenomeno il cui processo di formazione, a partire dall’origine ravvisabile nella nascita della cocketown e nella rivoluzione industriale che generò il proletariato e la divisione della società in classi contrapposte, maturò in relazione diretta con l’esplosione demografica del mondo e delle città che ne assorbirono l’impatto e con la duplice crisi che investì l’uomo nei suoi valori civili e culturali e nella sua psiche di fronte alla velocità di espansione del fenomeno inflativo che caratterizzò, oltre la popolazione ed i suoi insediamenti, l’economia e la tecnica.
.L’economia della trattazione ci impone, però, di seguire altre strade orientandoci alla riapertura della discussione su come affrontare l’esigenza di porre riparo al degrado della città, di acquisire per le periferie i livelli di qualità urbana esistenti nei centri storici, sia in termini di funzioni e servizi che in termini di immagine approfittando del fatto che la coscienza di tale esigenza è giunta ad investire un pubblico più vasto di lettori di giornali e ebdomadari.
        Riprendiamo il problema dove, da parte nostra, lo lasciammo dopo che per anni, come sindacato architetti liberi professionisti, tentammo di far comprendere in convegni e seminari, con proposte e documenti, l’errore in cui la cultura contemporanea e la velleitaria decisione  politica si andavano a cacciare. Per non messere legati ad alcuna “parrocchia” non fummo presi in alcuna considerazione, ma soprattutto ci rendemmo conto come, di fronte ad una proposta di risoluzione del problema delle periferie che richiedesse, per la realizzazione, tempi più lunghi di una legislatura, nessun politico avrebbe  mai accettato di farsene promotore. E ciò per una ragione evidente: non avrebbe potuto essere “gestita” con vantaggio per lo sponsor politico il quale, nella lunghezza dei tempi, paventava il pericolo di “lavorare” per far godere i vantaggi dell’amminestrazione ad altri protagonisti. Fino al 1991, dopo che cinque anni avanti il Ministero LL.PP. aveva fatto uscire il Libro bianco sulla casa, rimbalzarono da un convegno ad un testo di legge, da una tavola rotonda ad un seminario, termini come recupero, riqualificazione, rinnovo che nell’uso costante del prefisso ri- presupponevano un qualche attributo o caratteristica della realtà che fosse andata perduta o resa indisponibile. Vi fu, in questo, un sostanziale rifiuto di ammettere la portata del fallimento culturale e politico all’origine del problema ed il tentativo più o meno consapevole di giustificare lo sfacelo ambientale e urbano come una condizione di degrado di una realtà pensata e realizzata in modo sano e quindi da re-cuperare, ri-qualificare, ri-novare. La verità era ed è ben altra: sia la città pianificata periferica che quella spontanea ( abusiva ) nate dalle premesse ideologiche e culturali del movimento moderno, spesso viziate da un economicismo distorto, vestito di istanze sociali, non hanno mai avuto qualità urbane né, tampoco, valori di organicità o di espressività tali da poterli recuperare, rinnovare o riqualificare. L’incapacità di gestire la crescita della popolazione altro che in termini quantitativi (grande numero di abitazioni a basso costo in tempi brevi ) se da un lato portarono alla parziale soluzione del problema dell’alloggio dall’altro, creando case senza città prive di valore urbano, provocò l’odierno sfascio ambientale. Giunta all’attuale situazione la cultura ufficiale si interroga, oggi, sulle cause e sui rimedi, ma lo fa – come abbiamo detto – seguendo gli stessi schemi e metodi intellettuali che hanno provocato il disastro con conseguenze future facilmente immaginabili. Infatti, al di là del valore estetico del tutto occasionale e avulso dall’ambiente che ha saputo conferire ai singoli edifici, è mancato e manca alla cultura contemporanea la concezione della città come organismo che, per definizione, vive e si trasforma nel tempo in un continuo divenire, in un continuo mutare, mantenendo però,la costanza di alcune componenti tipiche. A questo primo equivoco astraente del movimento moderno si aggiunge quello frutto dei limiti della impostazione culturale sul degrado. Il termine starebbe a significare il progressivo deterioramento dell’integrità e dell’efficienza ed esprime valori settoriali, ma significherebbe anche la perdita del grado ovvero, nel nostro caso, del valore categoriale e quindi universale che esprime la qualità. Valore applicabile all’organismo nei suoi diversi gradi scalari: architettonico, edilizio, urbano, territoriale. Nell’accezione più diffusa, invece, non appare coscienza di questo valore universale del fenomeno, ma solo degli aspetti settoriali. Da qui l’equivoco funzionalistico che individua, nella sola carenza di servizi,,di strutture urbane in termini di reti e di mobilità le cause del fenomeno, oppure l’equivoco estetizzante tipico,ma non eslusivo, del post-moderno in voga qualche anno fa. Per non parlare, infine, dell’ultimo equivoco in via di superamento: la visione del processo di riqualificazione nell’ambito del famigerato zoning di cui si è parlato in un articolo precedente.
 
        Metodi e schemi totalmente legati ad una visione settoriale del problema. Ma qualcosa sta cambiando se da più parti e sempre più spesso si è incominciato ad intuire che il problema della qualificazione urbana deve porsi come ripensamento, ripianificazione e riprogettazione ( qui il prefisso ri ci sta a buon titolo ) del fenomeno urbano e della sua gestione; tanto che davanti a prospettive di ulteriore espansione con conseguente creazione di nuove periferie riproponenti il problema all’infinito, si incomincia a intravedere la soluzione in termini di sostituzione dell’edificato. Si perviene alla coscienza che una città, specie quando è sbagliata, non può rimanere cristallizzata nel tempo, ma deve adattarsi alle mutate funzioni ed alle mutate esigenze se vuole sopravvivere, Proprio come un organismo che ,evolvendo, si modifica nel tempo.
        Il problema, come oggi si pone specie alla luce della legge sulla casa stravolta in parlamento, si allarga a comprendere il quesito: come effettuare la sostituzione o il mutamento?
        Al contrario di quanto propugnato nell’art.13 della L. 133/08 l’enorme patrimonio residenziale pubblico esistente ( si parla di oltre 1.121.606 alloggi ) non deve essere alienato per  far cassa vendendo degrado, ma ne va attuata una generalizzata riconversione da intendersi come qualificazione mediante demolizione e ricostruzione. Questo patrimonio, ormai vetusto, è bisognoso di interventi di restauro e manutenzione dai costi spaventosi. Inoltre è spesso infruttuoso a causa della morosità degli inquilini. Non se ne conosce neanche la effettiva consistenza. Ad esempio, l’ultimo dato conosciuto che riguardava il patrimonio della vecchia IACP romana, oggi ATER, nel 1993 registrava un debito consolidato con le banche per poter effettuare la manutenzione, pari a 400 miliardi di vecchio conio e 250 miliardi di morosità. Situazione di deficit, quella romana, affatto eccezionale e piuttosto diffusa in tutta Italia. E stiamo parlando di 15 anni fa. Non risulta sia mai stata sanata tale situazione e pare apparentemente senza rimedio in quanto non sembra possibile rimuovere gli inquilini morosi.La alienazione di tale patrimonio, voluta fortemente dai sindacati della triplice e statuita – a suo tempo – con legge n.560/93, oltre a non presentarsi affatto opportuna, a dir poco,  risulta anche poco conveniente. L’opportunità investe problemi connessi alla qualificazione urbana di cui abbiamo dato cenno con tutti i risvolti di ordine culturale e sociale che la stessa comporta; la mancata convenienza è invece di ordine economico.
        Le ragioni che supportano tali affermazioni sono tre.
        1° Ragione – Alienando il patrimonio nelle condizioni previste dalla L.n.560/93, ad esempio, si attuerebbe una manovra del tutto fallimentare in quanto si perderebbe la maggior parte del valore: quella dovuta alla posizione. Non va dimenticato che il patrimonio pubblico si è formato, principalmente, su aree cedute in proprietà o in diritto di superficie a costo zero. Le opere di urbanizzazione, quasi sempre realizzate dalla collettività, hanno aggiunto valore al patrimonio ed il continuo espandersi della città ha fatto sì che il patrimonio di aree pubbliche edificate perdesse, nel tempo, il carattere di estrema periferia per acquisire un valore sempre crescente dovuto alla posizione. Svendere, oggi, un tale patrimonio perché improduttivo o degradato, significa perdere un valore aggiunto che può, in un programma diverso, rendere tanto da risolvere agevolmente il problema del risanamento finanziario e di azzeramento del debito.
        Vedremo più avanti.
        2° Ragione – Il piano di risanamento perseguito mediante vendita del patrimonio ha presentato in passato, com’era prevedibile, difficoltà rilevanti in quanto risulta difficile riuscire a vendere, nella sua integrità, ogni singolo immobile: Il problema, in tal modo, risulta aggravato in quanto, con una vendita a “macchia di leopardo” non viene risolto l’aspetto della gestione e manutenzione dell’immobile, ma viene complicato dal fatto che rimarrebbero invendute, probabilmente, le unità immobiliari occupate dai morosi. Da questi ultimi non sarebbe possibile ricavare alcunché né risulterebbe facile farli sgomberare.
        3° Ragione – Nell’attuale condizione urbana, nella maggior parte dei casi l’alienazione del patrimonio significa, lo ripetiamo, vendere e diffondere degrado . Ciò significa scaricare sulla collettività un problema gravissimo pregiudicandone la soluzione. La qualificazione urbana sarà, per gli anni futuri, l’obiettivo prioritario che potrà essere perseguito soltanto dai detentori di grandi parti di città e, nella situazione attuale, ha assunto ormai carattere di emergenza e di sopravvivenza.
        Per le ragioni suddette, ma ve ne sono anche altre da considerare, il miglior modo per perseguire un piano di riassetto finanziario e azzeramento del debito è quello di riconvertire il patrimonio.
            Su questa strada si era messa la legge n.179/92 Botta Ferrarin subito ridimensionata dalla Corte Costituzionale. La qualificazione mediante riconversione, prendendo le mosse dall’art.16 della L.n.179/92 comma 1, dovrebbe estrinsecarsi in un programma integrato …caratterizzato dalla presenza di pluralità di funzioni, dalla integrazione di diverse tipologie d’intervento, ivi comprese le opere di urbanizzazione, da una dimensione tale da incidere sulla riorganizzazione urbana e dal possibile concorso di più operatori e risorse finanziarie pubblici e privati… come recita la legge. In altre parole si tratta di riconvertire, integrando la funzione residenziale con altre, aggiuntive, non residenziali, un patrimonio vetusto, improduttivo e fonte di dissesto finanziario, abbattendolo e ricostruendolo sotto forma di edifici residenziali di nuova concezione, uffici direzionali o per il terziario in genere, edifici commerciali, ludici etc. nell’ambito di un piano integrato che veda la sostituzione di parte o tutto l’edificato residenziale.
        D’altra parte il recupero, che è altra cosa da qualificazione attuato su edifici facenti parte di tessuti edilizi compresi in sistemi urbani storici ha avuto un senso; quello attuato su edifici situati nelle periferie, al di là degli effetti migliorativi sull’immobile, non ha inciso in alcun modo sull’intorno urbano rendendo, così, dubbia la validità economica dell’operazione. Sembra più opportuno, quindi, far ricorso al recupero quando si tratti di edifici che sorgono in ambiente urbano consolidato in termini di plurifunzionalità o anche di monofunzionalità residenziale in zone qualificate, mentre conviene far ricorso alla riconversione in presenza di zone  di cui gli enti pubblici posseggono la proprietà degli immobili e del terreno, o una parte degli stessi, in condizioni di degrado edilizio e urbanistico. Tra le due situazioni si collocano quelle ad intervento misto comprendente il recupero e la riconversione. La validità economica di una simile proposta è evidente:
a.      Si utilizza, come capitale iniziale, il valore di posizione dei           terreni migliorabile con una accorta progettazione urbanistica ed edilizia;
b.     Si introducono nuove funzioni, concretizzate in nuovi edifici,che sul mercato risultano più remunerative, più facilmente gestibili e non soggette a regime di assistenzialità;               
c.      Si abbattono edifici vetusti e improduttivi per difficoltà di gestione sostituendoli con edifici diversi, più facilmente gestibili anche con il concorso dei comitati di autogestione o di altre forme partecipative dell’utenza o della proprietà diffusa;
d.     Attraverso i suddetti comitati di autogestione o altri organismi partecipativi, si possono coinvolgere nell’operazione gli ,inquilini con diritto al riscatto ( ex art.2 commi 6 e 9 L.n.560/93) cedendo in permuta del diritto di alienazione consolidato, l’acquisto di quote-parti di vecchi e demolendi edifici, evitando la frammentazione della proprietà a “macchia di leopardo”. Gli inquilini diventano, in tal modo, dei creditori in quanto finanziatori;
e.      Si sloggiano i morosi;
f.       Si trasferiscono i non morosi in una nuova casa (erigenda ) oppure si reimmettono nella zona di nuova qualificazione con un altro contratto di affitto dopo averli alloggiati in “case parcheggio”. Contestualmente si può istituire l’analisi dell’utenza – ovvero il censimento della stessa – con la individuazione delle fasce di bisogno;
g.     Si coinvolgono nell’operazione i creditori ( vedi lettera  d precedente ) remunerando il credito con quote di proprietà di edifici non residenziali o con forme consimili. In alcuni casi di particolare condizione urbana, la realizzazione di edifici non residenziali, integrata con edifici residenziali, per il maggior valore dei primi può consentire la riconversione a “costo zero”.
        I vantaggi particolari e generali sono altrettanto evidenti:
        1. Si crea occupazione non solo nel settore dell’industria edilizia, ma in tutti quei settori, industriali ed artigianali, che contribuiscono alla formazione della città. Come si diceva un tempo: quando il mattone va tout va;
        2. Si qualifica la città. Gli enti pubblici detentori di grandi patrimoni immobiliari in generale sono enti investitori e non realizzatori. Da soli o in sinergia tra loro potrebbero avviare un gigantesco processo di qualificazione della città se si dessero un’organizzazione promozionale adeguata e criteri di management più attuali;
        3. Si ripianano i debiti e si risanano gli istituti pubblici;
        4. Si può avviare l’analisi dell’utenza (censimento). Finalmente il fenomeno potrebbe essere messo sotto controllo recuperando la morosità, specialmente nel caso degli ex IACP, oggi ATER, e dei grandi comuni;
        5. Si rinnova il patrimonio riprogettandolo in modo che la gestione futura non sia più negativa. Si opererebbe puntando, in primo luogo, alla qualità urbana ed edilizia più che alla quantità a basso costo iniziale;
        6. Si crea un ambiente urbano eco-compatibile dove l’uso di fonti energetiche alternative, la realizzazione di un sistema di raccolta e ridistribuzione dell’acqua piovana, l’applicazione di tecniche per conseguire il risparmio energetico degli edifici, contribuirebbero ad abbattere il consumo energetico delle nostre città, a produrre meno gas serra, a raggiungere quei tre 20% fissati dall’Unione Europea come obiettivo da raggiungere nel 2020 ( -20% di fonti rinnovabili, -20% di consumi energetici, -20% di emissioni di gas serra);
        7. Si attiva il mercato e si fa circolare il capitale.
 
        Gli strumenti normativi per attuare la qualificazione mediante riconversione ci sono, ma non è possibile trattarne ora. Così come dobbiamo rinviare la risposta ad uno dei quesiti formulato su Il grande inganno: chi farà tutto questo?
 
 
 
 
 
 
 
 

Lascia un commento