LA STORIA AIUTA GLI ECONOMISTI, MA NON SEMPRE INSEGNA

10 Febbraio 2009

Enea Franza

APPUNTI SUGLI UOMINI A STELLE E STRISCE DI OGGI E SULLA STORIA DI QUELLI DI CASA NOSTRA

 Il 24 novembre Barack Obama, il nuovo presidente nero degli USA, presenta la squadra economica. Vi fa pare Timothy Geithner, l’attuale capo della Federal Reserve di New York,  che prende il posto di Henri Paulson alla guida del ministero del Tesoro. Di lui si è già parlato molto nei giorni precedenti l’investitura. A poco piu’ di 20 anni, nel 1988, Geithner è entrato al dipartimento al Tesoro e, dal 1998 al 2001, ha ricoperto l’incarico di vice segretario al Tesoro nell’amministrazione Clinton, prima sotto Robert Rubin e poi sotto Summers. E’ lui a consigliare Rubin e Summers sulla crisi asiatica, avendo seguito di prima mano lo scoppio della bolla speculativa immobiliare e della deflazione in Giappone. Nasce così la sua fama di esperto di crisi economiche, che diventerà un poi il leiv-motiv di tutta la sua vita. Dopo una parentesi di due anni alle relazioni estere del Fondo Monetario Internazionale, Geithner, nel 2003, è  nominato presidente della Fed di New York, la più importante delle 12 sedi regionali della Federal Reserve, la banca centrale Usa. E’ considerato un banchiere molto pragmatico ed, in quanto capo della Fed di New York, è anche vice presidente del board della Federal Reserve. Fin dall’inizio della crisi dei mutui condivide col suo capo, Ben Bernanke, l’idea che gli Usa e l’economia mondiale non rischiano la stagflazione, cioè il temutissimo binomio: recessione + inflazione, che mise k.o. l’economia mondiale negli anni Settanta. La sua convinzione è che inflazione e crisi dei mutui non possano convivere e che prima o poi una delle due avrebbe prevalso sull’altra. Così, per ora, sembra essere avvenuto questo, visto che la spirale al rialzo dei prezzi, legata all’aumento delle materie prime, ha lasciato la scena alla recessione, innescata dalla crisi finanziaria. Egli ha collaborato con l’amministrazione Bush, in particolare con Bernanke  e Henry Paulson, che lo hanno impiegato per spegnere la crisi dei mutui, In particolare,  ha co-gestito con Bernanke e Paulson il salvataggio di Bear Stearns, la prima banca d’affari a fallire e ad essere fusa con JP Morgan e ha contribuito al varo dei piani di salvataggio di Aig e Citigroup. Unico neo, la gestione del caso Lehman. conclusasi con un fallimento assai rovinoso per l’economia USA.                                                                     Fresco di nomina il segretario al Tesoro Usa Geithner, insieme a Paulson ed al Presidente della Fed, Ben Bernanke, ha messo in piedi il piano d’emergenza per far riprendere fiato alla macchina finanziaria a stelle e strisce e da ultimo ha partecipato all’operazione di salvataggio con un nuovo intervento a favore di Citigroup.  Del team che gestirà l’economia USA, farà parte anche un volto noto, Larry Summers, ex ministro del Tesoro nell’amministrazione Clinton, che guiderà il National Economic Council, e ci sarà Christina Romer, la cinquantenne docente presso l’Università of California a Berkeley, che sarà a capo del Council of Economic Advisers, e Melody Barnes, nuovo direttore del Domestic Policy Council. E oltre alla squadra battezzata dal neo-presidente americano come i “migliori cervelli d’America”,  trapelano le prime indiscrezioni sulle strategie economiche della nuova Casa Bianca: un pacchetto di sostegno all’economia che attiverà 500 miliardi di dollari; niente aumento delle tasse ai più ricchi; tagli fiscali ai ceti medi; niente aiuti a Detroit senza ristrutturazioni idonee a riqualificare l’industria automobilistica e 700mld di aiuti sui settori trainanti del mercato americano. La ricetta abbozzata, dalle prime indiscrezioni, sembra essere una ripetizione della classica politica keynesiana di sostegno alla domanda globale: incremento della spesa pubblica, con investimenti diretti ed una politica fiscale di riduzione delle tasse per sostenere i consumi. Una politica, che avuto il grande pregio di guidare l’america fuori della palude in cui era finita dopo la crisi del ’29, ma che lascia però aperti, nell’attuale contesto, molte interrogativi.                                                 Com’è noto, l’idea centrale della macroeconomia keynesiana è che la domanda determina la produzione effettiva e, quindi, il livello di occupazione. Quando la domanda è scarsa, le imprese riducono la loro produzione (e quindi anche il numero di lavoratori occupati) fino a quando la quantità di beni offerta è pari alla domanda aggregata. Secondo la teoria keynesiana non solo è possibile ma, anzi, è piuttosto frequente che il prodotto effettivo sia inferiore rispetto al suo livello potenziale e, cioè, che possono esserci condizioni di equilibrio macroeconomico accompagnate dalla presenza di disoccupazione; il motore dell’economia si riaccende, pertanto, stimolando la domanda globale. La strada individuata nell’analisi keynesiana è quella dalla spesa pubblica. Un incremento della stessa stimolerà la domanda globale e attraverso il meccanismo moltiplicativo che la spesa genera si produrrà un incremento del reddito e dell’occupazione. La politica monetaria invece corre il rischio di non avere alcun effetto positivo nel rilancio dell’economia, ed anzi di generare una spirale negativa.                                                                Che qualche cosa si debba fare, tuttavia, lo richiedono non solo le nere previsioni del Fondo Monetario Internazionale, ma anche i primi report provenienti dalle imprese metalmeccaniche americane ed europee pubblicate tra ottobre e novembre (ed i dati dell’economia USA, indicano che i prezzi a ottobre sono scesi dell’1%, e non accadeva dal ’47) che comunicano la situazione di crisi. Nella sostanza le previsioni degli operatori economici sottolineano come la prima fase della crisi innescata dalle gravissime “marachelle” delle banche americane (complici quelle europee) lascia il passo ad una nuova fase critica dell’economia, che toccherà purtroppo le famiglie. Se la crisi finanziaria ha fino ad ottobre lasciato pressoché indenni le famiglie, in particolare quelle che vivono di reddito di lavoro dipendente e pensioni, la nuova crisi colpirà le fasce più basse della popolazione, colpendo i salari, gli stipendi ed aprendo per tanti le porte della disoccupazione, cosa peraltro già in atto da diverse settimane. La crisi che è già evidente negli Usa, sarà – dicono gli economisti – molto forte nei primi mesi del 2009, e poi dopo l’estate colpirà con virulenza anche le imprese europee. Che la crisi è nell’aria si sente e si legge su tutti i giornali che riportano le interveste e gli umori degli imprenditori, che (a loro volta) sono allarmati dalla caduta degli ordini dal mercato.                                                                                                           Che sta succedendo ? I consumatori, atterriti dalla crisi amplificata dai media, stanno restringendo i consumi e questo, in un’economia di mercato, innesta una spirale molto pericolosa di sfiducia nel futuro che non stimola di certo i consumi, di solito incoraggiati in ottobre e novembre dalle tradizionali feste natalizie. Ecco un’ evidenza del teorema di W. Thomas: se gli uomini definiscono reali certe situazioni, esse saranno reali nelle loro conseguenze.  Vediamo un pò di che si tratta e riproduciamo l’esempio di Merton: «Un mercoledì mattina del 1932, Cartwright Millingville va a lavorare. Il suo posto è alla Last National Bank ed il suo ufficio è quello del presidente. Egli osserva che gli sportelli delle casse sono particolarmente affollati per essere di mercoledì; tutte quelle persone che fanno dei depositi sono inconsuete in un giorno della settimana che è lontano da quello in cui si riceve lo stipendio. Millingville spera in cuor suo che tutta quella gente non sia stata licenziata e incomincia il suo compito quotidiano di presidente. La Last National Bank è un istituto solido e garantito. Tutti lo sanno, dal presidente della banca agli azionisti a noi. Ma quelle persone che fanno la coda davanti agli sportelli delle casse non lo sanno; anzi, credono che la banca stia fallendo, e che se essi non ritirano al più presto i loro depositi, non rimarrà loro più nulla; e così fanno la fila, aspettando di ritirare i loro risparmi. Fintanto che l’hanno solo creduto e che hanno agito in conseguenza, hanno avuto torto, ma dal momento che vi hanno creduto e hanno agito in conseguenza, hanno conosciuto una verità ignota a Cartwright Millingville, agli azionisti, a noi. Essi conoscono quella realtà perché l’hanno provocata. La loro aspettativa, la loro profezia si è avverata; la banca è fallita.» Tale comportamento umano, purtroppo, si è dimostrato vero non solo nel caso del funzionamento delle banche con riferimento ai depositi, ma ha trovato conferma anche nelle decisioni di acquisto e di vendita e di produzione per la  maggior parte dei consumi delle famiglie e nelle scelte di investimento/disinvestimento delle imprese. Va aggiunto che per i paesi a capitalismo avanzato i consumi e le produzioni sono relativi a beni voluttuari la cui domanda ha la caratteristica di essere molto elastica. Sostenere l’economia con una politica di riduzione delle tasse, come molti economisti suggeriscono, ha certamente il vantaggio di costituire un sistema rapido per “rifinanziare” il sistema, ma il clima di sfiducia generale che sta coinvolgendo tutti, lascia forti dubbi sulla reale efficacia, e cioè se l’effetto finale sarà davvero quello d’incrementare i consumi delle famiglie. A mio avviso, infatti,  la tentazione delle famiglie di ridurre la spesa è, in tale contesto, molto forte.                                                                                                             Di questo fenomeno sono succubi le fasce medie della popolazione, ovvero quella middle class che in questi anni ha sostenuto i consumi, sopportando stoicamente un livellamento nelle retribuzioni. Peraltro, una disamina delle politiche fiscali alternative alla politica di sgravi fiscali sui redditi, ad esempio un intervento diretto dello Stato, con un incremento della “spesa per investimenti” a  sostituzione all’imprenditoria privata (lo stato imprenditore) ha un carattere di lentezza che ne riduce fortemente l’impatto anti-congiunturale. Che fare, ripeto allora ?…Partiamo da dove la crisi è partita! Ho detto già da tempo, assime ad altri analisti (ed oramai il consenso è unanime), che la causa della crisi non è dovuta al fatto che alcuni paesi (CINA in primo luogo) hanno avuto forti eccessi di risparmio ed altri invece hanno solo consumato (USA); lo dimostrano, se ce ne fosse ancora bisogno, i dati economici a disposizione[2]. Ciò che non ha funzionato  è stato  il mercato finanziario che, nel formare i prezzi, non ha considerando il rischio di fallimento della controparte. Conseguentemente le banche sono state poco capitalizzate ed hanno assunto il comportamento destabilizzante prestando poca attenzione alle garanzie offerte dai soggetti prenditori di denaro.  La crisi attuale origina, in definitiva, dall’allentamento delle briglie degli stati nazionali sul mercato finanziario e dalla convinzione che il “mercato” possa da solo raggiungere un equilibrio stabile di piena occupazione dei fattori della produzione, cosa che già Keynes aveva posto in discussione tempo fa. La ricetta è dura, ma non trovo alternativa valide alla cura. Detto in breve: guidare i fallimenti necessari a pulire il mercato dalle mele marce, ovvero, da tutti i soggetti che soffrono nell’attuale contesto concorrenziale di lacci e laccioli da cui potrebbero essere liberati da un fallimento salutare. Mi spiego con un esempio: la situazione del gigante americano General Motors. La casa automobilistica americana, che è  il simbolo stesso dell’industria dell’auto, è la più grande azienda del mondo (un colosso presente in 200 paesi e che in cento anni di storia ha venduto poco meno di mezzo miliardo di veicoli) nel terzo trimestre del 2008 ha subito una perdita di 2,5 miliardi di dollari, e rischia di esaurire le sue riserve di liquidità prima della fine dell’anno. E’ a tutti noto che i problemi della General Motors, in un mercato dove operano con profitto le più grandi case automobilistiche del mondo, sono imputabili ad una serie di problemi  come le retribuzioni fuori mercato dei sui dipendenti, il consociativismo tra sindacati e classe datoriale (oramai obsoleto anche nel nostro Paese), ed i contratti vessatori con i concessionari che impegnano la General Motors con marchi automobilistici fuori mercato e fuori dalle richieste dei consumatori. Di fronte a tale situazione, solo un fallimento guidato dalla pubblica autorità potrebbe risolvere gran parte dei problemi e non procrastinare una situazione compromessa e rinviata di anno in anno dai finanziamenti a statali a fondo perduto (… ma quante situazioni simili troviamo, invero, in molte realtà anche nostrane?). Dunque, fallimenti guidati e misure di breve termine per sostenere la disoccupazione, oltre naturalmente a ripotenziare il mercato dei capitali e quello bancario, costituiscono la via maestra per cogliere l’occasione della crisi per ripulire il mercato!                  L’alternativa è un forte incremento dei deficit pubblici  degli stati ed una spirale negativa nei tassi d’interesse.                                                                                                                                                   Rileggendo tra i tanti scritti di economia  sulla crisi degli anni trenta e  sul modo in cui essa fu affrontata dagli economisti italiani dell’epoca,  ve ne è uno, che risale al luglio del 1944, di Donato Menichella, allora Direttore Generale dell’IRI e futuro Governatore della Banca  d’Italia, su “Le origini dell’IRI e la sua azione nei confronti della situazione bancaria.” che vale la pena di rileggere con molta attenzione oggi che la crisi finanziaria spaventa tanti economisti. Com’è noto agli studiosi, il documento Menichella nacque da una sottocommissione della Allied Control Commission, cui dopo l’armistizio furono demandati i compiti di governo economico dell’Italia in collaborazione con il Governo Badoglio. In particolare, le questioni finanziarie erano sotto la vigilanza del capitano Andrew M. Kamark, che era il  responsabile di quella sottocommissione e si proponeva di “comprendere cosa fosse l’IRI, quale fosse e dovesse essere il suo ruolo nell’economia italiana”. Leggiamo dal Rapporto Menichella del luglio 1944: “l’Italia è  stata definita …. come il paese dei salvataggi bancari. Paese relativamente povero di capitali e di scarse tradizioni finanziarie; la caduta di una banca o la minaccia della caduta di una banca non sono mai state considerate come eventi normali della vita economica nella quale, come in  quella degli individui, alla prosperità può succedere l’indigenza, la malattia e la morte, sebbene come eventi di carattere straordinario, capaci di commuovere larghe sfere dell’opinione pubblica…provocare dibattiti appassionati…sulla stampa…cadute di ministeri  e così di seguito”. E’ possibile, inoltre, leggere dal citato rapporto: “I Governi e l’Istituto di emissione, presi quasi sempre alla sprovvista e incatenati dall’urgenza dei provvedimenti, hanno deciso  spesso senza conoscere esattamente la situazione effettiva della banca che domandava di essere salvata; … la ignoranza che da parte dei governi si è avuta in molti casi della situazione effettiva della banca da salvare può  essere spiegata, se non giustificata, dalla ignoranza che talvolta si è  avuta della situazione medesima da parte degli stessi dirigenti delle banche”…. “. Continua il citato rapporto; “L’IRI trae origine dagli interventi bancari effettuati negli undici anni correnti dal 1922 al 1932 … Se lo Stato italiano (attraverso l’IRI) si è trovato a possedere le azioni delle tre maggiori banche del Paese e molte grosse partecipazioni industriali, ciò non è avvenuto in base ad un proposito dello Stato stesso di voler assumere la gestione di importanti complessi finanziari e industriali….; è accaduto invece che avendo lo Stato proceduto al salvataggio di molte banche… esso si è trovato ad essere il proprietario delle azioni degli istituti stessi…e delle azioni industriali da ciascuna banca possedute”. Menichella ricorda ancora  – ed è questo il cuore del segno che mi sento di dare a chi oggi ha le redini dell’economia, che lo strumento utilizzato per procedere ai salvataggi  bancari fu la creazione nel 1922 di una sezione autonoma del Consorzio per Sovvenzioni dei Valori Industriali, la quale “funzionava in modo semplicissimo: allorché la banca in liquidazione [si tratta in questo caso della Banca di Sconto] aveva bisogno di denaro per pagare le rate del       concordato, emetteva delle cambiali all’ordine della Sezione e la Sezione  lo stesso giorno le girava alla Banca d’Italia che forniva i fondi con circolazione”. L’intervento era inizialmente circoscritto alla cifra di un miliardo di lire. Ma quando si accentuerà nel 1923 la crisi del Banco di Roma, questo tipo di intervento non è più sufficiente e si configura con un decreto legge ministeriale uno strumento “per provvedersi, da parte degli Istituti di emissione, ai salvataggi bancari in modo distinti dalle  proprie operazioni e senza limiti”.  Com’è noto, le perdite accumulate raggiunsero i cinque miliardi di lire di allora, ai quali si aggiungeranno quelle dovute per causa degli interventi a favore delle tre grandi banche nazionali, Commerciale, Credito e per l’appunto, Banco di Roma, cioè i tre maggiori istituti di credito del Paese  che “possedevano largamente azioni industriali, finanziavano le industrie non solo per i fabbisogni di esercizio ma anche per i fabbisogni  di impianti”.  Menichella aggiunge, infine, che tali istituti ” si ingerivano della condotta delle industrie ponendo nei Consigli di Amministrazione di  esse i loro maggiori uomini”.  Il rapporto di confusione fra industria e istituti bancari in Italia era già evidente all’apertura della crisi del ’29, e si riverbererà nel 1930. Continua l’interessante rapporto:”… Esse fecero quel che tutti i banchieri che raccolgono depositi fanno e sempre faranno in simili circostanze; quello che gli  Amministratori del Credito Mobiliare avevano fatto nel 1893 e quelli della Banca Italiana di Sconto avevano fatto sulla fine del 1921; non ebbero il coraggio di perdere pur di alleggerirsi; anzi, misurando con occhio ottimistico la situazione, ritennero la crisi di carattere passeggero e, illudendosi di riuscire ad attenuarne le  ripercussioni…conservarono ed estesero anche il loro possesso di azioni industriali, per affrontare le vendite affluivano sul mercato”. La Banca d’Italia, alla vigilia della costituzione dell’Iri, risultò esposta per una somma di 8 miliardi circa, pari ad oltre metà della circolazione complessiva (allora pari a circa13,5 miliardi di lire) … “in tale situazione non si poteva più  parlare di un problema delle grandi banche distinto e separato da quello dell’Istituto di emissione e se le banche, dopo la costituzione dell’Iri, avessero avuto ancora bisogno di fondi e questi non avessero potuto essere forniti… con il ricavato della rapida azione di smobilizzo dell’Iri,… lo  Stato si sarebbe trovato non già di fronte al problema di fare o non fare fallire le banche, sebbene di fronte all’altro problema di far concedere ancora altri crediti dall’Istituto di emissione in aggiunta a quelli già erogati o di dichiarare la bancarotta di esso”. Dunque anche allora lo Stato interviene non per salvare le industrie, ma per salvare le banche e soprattutto l’Istituto di emissione troppo legato alle banche e troppo solidale con loro.                                                                                                                                                                          Oggi la crisi origina sul lato degli attivi bancari, ma le problematiche del sistema bancario che il rapporto Menichella individuava non differiscono molto e dell’ingerenza e della commistione di interessi bancari con quelli dell’industria le evidenze giornalistiche non mancano di certo.
 

[1]
L’industria dei generi voluttuari alimentari è un settore molto vasto, che comprende la produzione industriale di generi alimentari (pane, pasta alimentare, zucchero , prodotti dell’economia lattiera, della carne, del cioccolato, conserve alimentari, prodotti refrigerati, surgelati ecc.), oli e grassi (Piante industriali ), caffè, acque minerali (Sorgenti minerali ), bevande alcoliche come la birra, il vino (Viticoltura ) e l’acquavite e la lavorazione del Tabacco. Costituiscono, inoltre, beni voluttuari o bisogni secondari molti altri beni di largo consumo quali le autovetture, telefonia, gli elettrodomestici, il cinema, i libri ed i viaggi.

 

 

[2]
negli anni 90 gli USA hanno aumentato i consumi al 3% e gli investimenti del 6%; negli anni 2000 e fino al 2006, sempre negli USA, gli investimenti sono stati del 6% e poi sono rallentati.
 
 
 
 

 

Lascia un commento