ARCHITETTURA E URBANISTICA: L’INVOLUZIONE COPERNICANA

09 Febbraio 2009

Mino Mini

(Fonte: Il Borghese)

L’INVOLUZIONE COPERNICANA. A.A.A. PERIFERIA CERCASI
Tempi duri per il piano casa. Il governo, nel momento in cui stiamo scrivendo, è in stallo, inchiodato dall’opposizione alla guida della Conferenza delle regioni di cui detiene sia la presidenza con Vasco Errani “governatore” dell’Emilia Romagna che il coordinamento per l’edilizia residenziale pubblica con Maria Rita Lorenzetti “governatrice” dell’Umbria. La Conferenza, forte dell’intesa firmata il 2 ottobre scorso con il Presidente del Consiglio dei ministri nella quale si stabiliva la attivazione di un tavolo politico per la gestione del suddetto piano “nel rispetto delle rispettive competenze”, sta imponendo il suo balzello sull’applicazione del piano casa ricorrendo ai poteri prescrittivi e decisionali in campo urbanistico che  a suo tempo lo Stato trasferì alle regioni. L’obiettivo, va da sé, è l’attribuzione dei fondi destinati al piano e la gestione degli stessi senza interferenze da parte del governo.
       Mentre si consuma questo confronto tra Stato e regioni vediamo di sollevare il velo dell’apparenza per rispondere al quesito che ci eravamo posti in chiusura dell’ultimo articolo sulle periferie: chi farà tutto questo? In altre parole: quando e se la volontà politica, dopo aver superato lo scoglio del “tavolo politico”, avrà modo di tradursi in concreto, dove troverà la cultura e la capacità progettuale per affrontare il problema delle periferie?
       All’apparenza l’Italia è dotata del più numeroso corpo professionale del mondo: 136.000 fra architetti e ingegneri liberi professionisti ed altri 187.878 che pur non essendo liberi professionisti detengono la partita IVA ed esercitano la professione nonostante siano dipendenti pubblici o privati. I laureati nelle due discipline, iscritti agli ordini professionali, se le proporzioni si sono mantenute invariate rispetto a pochi anni fa, dovrebbero essere circa 408.000. Considerando i 327.878 che esercitano comunque la professione ai quali si debbono aggiungere circa 100.000 geometri liberi professionisti, si raggiunge il poco invidiabile primato di 7.13 tecnici ogni mille abitanti [ gli 0,13 tecnici sommano la bellezza di 7.800 unità]. Una valutazione, peraltro, stimata per difetto.
       Questa assurda inflazione e conseguente svalutazione di progettisti è il lascito del tanto discusso ’68. Fu allora, infatti, che per reazione romanticoide alla cultura borghese  formatrice dell’”uomo a una dimensione” di marcusiana formulazione, nacque lo slogan “la fantasia al potere” che nelle facoltà di architettura trovò il naturale brodo di coltura dove si alimentarono i più radicali fra i sessantottini. Il rifiuto della cultura massificante identificata con il corpo accademico, portò al rifiuto dell’insegnamento “borghese” ed al programma di inflazionare la professione per vincere, con la forza del numero, la selezione basata sul merito contrapponendogli la fantasia creatrice connotato tipico del fare architettura. L’atteggiamento romanticoide non aveva un sistema da contrapporre a quello che voleva abbattere. La fantasia si poneva proprio come negazione di qualsiasi sistema e ciò favorì il gioco della sinistra nell’inserirsi nel movimento identificando, come comune obiettivo, l’abbattimento della classe accademica e introducendo, nel vuoto concettuale delle discussioni assembleari, i propri contenuti ideologici. La manovra di inserimento si perfezionò con la cooptazione, nei ranghi dei docenti, dei più indottrinati ideologicamente, ma ignoranti per carenza di informazione, da parte del versipelle corpo accademico. Una volta insediati si integrarono nel sistema di gestione dell’università e della cultura, già corrotto da tempo, manipolando concorsi, cattedre, incarichi pubblici. Cominciarono, in seguito, a “figliare” altri docenti dall’avventurosa impreparazione e su queste basi il sistema post ’68, presa in mano l’università, generò altre facoltà di architettura, modificò l’ordine degli studi inserendo altri inutili corsi di insegnamento e dilatò ulteriormente il processo d’inflazione dei laureati. Chi non si dedicò all’insegnamento universitario ripiegò in quello delle scuole di ogni ordine e grado o si infiltrò nei gangli del pubblico impiego. I più politicizzati vennero posti a capo degli uffici tecnici dei comuni, provincie, regioni a formare l’organico dei tecnoburocrati politicamente orientati a ricevere sollecitazioni dai politici delle formazioni di provenienza.
       Rimaneva da esorcizzare lo spirito romanticoide del ’68 che aveva consentito la conquista del potere. Il movimento contestatore fu affidato alla storia, rinchiuso, metaforicamente, dentro una teca di cristallo e  fatto oggetto del rituale delle commemorazioni decennali officiate dagli “irriducibili” nostalgici mentre i protagonisti politicizzati dello stesso si erano, ormai, installati all’interno delle strutture statali.
       Poi venne l’abbattimento del muro e con esso il passaggio della sinistra nel campo del liberismo con la conversione di tutti i suoi apparati in organizzazioni per la conquista, non più della cittadella dello Stato, ma della supremazia nel suo sfruttamento.
       Va ricordato che il fenomeno di reazione del ’68 si era svolto all’interno di uno Stato che, allora, si poneva come realizzatore dell’ambiente dell’uomo e per essere supportato culturalmente e tecnicamente faceva ricorso alle strutture professionali alle sue dipendenze oppure a quelle libere ma poste sotto il suo controllo.
       Dal 1994 non fu più così. Nel processo di svuotamento dei suoi poteri di intervento, lo Stato in mano agli eredi del ’68, decise di non realizzare più l’ambiente dell’uomo ma di comprarlo. Di non amministrare più quello già realizzato, ma di affidarlo in gestione. E’ in questa nuova configurazione che nacquero quelle collusioni tra imprenditori e gangs politico-tecnoburocratiche una delle quali ci sta deliziando dal dicembre del 2008. Ma la nuova configurazione non si limitò a ridurre la vita dei cittadini, il loro ambiente condizionante l’esistenza, la sede delle relazioni sociali, educative e religiose a “cosa” oggetto di mercato; andò più a fondo nell’opera di dissolvimento. Per comprenderlo occorre aver presente che il rapporto fra cittadino e collettività avviene, quasi sempre, attraverso atti di natura tecnico-normativa per corrispondere ai quali occorre il possesso di un linguaggio tecnico che il cittadino non conosce. La collettività, nella forma statuale, si esprime in termini tecnici e pretende che il cittadino conosca norme, disposizioni, leggi formulate in linguaggio tecnico. Per consentirgli la possibilità di interloquire aveva creato l’istituto della libera professione e l’aveva inquadrato nella costituzione come “istituto di pubblica necessità”, organico alla società ed alla sua civiltà giuridica in attuazione di un principio fondamentale di tutela del cittadino assunto dallo Stato. Aveva, nei fatti, attribuito alla libera professione un ruolo politico  intermedio, riconosciuto ed istituzionalizzato, che se debitamente coltivato le avrebbe permesso, in potenza, di esercitare funzioni di controllo e di propulsione in difesa della collettività. Proprio quel ruolo che né il potere economico né quello politico erano disposti a riconoscergli nonostante il dettato costituzionale. Occorreva rimuovere la libera professione dal ruolo attribuitogli per ridurla a entità della produzione.
       Vediamo cosa avvenne per capire cosa avverrà, se avverrà, con il piano casa.
 
 
       Tutto cominciò nella VI legislatura quando, con il progetto di legge Viviani si tentò di legalizzare le società d’ingegneria, cioè di capitale, che operavano di fatto. Il primo tentativo andò male perché le sinistre volevano la loro parte. Si pervenne, allora, al solito compromesso e nel 1979 una nuova riproposizione della Viviani, firmata dal sen. Bausi, venne integrata con il disegno di legge Della Porta che consentiva alle cooperative di entrare nel gioco, ma la forte opposizione che le libere professioni riuscirono a mettere in atto, bloccò il tentativo. Poiché la struttura economica italiana da sempre si è retta sull’industria della catastrofe che consentiva di trasformare l’emergenza in stabilità, per le società d’ingegneria l’occasione sembrò ripresentarsi con il terremoto dell’Irpinia quando, pronuba la D.C., si tentò di attuare il colpo di mano del D.d.L. n.666 promosso dal governo che, “incredibile dictu”, venne discusso ed approvato in senato nell’arco di un solo giorno. Si dovettero fare i salti mortali per riuscire a bloccare, ancora una volta, la manovra.
       Poi …cadde il muro ed il comunismo implose dopo aver spianato la strada al capitalismo borghese mediante la proletarizzazione della società democratica.
       I poteri forti non si fecero scappare l’occasione: con un partito comunista avviato a divenire una “cosa” liberal, pronta a tramutarsi in killer spietato pur di legarsi al carro della legittimazione guidato da un capitalismo vincitore per abbandono dell’avversario, presentarono l’elenco delle future vittime. Non si trattava più di legalizzare le società d’ingegneria, ma di distruggere quanto non rispondesse alla visione totalitaria del capitalismo finanziario. L’occasione si presentò con la U.E. e la direttiva comunitaria n.50/92. Nonostante nella stessa vi fosse ampio margine per conservare l’organicità delle nostre istituzioni libero-professionali, ci si volle deliberatamente appiattire su di essa prima con la  Merloni “uno”, la legge n.109/94, poi con il colpo di grazia del D. Lgs. N.157/95.
       Era fatta.
       Con la Merloni “uno” non si era semplicemente raggiunto l’antico obiettivo di istituzionalizzare le società d’ingegneria, ma si era compiuta addirittura una rivoluzione copernicana attribuendo alle stesse il rango che prima era dello Stato: quello di realizzatore dell’ambiente dell’uomo.
       Non fu una rivoluzione tecnico-amministrativa, ma politica in quanto fu distrutto l’antico rapporto tra Stato e cittadino, tra questo ultimo e la libera professione. Istituzionalizzando il ruolo del capitale come privilegiato agente trasformatore del territorio per fini di lucro e quello dello Stato come acquirente del prodotto di tale trasformazione, il cittadino venne costretto al rango di acritico consumatore mentre il libero professionista venne ridotto a piccola entità di produzione.
     Ma non era finita: rimaneva il timore che la libera professione attingesse risorse dalla sua creatività e poiché si avvicinava la prospettiva dei grandi investimenti per il giubileo e le possibili olimpiadi, venne condotta una campagna di vera e propria eliminazione condotta dai vari scherani del momento: Bargone, Amato all’anti-trust, Monti alla U.E., Flick alla giustizia preposta all’ordinamento professionale, Di Pietro con le sue circolari ai lavori pubblici e via elencando, fino a mandare la libera professione al tappeto e sancire, con la Merloni “ter”, che la libera professione, non poteva più né ideare né proporre alcunché. La capacità creatrice, per legge, non stava più nel cervello o nello spirito, ma solo nell’istituto della società di capitale ( vedi l’art. 37 bis ).
 
       Ecco, quindi, cosa avverrà: le società di capitale, cooperative o d’ingegneria, saranno quelle che realizzeranno i programmi del piano casa mentre la libera professione, con l’esercito dei suoi imbelli e squalificati professionisti, non potrà che schierarsi nel cosiddetto “mercato del lavoro” vendendosi al ribasso per poter sopravvivere.
       A meno che … in un tardivo sussulto di dignità questi liberi ( sic? ) professionisti non decidessero di utilizzare la forza del numero unendosi e la loro, sempre conclamata, intelligenza inventando ( mai termine fu più appropriato ) un nuovo modo di fare professione e … finalmente architettura.

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