Galileo online: vespe e virus, quale strano connubio

 

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13 Febbraio 09Piante e animali | SIMBIOSI

Vespe, velenose grazie al virus

Le tossine di alcune vespe sono codificate da geni di un virus antico cento milioni di anni. Lo studio su Science

 I virus non sono solo agenti infettivi che portano malattie più o meno gravi. Milioni di anni fa potrebbero aver giocato un ruolo cruciale nel “rifornire” gli organismi di Dna nuovo e utile. Lo dimostra uno studio su Science effettuato su vespe parassite (braconidi) da ricercatori di istituti francesi (Università di Tours, Università di Montpellier II, Cea, Cnrs, Inserm) e svizzeri (Università di Berna).

Le vespe braconidi sono insetti che depositano le uova all’interno di larve di altri insetti (in particolare farfalle). Le vittime vengono paralizzate grazie a tossine prodotte negli ovari stessi. Fin dagli Settanta gli scienziati sanno che questi veleni derivano da frammenti di Dna a doppio filamento simili a quelle dei virus, motivo per cui furono battezzate polydnavirus. Analisi successive avevano però mostrato che questo Dna non produce nessuna delle proteine utilizzate dai virus conosciuti e, da allora, la natura virale del polydnavirus è stata oggetto di discussione.

Il nuovo studio mette fine al dibattito. I ricercatori hanno sequenziando il Dna estratto dagli ovari di tre specie di vespe parassite e lo hanno confrontato con quello di tutti i virus conosciuti che infettano gli insetti. Risultato: 22 geni di una delle specie coincidono con quelli presenti in un’antica famiglia di virus denominati “nudivirus” e  codificano per proteine presenti nelle tossine delle vespe.

Secondo gli studiosi il virus avrebbe infettato le vespe circa cento milioni di anni fa, conferendo loro la capacità di parassitare l’ospite e garantendosi al tempo stesso la sopravvivenza. Questo “connubio”, a danno delle larve degli insetti parassitati, è ora indissolubile, perché sia le vespe che i virus necessitano gli uni delle altre. (i.n.)

Riferimento: Vol. 306. no. 5694, pp. 286 – 289 doi:10.1126/science.1103066

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