Siamo davvero fuori dalla crisi?

 

 

21 Aprile 2009

Enea Franza 

Finanza d’oltreoceano, oscillazione dei titoli di borsa, soccorso pubblico e… bilanci camuffati? Ma alla fine chi pagherà e quanto costerà ai cittadini americani e del mondo intero la crisi?

 
La domanda  a cui molti economisti cercano di dare una risposta in questi giorni, scaturisce da alcune evidenze sull’andamento dei mercati finanziari e dei dati macroeconomici dell’economia americana, solo parzialmente offuscate dalla  negativa giornata di ieri sui mercati finanziari.  Il Dow Jones nei giorni scorsi ha raggiunto quota 7.775,86 punti, ovvero, al valore più alto dal 13 febbraio scorso. Molto bene va anche lo S&P 500 che ha superato la soglia degli 800 punti ed anche il Nasdaq a 1.555.77 punti, dà l’impressione che si sta uscendo dal tunnel.  Ed altre notizie positive sembrano arrivare dal mercato. Lì da dove tutto era partito, la crisi del mercato immobiliare, si ha a sorpresa un sobbalzo positivo. Il dipartimento del Commercio Usa ha comunicato che nel mese di febbraio le vendite di case esistenti negli Stati Uniti sono balzate del 5,1%, segnando il maggior rialzo dal luglio del 2003. 
Le notizie che suggeriscono la fine della tempesta, vengono peraltro da quegli intermediari che avevano lasciato intravedere il baratro. Il gruppo bancario newyorkese ha riportato nel primo trimestre 2009 (contro ogni previsione possibile) profitti per 1,59 miliardi di dollari e ricavi per 24,79 miliardi. E’, come conferma Vikram Pandit, il miglior risultato in termini di performance dal secondo trimestre del 2007.  In crescita i ricavi che si attestano a 24,8 miliardi di dollari, in progresso del 99%, mentre il Tier 1 capital ratio si attesta all’11,8% contro il 7,7% dello stesso periodo dello scorso anno. Ma anche Bank of America  ha chiuso il primo trimestre con un utile netto di 4,2 miliardi di dollari, quasi triplicato rispetto allo stesso periodo di un anno fa, su ricavi record pari a 36 miliardi di dollari. Gli analisti ritengono che l’impennata dei ricavi è legata all’acquisizione della banca d’investimenti Merrill Lynch che ha contribuito con oltre tre miliardi di dollari alla bottom line di Bank of America.
Non va neanche male all’altro gigante dai piedi di argilla della finanza americana, JPMorgan Chase, che  ha chiuso il primo trimestre con un utile netto in calo del 10% a 2,14 mld. Nel corso di una conference call con i giornalisti, l’AD Jamie Dimon ha garantito che i 25 miliardi di dollari di fondi attinti dal programma Tarp (Troubled Asset Relief Program) del governo potrebbero “essere ripagati domani”, ma che la banca sta “aspettando indicazioni dal governo”. Tornando ai risultati, i profitti al netto del poste straordinarie ammontano a 2,14 miliardi, rispetto ai 2,37 miliardi di un anno prima; i ricavi hanno raggiunto il livello record di 26,9 miliardi. A fine marzo, il coefficiente patrimoniale Tier 1 era all’11,3%. La banca statunitense, inoltre, ha annunciato di aver acquistato nel trimestre quasi 34 miliardi di titoli ‘mortgage-backed’ e ‘asset-backed’. La banca ha, tra l’altro, dichiarato di aver chiuso lo scorso trimestre con profitti migliori delle attese e di voler rimborsare una parte degli aiuti ricevuti dallo stato americano tramite la TARP.  Anche la Goldman Sachs ha chiuso lo scorso quarter con un utile di 1,81 miliardi di dollari, in crescita del 20% dagli 1,51 miliardi di dollari dello stesso trimestre dello scorso anno ed pure in questo caso sono state battute decisamente le stime degli analisti, che prevedevano un utile molto più basso. Bene anche il fatturato, salito del 13% da 8,3 a 9,43 miliardi di dollari. Buone notizie sembrano arrivare anche dall’Istituto US Fargo, per il quale, nonostante l’integrazione con Wachovia,  sembra chiudere il primo trimestre dell’esercizio con un utile di circa 3 miliardi di dollari e ricavi intorno ai 20 miliardi di dollari.
 
Ma è tutto oro quel che riluce? Cominciamo a fare un elenco dei problemi che emergono. Citigroup ha comunicato di aver ridotto nel corso del trimestre la sua forza lavoro di 13mila unità a quota 309.000 e Goldman Sachs ha evidenziato di aver perso un miliardo di dollari nel dicembre 2008, principalmente a causa delle perdite nelle attività di trading e investimenti. Inoltre, l’ultimo mese non è stato considerato, visto che la banca ha deciso di adeguarsi al calendario, cambiando il suo esercizio finanziario. La banca ha già dichiarato l’intenzione di raccogliere, tramite una ricapitalizzazione, 5 miliardi di dollari per reintegrare una parte dei fondi ricevuti dallo stato americano nell’ambito del programma Troubled Asset Relief Program, quello degli aiuti statati alle banche in difficoltà. La Goldman Sachs aveva infatti ricevuto, lo scorso ottobre, circa 10 miliardi di dollari in aiuti. La Banca of America, ha si annunciato di aver pagato circa 402 milioni di dividendi al governo Usa, ma ha altresì rappresentato le difficoltà della congiuntura e il deterioramento del mercato del credito, «effetto della debolezza dell’economia e della crescente disoccupazione”. Ed infatti, il titolo, tuttavia, va giù in Borsa e perde il 7% (a 9,86 dollari per azione) sui mercati europei, dopo aver comunicato di aver archiviato il primo trimestre con utili per 4,2 miliardi di dollari.
Emerge poi una considerazione tecnica. Una parte dei risultati positivi delle grandi banche d’affari sembrano spiegabili con la modifica di alcuni principi contabili di valutazione dei titoli il liquidi, con un impatto (stimano gli analisti) di circa il 20 %. Mi riferisco alla modifica dei criteri contabili adottata di recente dal FASB, ovvero il Financial Accounting Standards Board. Come’è noto il FASB è l’authority statunitense che emana i Principi contabili che le imprese, banche e non, debbono seguire per la redazione dei propri bilanci. Un analogo organismo esiste anche per le imprese europee ed è denominato IASB (International Accounting Standards Board). Tale organismo, come dicevo,  ha di recente votato regole più “morbide” per la valutazione degli asset illiquidi detenuti dalle banche USA. Tali titoli erano finora generalmente valorizzati al c.d. fair value, ovverosia al prezzo corrente di mercato. La risoluzione adottata ha permesso al management, di fronte ai titoli illiquidi (e quotati a prezzi ritenuti non significativi) di valutarli (inclusi quelli “tossici”) non già con il criterio del mark-to-market, bensì con criteri alternativi (eventualmente anche al valore nominale) e ciò in quanto si considera che nel contesto di crisi attuale ci si trovi di fronte ad un mercato assolutamente anomalo e quindi sostanzialmente “non attivo”.                                                                                                                                             Sulle conseguenze di tale posizione lascio ai cultori della materia discutere. Mi limito solo a sottolineare le diverse posizioni. I sostenitori di questa soluzione che sottolineano come i prezzi di un mercato “non attivo” non sono significativi, e quindi il fatto che sia un non sense  usarli, mentre i detrattori che evidenziano come l’abbandono del fair value accounting può diventare un fatto potenzialmente devastante. Una sorta di legalizzazione del falso in bilancio, per finalità di “disintossicazione” dei bilanci stessi, con il risultato di far perdere di vista quello che è l’obiettivo di un bilancio, cioè quello di essere lo specchio quanto più possibile fedele ed oggettivo della realtà aziendale. Ma altre considerazioni sorgono  spontanee dalla lettura dei giornali americani. Si è appreso, in particolare, che “l’ispettore generale del Tarp (Troubled asset relief program, il piano di finanziamenti per aiutare l’economia a uscire dalla crisi finanziaria), Neil Barofsky, sta indagando su alcune banche beneficiarie di fondi pubblici per verificare se abbiano in qualche modo alterato i propri conti per assicurarsi le risorse messe a disposizione dal governo allo scopo di stabilizzare il mercato finanziario e rilanciare il credito”.  Leggendo con più  attenzione,  si viene a sapere che l’ispezione ha come oggetto la verifica della solidità delle banche che hanno chiesto l’accesso al piano di aiuti.  Come dire che c’è il sospetto che, per poter accedere al piano di aiuti, alcuni si sono spinti sino a rivedere i propri conti, soprattutto per quanto riguarda l’iscrizione a bilancio di alcuni asset, fingendo di essere solidi e in salute.
 In parallelo, anche l’attività di verifica sugli asset bancari, i c.d. «stress test», o «prove di tenuta» degli istituti di credito messi di fronte, con i loro conti, alle peggiori simulazioni di mercato, sta dando adito ad una infinità di polemiche, che coinvolge anche Nouriel Roubini, per cui gli stress test «avrebbero già fallito», in quanto i tre parametri sui quali l’indagine è basata (crescita, disoccupazione e deprezzamento del valore delle case) nel primo trimestre del 2009 sono stati peggiori dello scenario previsto dalle autorità.
C’è inoltre un nodo ancora troppo teso per poter essere sciolto! Il tracollo del sistema finanziario è stato finora evitato pompando tanto denaro nel sistema economico…allargando cioè i cordoni della borsa! Timothy Geithener, il segretario al Tesoro americano,  ha ammesso non molto tempo fa, che lo Stato correrà un forte rischio ‘investendo’ fino a 1.000 miliardi di dollari nell’acquisto di titoli tossici; inoltre, nel contempo, non  ha acquisito  “il controllo delle banche realmente insolventi, per ripulirne i conti”. Ovvero, è restato alla mercé dei consigli di amministrazioni delle banche finanziate ed ha investito in titoli, acquistati a caro prezzo, presumibilmente a prezzo maggiore di quello che si sarebbe ottenuto dalla nazionalizzazione diretta delle banche.  
Bene. Il problema che si pone è adesso come e quando verranno ripagati i debiti…

 

 

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