Il cataclisma d’Abruzzo. Quale orribile primavera!

23 Aprile

Mino Mini

La malapianta sulle rovine di  un’ ORRIBILE PRIMAVERA

 

          Quel 6 aprile il tempo sembrava aver fugato, finalmente, il triste inverno; nei viali delle città i fiori erano sbocciati e le fanciulle, proustianamente radiose, smesse le mute invernali trasmettevano segnali di seduzione e d’incanto inducendo all’ottimismo nonostante la crisi quando – ancora una volta – la terra d’Abruzzo trasalì, una faglia in fase di assestamento si aprì e fu morte e distruzione: muri si sgretolarono, strutture elastiche in cemento armato collassarono ed edifici crollarono seppellendo i loro abitanti.
          Sulle rovine fiorirono, come dopo la pioggia nel deserto, tutte le virtù il cui seme giaceva in sonno nel cuore degli italiani in attesa di essere risvegliato: la solidarietà, la generosità, il coraggio, l’efficienza. Sembrò essere risorto “lo spirito di Firenze” che aleggiò sul disastro dell’alluvione ed i fantasmi dell’”industria della catastrofe”, la tabe della ricostruzione dopo i terremoti del Belice, dell’Irpinia, dell’Umbria, che si erano presentati alla memoria, si volatizzarono di fronte alla mobilitazione delle forze di soccorso e del governo. Ma tornò il maltempo civile e con esso, ad attossicare gli animi, fiorì la malapianta dello sciacallaggio e dell’imbecillità: il primo in televisione, l’altra sulla stampa. E’ di quest’ultima che vogliamo trattare – del parassitismo degli sciacalli televisivi non mette conto discuterne – constatando, una volta di più, la verità del luogo comune che vuole la madre degli imbecilli sempre pregna.
          Davanti al crollo di edifici in calcestruzzo armato che hanno bucato lo schermo dei televisori con la terribile evidenza degli spuntoni di ferro dell’armatura fuoriuscenti dal nucleo sgretolato di cemento, la prima reazione di alcuni giornalisti è stata quella di scatenare la caccia al costruttore ed al progettista sparando le accuse più strampalate: dalla sabbia di mare nella composizione del calcestruzzo alla mancata applicazione delle norme antisismiche ignorando totalmente il lento processo di evoluzione degli studi relativi a quel settore e la vigenza della normativa che ha regolato l’impiego delle strutture in calcestruzzo armato in periodi diversi.  Non è facile comprendere la complessità del problema e quindi sarebbe stata d’obbligo la prudenza prima di indirizzare il senso di frustrazione e di dolore delle vittime scampate al crollo della loro casa verso l’incriminazione generalizzata di costruttori e progettisti accusandoli di rapacità e di incapacità. Non si può escludere vi siano stati casi del genere, ma occorrerebbe, prima, rendersi conto di alcuni fattori.
          Vediamo di riuscire a spiegare la situazione.
          La progettazione delle opere in calcestruzzo armato si svolge in due fasi: analisi della struttura, verifica della stessa. Ebbene, fino al terremoto dell’Irpinia del 23 novembre 1980 la progettazione – analisi e verifica- era piuttosto semplice in quanto la struttura, per quanto complessa, veniva concepita bidimensionalmente, elementarizzata e scomposta in parti semplici calcolabili “ a mano”. Una semplice calcolatrice era sufficiente a tradurre in progetto l’insieme complesso della scienza delle costruzioni ridotto in formule talchè anche i geometri, con la loro limitata preparazione, potevano farlo. La complessità delle sollecitazioni indotte dal sisma sulla struttura era nota a livello intuitivo, ma veniva interpretata convenzionalmente.
          Con il terremoto dell’Irpinia si cominciarono a capire molte cose e molte convinzioni tecniche furono annullate dalla constatazione degli effetti del terremoto. Fu soprattutto il crollo dell’ospedale di S. Angelo dei Lombardi a far comprendere come la progettazione delle opere soggette a sollecitazione sismica dovesse tener conto della struttura non già come una sommatoria più o meno sofisticata di parti bidimensionali, ma come sistema articolato tridimensionale investito dalla sovrapposizione delle sollecitazioni in più direzioni, soprattutto da quelle forze orizzontali fino ad allora non sufficientemente considerate. Quelle che avevano letteralmente “tagliato” il corpo dell’ospedale dai pilastri che lo sostenevano facendolo crollare. Le modalità di calcolo subirono allora, per successive fasi, una enorme evoluzione: da una certa data in poi l’analisi e la verifica si sarebbero dovute condurre con il metodo delle tensioni ammissibili oppure con il metodo semiprobabilistico agli stati limite. Metodi che richiedevano e richiedono una preparazione tecnico-scientifica che semplici diplomati non posseggono e che si rivelò indispensabile per la elaborazione delle ipotesi di sollecitazione  lo sviluppo delle quali imponeva  una mole enorme di calcoli . Tanto enorme da dover ricorrere necessariamente all’uso del computer con l’impiego di software sofisticatissimi ancora oggi non completamente a punto.
          Tra i due procedimenti ante e post terremoto dell’Irpinia intercorsero ventuno anni di decreti ministeriali, circolari esplicative, ricerche del CNR sui metodi di calcolo mediante elaboratore e via elencando fino al D. Min. LL.PP. 14 febbraio 1992 che fu superato dal D. Min. LL.PP. 9 gennaio 1996 che impose l’applicazione del solo metodo semiprobabilistico agli stati limite. Di circolare esplicativa in circolare esplicativa si arrivò all’ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri 20 marzo 2003 n. 3274 che fu abolita per i pasticci fatti dall’ultimo governo Prodi che emanò nel 2008 un nuovo decreto ministeriale, oggi vigente e prorogato fino al 30 giugno 2010, praticamente inapplicabile perché talmente complesso che ancora non sono stati realizzati software in grado di renderlo operativo.
         In questa girandola di normative, che ogni terremoto rendeva vetuste, hanno operato tecnici e costruttori. E’ alla luce di questi fattori che si sarebbe dovuto, semmai, formulare un giudizio sull’operato dei realizzatori degli edifici crollati prima di sparare condanne generalizzate ed infamanti. Contrariamente a quanto insinua certa stampa è credibile che gli edifici realizzati nei ventuno anni citati – fatte le debite eccezioni – fossero a norma  secondo le disposizioni vigenti al momento della loro progettazione, peraltro sottoposta al controllo del Genio Civile o dell’ufficio regionale assimilato, nonché della loro esecuzione. E’ anche possibile, per quanto riguarda gli edifici pubblici, che in quest’ultima fase sia stato messo in atto qualche trucco criminalmente pericoloso evadendo o truccando i provini da sottoporre all’esame degli istituti a ciò deputati, ma sembra difficile. Se una causa del crollo la si vuole – a forza – individuare dovrebbe, piuttosto essere ricercata nel criterio di progettazione non strutturale, ma architettonica degli edifici. Per capirci: una planimetria irregolare non supportata da distacchi e giunti adeguati; un corpo sospeso sui famigerati “pilotis” sproporzionato nel rapporto fra corpo portato ed elemento portante; aggetti eccessivi tali da indurre fortissime sollecitazioni sulle strutture e via elencando. Tutti “errori” che non incidono sulle normative ma sul buon senso progettuale legato al concetto della “geometria delle masse”. Ogni terremoto ci insegna qualcosa e sembra che quest’ultimo abbia indotto qualche tecnico a mettere in dubbio anche il concetto di geometria delle masse. E’ una teoria e come tutte le teorie andrebbe dimostrata prima di essere applicata, ma  al momento solo un altro terremoto potrebbe confermarne, ma non dimostrarne, l’attendibilità sempre che venga  tradotta in concreto in una nuova costruzione. Al momento attuale l’insegnamento ultimo che il sisma dell’Aquila sembra aver impartito è legato al concetto di elasticità introdotto dal D. Min. LL.PP. 9 gennaio 1996. Secondo lo stesso ciò che fino ad oggi è apparso  essere un aspetto negativo dell’integrità di un edificio in calcestruzzo armato dopo aver subito il trauma del sisma,ovvero il distacco delle murature perimetrali di tamponamento e quelle di divisione interna dalla struttura in calcestruzzo armato che sta all’origine delle temutissime crepe, in realtà si rivelerebbe  essere un aspetto positivo. Il  ragionamento che sta alla base di un simile convincimento è il seguente: posto che il fine ultimo di ogni normativa antisismica è quello di tutelare prioritariamente la vita degli abitanti o fruitori degli edifici e non di salvare l’edificio, il calcolo e la tecnica devono operare in funzione di un distacco controllato della muratura di tamponamento dalla struttura in modo da consentirle di resistere elasticamente alle sollecitazioni sismiche senza collassare.  E’ un po’ l’applicazione del principio “mi piego ma non mi spezzo”; come una canna al vento insomma. Secondo questo principio si evitano morti anche se si perde l’integrità dell’edificio. Integrità che può essere ripristinata se la struttura, pur reagendo elasticamente, non si lesiona. Nessuno, però, sarà in grado di dire come reagirà una struttura riutilizzata ad un secondo sisma.
          Come si vede anche la normativa antisismica non offre certezze e solo il verificarsi degli eventi sismici consente – e non sempre – di ampliare il campo delle conoscenze e conseguentemente di affinare gli strumenti di progettazione.
          D’altra parte scienza e tecnica, pur essendo orientate a raggiungere il più alto livello di antisismicità negli edifici, sanno già che l’edificio totalmente antisismico non è realizzabile perché troppe sono le incognite relative alla forza e direzione delle sollecitazioni sismiche in relazione alla struttura del terreno che le trasmette. Tuttavia è ragionevole aspettarsi dalla tecnica del calcestruzzo armato, a fronte di un buon progetto, una risposta al sisma che escluda almeno il crollo nelle condizioni peggiori.
          Resta aperto tutto il capitolo relativo alle costruzioni tradizionali in murature dei centri antichi. Capitolo che, per ragioni di spazio,  non può essere trattato in questo articolo perché investe problemi più ampi del solo aspetto strutturale che possono riassumersi nell’interrogativo: posto che, nella fattispecie, i centri colpiti sono vicini o addirittura sopra la faglia interessata dal sisma, non è più logico, piuttosto che ricostruire “com’era, dov’era”, edificare una nuova città vicino all’antica ma in luogo più sicuro e con criteri antisismici?
           La risposta, secondo chi scrive, è negativa. Nel prossimo articolo spiegheremo perché.
 
 

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