Piano casa: il domani è arrivato in dodici regioni. Cosa ci riserva?

8 Ottobre 2009

Mino Mini

I piani-casa regionali

OMBRE SUL PIANO

 

In aprile concludemmo così l’articolo LUCI e OMBRE:
<<Oggi IV giorno ante kalendas aprilis in hoc anno 2762 ab urbe condita ci disponiamo all’attesa delle “Misure urgenti per il rilancio dell’economia attraverso la ripresa delle attività imprenditoriali edili” facendo tanti auguri all’Italia.>>
L’attesa è finita. Almeno dodici regioni hanno provveduto a dotarsi del loro piano-casa con una legge regionale. Esse sono in ordine di promulgazione:1. Toscana L.R. 08.05.09; 2. Provincia di Bolzano Delib. 15.06.09 n.1609; 3. Umbria L.R. 26.06.09 n.13; 4. Emilia-Romagna L.R. 06.07.09 n.6; 5. Veneto L.R. 08.07.09 n.14; 6. Piemonte L.R. 14.07.09 n.20; 7. Lombardia L.R. 16.07.09 n13;
8. Puglia L.R. 30.07.09 n.14; 9. Valle d’Aosta L.R. 04.08.09 n.24; 10. Basilicata L.R. 07.08.09 n.25; 11. Lazio 11.08.09 n.21; 12. Abruzzo L.R. 19.08.09 n.16. Al momento in cui scriviamo debbono ancora legiferare le regioni Calabria, Campania,Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Marche, Molise, Sardegna, Sicilia, Trentino-Alto Adige.
Sul “piano casa” governativo avemmo modo di discettare sui numeri di novembre e dicembre 2008 del Il Borghese rilevando la trasformazione in senso economicistico, a tutto vantaggio degli speculatori, di un progetto di legge con ben altri contenuti. In più articoli descrivemmo quali potevano essere le possibilità di un “piano casa” per risolvere il problema delle periferie e quello del degrado urbanistico. Sul citato articolo LUCI e OMBRE rilevammo quali, a giudizio di chi scrive, fossero gli aspetti negativi e positivi del cosiddetto piano casa. Riprendendo il discorso di allora, oggi, proponiamo, con questo primo articolo, un confronto in due sessioni fra due versioni regionali di piano casa ( come ormai lo si vuol chiamare) emanati da due regioni che, in campo urbanistico, hanno fatto tendenza: Lazio e Lombardia. Per nostra comodità di analisi le stesse sono amministrate, per ora, da due schieramenti contrapposti.
La prima sessione la riserviamo al piano casa della regione Lazio amministrata dal centrosinistra che ha riscosso l’attenzione di ben diciotto articoli sulla stampa dei quali solo quattro su quotidiani vicini al centrodestra.
Il piano, secondo l’assessore Di Carlo, è impernato su quattro punti cardine:
1°. Possibilità di incremento della volumetria fino al 20% in più per edifici residenziali uniplurifamiliari di volumetria non superiore a 1000 metri cubi con limite massimo di incremento, per l’intero edificio, di 220 metri cubi ovvero 62,5 metri quadri ( Art.3). Per le attività artigianali e commerciali (esercizi di vicinato), l’incremento è del 10%;
2°. Interventi di sostituzione edilizia con demolizione e ricostruzione (art.4) con possibilità di incremento del 35% della volumetria, elevabile al 40% in caso di ricorso al concorso di progettazione, come freno al consumo del territorio e alla continua estensione della città e recupero delle aree dimesse e degli edifici come strumento per il risanamento di zone pregiate dal punto di vista ambientale, in particolare il litorale;
3°. Nuove possibilità di intervento della Regione per far fronte all’emergenza abitativa;
4°. Semplificazione delle procedure. Per costruire nel caso di incremento del 20% ed in quello del 35% fino a 3000 metri cubi – pari ad una palazzina di dieci appartamenti di circa 95 metri quadri – basta la presentazione di una semplice DIA, il pagamento degli oneri concessori riducibili da parte dei comuni e la redazione del fascicolo del fabbricato. Al di sopra dei 3000 metri cubi, quindi nel caso di sostituzione edilizia con demolizione e ricostruzione che investono più edifici, la procedura richiede il permesso di costruire, ovvero la normale concessione edilizia.
Non voglio addentrarmi nelle possibilità e nei limiti di incremento del primo punto cardine di questo piano, di cui diversi sono gli aspetti incongrui a cominciare dalla denominazione uniplurifamiliari. Cosa vorrà dire sotto il profilo tecnico? Se il massimo consentito per accedere alla possibilità di ampliamento è di 1000 metri cubi per edificio, una singola casa a schiera – per sua natura tipica unifamiliare – facente parte di una stecca di oltre tre unità o addirittura di una parete urbana, verrà considerata edificio a se stante o verrà considerato unico edificio uniplurifamiliare l’insieme delle case a schiera? Lo stesso quesito si pone per una casa in linea di tre piani con un appartamento a piano aggregata ad altre linee consimili: verrà considerata come unico edificio o cosa? Sono interrogativi che già ponemmo negli articoli citati in apertura e le ombre si sono fatte più lunghe. Come si vede la mancata conoscenza della tipologia e della definizione dei tipi edilizi, quale traspare dal primo punto cardine sarà foriera di più di un dubbio interpretativo. E nel dubbio … gli interpreti avranno giuoco facile a decidere se un accrescimento può essere fatto o no bloccando la DIA. Altro aspetto incongruo è quello relativo alla proibizione della sopraelevazione per utilizzare l’incremento di cubatura. Considerando che molte case isolate sorgono su piccoli lotti di terreno di cui coprono la superficie lasciando libera solo una fascia irriducibile di 5 metri dai confini, la prescrizione limitativa di costruire solo in aderenza equivale a non consentire, in molti casi, l’aumento del 20%.
Di assai maggiore interesse sono, invece, le possibilità offerte dalla sostituzione edilizia mediante demolizione e ricostruzione. Si tratta della opportunità di recuperare i territori caratterizzati dalla presenza di elevate valenze naturalistiche, ambientali e culturali (art. 7) o di metter mano al problema delle periferie demolendo e ricostruendo (art. 8). Ne scrivemmo su questo mensile e mostrammo che non si trattava di interventi da 3000 metri cubi, ma di decine o centinaia di migliaia di metri cubi per i quali non vige il principio della semplificazione delle procedure. Per questi interventi non basta la richiesta della concessione edilizia. Occorre, come primo passo, che i comuni individuino gli ambiti di intervento. Come secondo passo gli stessi adottano programmi integrati sulla base di iniziative pubbliche o private, anche su proposta di consorzi, imprese e cooperative … In realtà, tradotta in chiaro, la cosa funziona così: gruppi pubblici o, soprattutto, privati trattano , in sede non ufficiale, l’individuazione degli ambiti di intervento che a loro interessano. Dopodichè, ottenutala, fanno le loro proposte in forma di programma integrato ai sensi del comma 2 dell’art. 16 della legge 17 febbraio 1992, n.179 che il comune approva. Qual è l’efficacia di un simile programma integrato una volta approvato? Quello di un normale concessione ad edificare, ma non ha efficacia di dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza delle trasformazioni previste ai fini dell’acquisizione, tramite espropriazione, degli immobili da demolire e ricostruire. Non è un PUOC il quale ha i contenuti e l’efficacia del programma integrato, ma non trasferisce a questo la sua efficacia di esproprio. A questo punto il comune si fa da parte perché la Regione promuove la formazione degli strumenti urbanistici anche attuativi …. Effettuati sulla base di bandi concorsuali di evidenza pubblica e mirati ad integrare gli obiettivi strategici pubblici previsti dai comuni con le proposte di iniziativa privata ricadenti nelle parti della città e dei quartieri oggetto dei piani e dei programmi. Come verranno fatti questi concorsi non è specificato e sappiamo bene quali manovre stanno dietro ai concorsi di “evidenza pubblica”. Ma visto che i piani integrati non sono un affare della Regione né dei costruttori, ma di coloro che andranno a vivere nei nuovi insediamenti, quando assoceremo, pubblicamente e democraticamente, al giudizio sui concorsi anche i futuri fruitori?
Non si tratta di noccioline. I programmi integrati di ripristino ambientale comportano un incremento premiale del 50%. Per i soli comuni del litorale l’incremento sale al 60% in caso di trasformazione della destinazione d’uso da residenziale a turistico-ricettiva. I programmi integrati per il riordino urbano e delle periferie prevedono un incremento massimo del 40%.
Anche qui gli interrogativi non mancano e non basterebbe un numero intero de Il Borghese per esporli per esteso. Basti uno per tutti che abbiamo cennato: a quale istituto giuridico si potrà fare ricorso, visto che il piano non ne elabora alcuno, per demolire e ricostruire complessi con migliaia di proprietari diversi? Il piano integrato quale valore impositivo potrà avere nei confronti della proprietà diffusa?
E’ chiaro che, in assenza di una risposta a tali interrogativi, il piano casa nel suo aspetto più qualificante potrà essere applicato (o sfruttato?) solo da grandi concentrazioni di proprietà: ATER, enti pubblici che ancora non abbiano cartolarizzato il loro patrimonio, società di assicurazioni, banche etc. etc. Una festa per loro e per i costruttori i quali sono i più entusiasti sostenitori di questo piano casa. E lo credo bene!
Però nessuno si faccia illusioni. I tempi non saranno più i 30 giorni di attesa dalla presentazione della DIA per iniziare i lavori, ma molti di più. Inoltre la qualità degli interventi non sarà certo garantita dai concorsi di “evidenza pubblica”, ma a chi interessa?
Nel disperato tentativo di riportare la qualità al centro della ricostruzione, l’ordine degli architetti di Roma è riuscito a far inserire il comma 7 dell’art.4 che recita:
Al fine di promuovere la qualità edilizia ed architettonica degli edifici di cui al presente articolo e dell’ambiente urbano, nel caso in cui il soggetto proponente l’intervento di sostituzione edilizia provveda mediante la procedura del concorso di progettazione, con l’assistenza degli ordini professionali competenti, l’ampliamento di cui al comma 1 è aumentato al 40% per cento, purché l’intervento sia realizzato sulla base del progetto vincitore del concorso.
In sostanza, se tu soggetto proponente fai un concorso dove io, ordine degli architetti, ti fornisco “assistenza”, e lo vinci il piano casa ti ripaga con l’incremento ulteriore della cubatura del 5% e il progettista non ti costa niente.
La professione di architetto è proprio caduta in basso se dobbiamo premiare ciò che un tempo non lontano era un obbligo.
Non siamo più nella Roma dei tempi del Papa-Re quando Giulio Maria cardinale della Somaglia con un editto del 1826 proclamava:
1°. Chiunque nello spazio di anni tre dalla data della presente costruirà in questa Metropoli nuove Abitazioni o Botteghe, o accrescerà piani alle Case già esistenti (quante volte le fondamenta lo comportino) o renderà abitabili per uso de’ particolari edificj, che per lo innanzi non lo erano, sarà ammesso a godere la esenzione della Dativa reale per tutto l’incominciato Secolo XIX.
Il mese successivo con un editto declaratorio disponeva:
1°. Chiunque vorrà in tutto il corso del triennio considerato nel Nostro Editto dei 9 Maggio scorso edificar Case di nuovo, o accrescere le esistenti con ampliarne i piani, e soprapporvene altri, o finalmente ridurle abitabili dove tali non siano, dovrà presentare i disegni a tre Architetti da scegliersi a suo talento fra gli Accademici di S.Luca, [ evidenziatura mia ] e riportarne per iscritto l’approvazione.
2°. I tre Architetti Accademici così scelti non potranno approvare i disegni, che saranno loro presentati, se non ravvisino nella loro esecuzione la necessaria solidità, e nelle forme tutta quella purezza di stile, di cui l’Edificio è capace.
La meravigliosa concisione nelle prescrizioni del cardinal Giulio Maria ci ha dato la Roma di Leone XII, per il secolo Annibale della Genga, che è sotto gli occhi di tutti e che proteggiamo come ultimo retaggio identitario. Quella che scaturirà dalla auri sacra fames di costruttori e speculatori secondo le procedure del piano casa possiamo facilmente immaginarla.
Non è certo esaurito il contenuto del piano casa, ma il resto, con buona pace dei sindacati, riguarda aspetti a nostro giudizio marginali. Non risolve il problema della chiarezza dei concorsi per la riqualificazione urbanistica né quello del superamento delle lungaggini burocratiche. E pensare che la soluzione ci sarebbe, ma invisa a destra come a sinistra: il ricorso a certificatori professionali tratti dalla libera professione e pagati dai privati ( una proposta di cui riparleremo ).Si limita ad applicare istituti giuridici già esistenti nella L.R. 22.12.1999 n.38 senza eccessiva fantasia. Non entra, né può farlo, nel merito degli effetti dovuti agli interventi che invece ci interessano maggiormente. Per dirla con Ken Follett “… Non prende decisioni, non ha volontà propria. E’ come un’arma o un utensile: funziona se c’è chi la impugna e l’adopera”. E ad impugnarlo e ad adoperarlo sono sempre le stesse persone: quelle che hanno fatto o provocato il disastro ed ora vogliono guadagnare per “ripararlo”. Non parliamo, ovviamente per l’incremento del 20% delle uniplurifamiliari, ma dei piani integrati per il riordino urbano e delle periferie. Quelli per il ripristino ambientale sono di assai problematica realizzazione e preoccupano di meno.
Riporto, allora, in chiusura facendolo mio il commento di un collega, Christian Rocchi, che esprime perfettamente l’esigenza di un superamento dell’andazzo fin qui seguito adattandolo all’applicazione del piano casa:
Servono politici nuovi che sappiano fare una politica illuminata e che si sappiano affidare a personale tecnico preparato (possibilmente svincolato dai legacci della politica). Serve qualcuno che faccia diventare le imprese costruttrici uno strumento, un mezzo, ma non il fine. Serve qualcuno che abbia a cuore le sorti delle nostre città che metta il naso fuori dei centri storici, perché la città è un organismo complesso che malato in una sua parte smette di funzionare nel complesso.
La prossima sessione esminerà il piano casa della Lombardia.
 
 
 
ìIn questa tardiva primavera 2009 …”c’è qualcosa di nuovo oggi nell’aria, anzi d’antico …”: la confusione.
Confusione di termini e di obiettivi, in merito al cosiddetto piano casa sul quale va reso onore al merito del governo per avere aperto la strada alla sostituzione edilizia con ciò rimettendo in moto il processo di trasformazione della città bloccato, finora, sulla sola espansione indiscriminata delle periferie. Tuttavia luci ed ombre si alternano nell’esame di questo piano e pertanto proveremo a mettere in evidenza le une denunciando le altre.
La campagna di informazione della stampa che lungo tutto il mese di marzo si è manifestata con continue discettazioni, più o meno approfondite, supportate da pareri tecnici, prontuari esplicativi, dati statistici e tanto altro, ha avuto l’effetto di suscitare ed alimentare le speranze di milioni di italiani, proprietari di case e immobili, di poter ampliare ragionevolmente la loro proprietà senza dover attendere i tempi biblici imposti – in contrasto con la legge – dalla tecnoburocrazia e soprattutto senza dover ungere ingranaggi burocratici o incaricare tecnoburocrati di redigere e approvare direttamente i progetti.
Da quel che emergeva dalle notizie di stampa si cominciava ad intravedere, oltre al rilancio dell’edilizia in termini di volano per la ripresa economica all’insegna del noto aforisma “quando l’edilizia va tutto va”, anche la possibilità di metter mano alla qualificazione della squalificata edilizia che dal dopoguerra deturpa l’Italia approfittando degli ampliamenti per ridisegnare architettonicamente gli edifici o attuando la tanto auspicata sostituzione edilizia demolendo e ricostruendo. Chi si segue su queste pagine ci perdonerà la deprecabile autocitazione se ricorderemo quanto avemmo a scrivere sul numero di gennaio scorso in “Ripensare la città” che aveva come occhiello proprio il sottotitolo “Demolire per ricostruire”. Ritorneremo sull’argomento più avanti.
A sconvolgere i sogni di edificazione alimentati negli italiani, però, il presidente Berlusconi, sotto l’attacco di un centrosinistra in via di disfacimento intellettuale ed organico che lo accusava di cementificare l’Italia e quello parimenti virulento scatenato dalle Regioni governate dalla sinistra che lo accusavano di incostituzionalità, nel corso di un’intervista rilasciata il 24 marzo ha gelato gli entusiasmi di una gran parte di cittadini dichiarando: “Non c’è nulla di incostituzionale nel piano-casa, ma sta girando un testo non mio. Il decreto o d.d.L. che sia si fermerà alle case monofamiliari e bifamiliari e alle costruzioni da rifare dopo che saranno demolite” . Il 26 marzo l’annuncio di uno slittamento per fare il punto con le Regioni.
Inevitabili gli interrogativi che l’intervista del 24 marzo e l’annuncio del 26 hanno generato.
Qual è il ” testo non mio ” denunciato da Berlusconi?
Perché solo le monofamiliari e bifamiliari con la conseguente divisione in figli e figliastri?
E’ questo il piano casa ex L. 133/2008 ?
Vediamo di azzardare una risposta a questi primi interrogativi per aprire, poi, spazio ad altre considerazioni.
Per rispondere al primo quesito diciamo subito che, per quel che se ne sa, l’unico testo apparso sulla stampa è quello pubblicato da Il Giornale del 21 marzo con il titolo: “Bozza del 19 marzo 2009. Misure urgenti per il rilancio dell’economia atraverso la ripresa delle attività imprenditoriali edili” composta di sette articoli. Essendo stata pubblicata, con relativo commento, su un giornale filogovernativo di proprietà della famiglia Berlusconi, non dovrebbe essere quel “testo non mio” cui faceva riferimento il Presidente. Ebbene, questa bozza, all’art.2 porta il titolo: “Interventi su singole unità immobiliari”. Nel testo si parla esplicitamente di “ampliamento dell’unità immobiliare”. A rigore il termine di unità immobiliare è proprio della legislazione catastale riguardante gli edifici ( Nuovo catasto edilizio urbano in sigla N.C.E.U. ) che lo definisce come “ogni parte di immobile, intero immobile o complesso di immobili che, nello stato in cui si trova, è di per se stesso utile ed atto a produrre reddito proprio”. Ne consegue – e ci venga perdonata l’esposizione rigidamente tecnica – che se la bozza all’art.2 afferma che: ” … è consentito l’ampliamento dell’unità immobiliare …” ed al comma 2 stabilisce che “L’ampliamento … non può essere superiore complessivamente al venti per cento del volume dell’unità … ” significa che anche un appartamento, in quanto unità immobiliare, ed il condominio in quanto complesso di immobili, possono ampliarsi, se dispongono delle potenzialità necessarie, fino al venti per cento del volume. Pertanto l’affermazione di Berlusconi, secondo la quale il decreto si fermerà alle case monofamiliari e bifamiliari è priva di rispondenza al dettato della bozza e della logica.
Ma poi, cosa suscita tanto timore in Berlusconi al punto di portarlo a fare a pugni con la logica ed il buon senso costringendolo a dividere il mondo dei proprietari di case in figli che possono ampliare e figliastri ai quali viene precluso? Sembra quasi che l’opposizioni punti, riuscendovi, a farlo passare per … beh! … per quello che non è.
Tanto per cominciare: che significano case monofamiliari e bifamiliari?
Le case a schiera, ad esempio, ( non parliamo di villette a schiera per favore! ) sono un tipo edilizio esclusivamente monofamiliare ed urbano la cui caratteristica è quella di aggregarsi con tipi analoghi a formare tessuti edilizi. Le città antiche, almeno fino al ‘600, erano costituite da case a schiera; facevano eccezione i tipi a domus anch’esse monofamiliari e anch’esse aggregabili in tessuti edilizi con tipi analoghi. Esistono, specie al sud e nelle isole, città formate da tessuti di domus, mentre al centro e al nord le città erano, prevalentemente, formate da tipi a schiera. Ebbene, essendo tipi aggregativi secondo Berlusconi perderebbero, per questo, la loro monofamiliarità? Le case bifamiliari sono, invece, pseudo-tipi isolati, non formano tessuti edilizi e quindi sono poco urbani. Sono, infatti, eminentemente suburbane come le monofamiliari isolate tanto care all’abusivismo e all’urbanizzazione di espansione ( le periferie ) soprattutto a nord ed a nord-est. Sono composte da due monofamiliari aggregate e rientrano nella selezione berlusconiana. Perché fino a due tipi o pseudo-tipi l’aggregazione va bene e per oltre non è accettata? E le quadrifamiliari, aggregazione di monofamiliari, possono ampliarsi o no? E se no, perché? Non si comprende quale sia la logica che sovrintende la dichiarazione del 24 marzo e che suscita tanti interrogativi.
In una bifamiliare, secondo il comma 5 dell’art.2 della bozza, una monofamiliare componente può cedere il suo diritto di edificazione del 20% in più all’altra monofamiliare contigua la quale può cumulare il diritto edificatorio di ampliamento purchè non superi i 300 mc ( metri cubi ) complessivi, in pratica un appartamento da 100 mq ( metri quadri ). Ma per raggiungere una tale superficie dovrebbe essere un bifamiliare da 1500 mc al minimo. Immaginiamo allora che fossi, putacaso, unico proprietario di una villa – una vera villa di 3000 mc, poniamo – e non di una semplice casa isolata, la stessa risulterebbe monofamiliare e quindi potrei espandermi, ma solo fino al limite di 300 mc ai sensi del comma 5 dell’art.2. Se però la proprietà fosse distinta in due ali appartenenti a me ( sognare non costa nulla ) e ad un parente nella proporzione di 1500 mc ciascuno, la villa risulterebbe bifamiliare e pertanto potremmo ampliarci entrambi per 300 mc a testa. Ne risulterebbe un piano di rilancio per il suburbio che interesserebbe solo i più facoltosi proprietari di ville da 1500 mc, quelli delle case isolate mono e bifamiliari, i proprietari di case per vacanze isolate e gli abusivi sanati. Infatti questi ultimi con la sanatoria avevano estinto la pena, ma non il reato. La loro casa era e rimaneva, di fatto, un “corpo di reato” e perciò stesso non avrebbe potuto subire modifiche o accrescimenti.
A non godere del rilancio sarebbe tutta l’edilizia composta di case in line, evoluzione della più antica casa a schiera, che rappresenta oggi il tipo più diffuso di case d’affitto a proprietà unica, ma soprattutto di condominii a basso reddito e quindi plurifamiliari. Questi proprietari, abitanti perlopiù in “scatole di cerini” che avrebbero davvero bisogno di ampliarsi un po’ e di riqualificarsi, risulterebbero, quindi, dei figliastri di questo piano di rilancio.
Non ne godrebbero i piccoli alberghi, vera risorsa dell’economia turistica da rilanciare e qualificare che, da un incremento del venti per cento della loro superficie, trarrebbero incentivo a migliorare la qualità dell’offerta turistica.
Con la restrizione dell’incentivo alle case monofamiliari e bifamiliari sfumerebbe anche la possibilità di metter mano alla qualificazione dell’edilizia stimolando, con l’ampliamento del venti per cento, il ridisegno delle costruzioni erette dal dopoguerra ad oggi. Se si considera che un’elevatissima percentuale dell’edificato a base di mono e bifamiliari è stata realizzata da tecnici addestrati e abilitati a costruire edifici di tre piani in zona rurale senza un minimo di formazione culturale architettonica e con una formazione urbanistica limitata a tre lotti e alla applicazione banale dei parametri di volumetria, superficie coperta e distacco dai confini, non c’è da farsi illusioni sulla qualità degli interventi di ampliamento: saranno quegli stessi tecnici, con la stessa cultura, ad operare. Anche in questo campo, come nella squalificata tecnoburocrazia, esistono lodevoli eccezioni ma, tanto per far ricorso ad un luogo comune, classiche rondini che non fanno primavera.
Eppure se c’è una possibilità di ottenere una riqualificazione dell’edificato ridisegnando tante turpi architetture, la stessa risiede proprio nel dettato della bozza del 19 marzo 2009 che, nel parametro dell’unità immobiliare formulato dalla legge erariale, consente ad edifici in linea di affitto o condominiali o alle classiche palazzine di ampliarsi. E ciò nonostante la difficoltà di realizzare l’ampliamento delle unità immobiliari di un condominio data la connaturata litigiosità dei suoi componenti. Ad esempio: edifici composti di unità immobiliari in affitto di proprietà di un unico ente e quindi di un unico proprietario potrebbero, nelle mani di un capace architetto, acquisire con l’ampliamento una dignità architettonica che oggi non posseggono. Per rendere l’idea: un edificio in linea con tre corpi scala a due appartamenti a piano per ogni corpo e sviluppantesi per sette piani – strutture permettendo – potrebbe crescere di un altro piano e magari attrezzarsi con un impianto di pannelli fotovoltaici. Se ben ridisegnato, dato l’impatto visivo che avrebbe rispetto al contesto urbano, gioverebbe alla città assai più che l’accrescimento di monofamiliari o bifamiliari ed è su questi tipi edilizi che dovrebbe concentrarsi maggiormente l’azione di rilancio dell’edilizia supportandola con la concessione di mutui agevolati nel caso di restyling ovvero del ridisegno delle facciate. E ciò per una ragione evidente: se è vero che in casa propria ogni cittadino è sovrano è altrettanto vero che gli edifici insistono su uno spazio collettivo entrando, in tal modo, in rapporto con la comunità degli abitanti. Una considerazione, questa, dettata dal buon senso che ha informato la vita dell’uomo sin dai tempi più remoti. Infatti circa seicento anni prima della mascita di Cristo, già Lao-Tzu affermò che la casa appartiene a chi la guarda a significare che l’aspetto esterno della stessa è pubblico perché parte espressiva dell’identità corale della città nella quale il cittadino si riconosce e quindi la possiede. E’ questa l’essenza dello spazio urbano, pertinenza del tipo edilizio in ambito collettivo e quindi, più che interfaccia tra singolo e società, la facciata di una casa rappresenta la pelle in comune fra il proprietario/inquilino ed il resto dei cittadini che ne sono i possessori. E come la proprietà individuale va tutelata come diritto inalienabile del singolo, altrettanto va tutelato il possesso della sua “pelle” esterna come diritto di tutta la città. Se vivessimo in tempi diversi non dovrebbe essere necessario far rilevare, quindi, come ridisegnare un edificio architettonicamente squallido che offende la pelle comune facendo parte di una parete urbana o del fronte edificato di uno spazio collettivo – strada o piazza – sia prima di tutto un segno di rispetto nei confronti della comunità di cui il proprietario fa parte. Ed è vero il contrario: trascurare l’aspetto del proprio edificio in favore del beneficio economico individuale significa non portare né desiderare di ricevere rispetto.
Per rispondere, infine, al terzo dei quesiti formulati, il dettato della bozza del 19 marzo 2009 è esauriente; non si tratta del piano casa di cui alla L: 133/2008 che battezzammo “Il grande inganno” ne Il Borghese di novembre 2008. Quest’ultimo doveva incrementare “… il patrimonio ad uso abitativo attraverso l’offerta di alloggi [ nuovi] di edilizia residenziale destinati prioritariamente a prima casa per le categorie sociali svantaggiate” La bozza, impropriamente denominata piano casa riguarda, invece, non l’edilizia nuova, ma incrementi di quella esistente nella misura del 20% in più e non oltre 300 mc per unità immobiliare. Vi è, però, un aspetto che può collegarsi al piqano casa vero e proprio ed è – insieme al superamento della tecnoburocrazia – il vero elemento qualificante del piano di rilancio dell’edilizia, la possibilità statuita dall’art.3 della bozza di rinnovamento del patrimonio edilizio esistente che recita: ” … sono consentiti interventi consistenti nell’integrale demolizione e ricostruzione di edifici con aumento fino al 35% del volume esistente per gli edifici residenziali o della superficie coperta per quelli adibiti ad un uso diverso, a condizione che siano utilizzate tecniche costruttive di bioedilizia o di fonti di energia rinnovabile o di risparmio delle risorse idriche e potabili.”
Crediamo balzi all’evidenza la portata dirompente di un simile dispositivo soprattutto in termini di ridisegno urbanistico.
Proviamo a descrivere un caso ipotetico prendendo a parametro il tipo edilizio chiamato in causa per l’esempio di ridisegno architettonico: un edificio in linea con tre corpi scala a due appartamenti a piano per ogni corpo e sviluppatesi per sette piani. Svilupperebbe una volumetria di mc.16.000 per 45 appartamenti ( uno a piano terra per ogni corpo scala): Ogni appartamento di 118,51 mq lordi compresi scale, ascensore, ingressi, svilupperebbe un volume di mc.355 e accoglierebbe una media di tre abitanti.
Prendiamo in considerazione un quartiere in degrado di modeste dimensioni, diciamo 6084 abitanti. Avremmo ben 2028 appartamenti per uno sviluppo di 720.000 metri cubi. Demolendo e ricostruendo l’operazione frutterebbe 972.000 metri cubi ovvero tra i 709 e 710 appartamenti in più con un incremento di 2127-2130 abitanti teorici. Perché teorici? Perché lo scopo è quello di migliorare il quartiere e non quello di aumentare la densità abitativa percui un certo incremento di abitanti ci sarebbe, ma non nella misura teorica.
Ma gli attuali abitanti dove li metteremmo se demolissimo le loro case? In case parcheggio a rotazione, ovviamente, che sarebbero le prime ad essere costruite.Un’operazione fattibile se consideriamo il valore delle case in degrado come costo del terreno in ragione della posizione ed il maggior valore degli edifici dopo la qualificazione edilizia ed urbanistica.
Trasferiamo il quadro in una ipotetica ex zona 167 di proprietà, oggi, dell’ATER. Il ministro Brunetta penserebbe subito a rifilare le case in degrado agli attuali abitanti per fare cassa lasciando loro l’onere di riscattarsi dal degrado sociale. Questo sarebbe in linea con il piano casa ex L.133/2008 e con l’art.13 della stessa legge. A chi gioverebbe? Certo gli attuali inquilini dell’ATER diverrebbero proprietari, ma di cosa? Quasi sempre di case fatiscenti o in degrado situate in ghetti urbani che, proprietari con entrate spesso al di sotto di mille euro mensili non potrebbero restaurare né tampoco demolire e ricostruire considerando l’indebitamento dovuto contrarre per consentire all’ATER di fare cassa. Bella politica sarebbe quella di far lucrare un ente pubblico come l’ATER vendendo il “pacco” truffaldino agli inquilini per consentire a qualche valvassore della politica di infoltire il sottobosco dell’amministrazione/ amminestrazione (proto lasciare il termine!) degli appalti: Quando mai gli acquirenti di case ex IACP con redditi più che modesti, sarebbero in grado di riscattarsi dal degrado edilizio ed urbanistico se non venissero aiutati? La strada da seguire è un’altra e passa appunto per la demolizione e ricostruzione, ma eseguita dall’ATER in veste di proprietario-committente che, rivolgendosi a professionalità esterne tramite concorsi e con un po’ di managerialità otterrebbe di lucrare su quella parte di cubatura in più ( 250.000 nell’esempio teorico). Il ricorso alle professionalità esterne tramite concorso è essenziale dal momento che ciò che si vuole qualificare sono proprio gli errori urbanistici ed edilizi frutto di schemi di progettazione promossi e stimolati dal vecchio IACP di cui l’ATER ha ereditato i quadri.L’attuale inquilino che volesse rimanere nel quartiere risanato e qualificato dovrebbe avere assicurato il diritto all’acquisto delle nuove abitazioni a costo di costruzione e non a costo di mercato.
Questo enunciato è solo un esempio teorico, dicevamo, e non la sola formula applicabile, ma indica il principio di base: il fondamentale riscatto delle periferie è un’operazione sociale che lo Stato può effettuare senza rimetterci. Occorrono intelligenza, capacità progettuale e organizzativa, volontà politica coinvolgendo direttamente gli abitanti stessi nelle scelte progettuali come decisori e finanziatori attraverso mutui agevolati.
La bozza di legge necessaria allo scopo c’è. Tuttavia, se si vuole davvero avviare il rilancio dell’edilizia bisogna avere il coraggio di confermare la bozza nella sua attuale stesura con l’abolizione del limite dei 300 mc per gli alberghi in sede propria.
Le critiche sulla cementificazione si sono già ritorte contro chi ha permesso il sacco dell’Italia negli anni passati e fa oggi la vergine rifatta. I loro strumenti, ossia i loro progettisti, stanno già studiando come abbandonare la nave e salire sul vascello del piano casa. L’entusiasmo che il piano ha suscitato si dagli inizi, non va smorzato ponendo limitazioni prive di logica, ma va, piuttosto, potenziato per consentire quell’unione reale, nel fare, tra il popolo ed i suoi rappresentanti che Berlusconi ha sempre auspicato. L’opposizione, in proposito, sta già cambiando spartito e le idi di marzo sono felicemente trascorse senza incidenti. Oggi IV giorno ante kalendas aprilis in hoc anno 2762 ab urbe condita ci disponiamo all’attesa delle “Misure urgenti per il rilancio dell’economia attraverso la ripresa delle attività imprenditoriali edili” facendo tanti auguri all’Italia.
 

Lascia un commento