Precariato & precariato. Perché?

23 Ottobre 2009

Enea Franza

I tanti perché del precariato

 

Una battuta del nostro Ministro dell’economia Tremonti, nel corso della conferenza stampa seguita all’Ecofin, certamente, un’affermazione che rasenta la banalità, è stata però sufficiente a scatenare un putiferio. “Sono profondamente convinto – ha detto – di quello che ho detto già tante volte, anche da ministro. Convinto delle difficoltà della società. E con realismo faccio la constatazione che esistono due paradigmi di lavoro. Io sono per il lavoro fisso – ha ribadito – perché la stabilità del lavoro favorisce la stabilità di rapporti umani e della famiglia”. Poi, ha spiegato, “c’è il paradigma del lavoro precario. È chiaro che non puoi abrogarlo, è una necessità in parte imposta dalla globalizzazione. Ma lo Stato deve correggere e rendere meno gravose le forme della precarietà. E io – ha aggiunto il ministro – non sono uno dei fanatici darwinisti che vedono nella mobilità un valore in sé. La stabilità ha un valore maggiore”.

Insomma nulla di più di una enorme banalità, eppure, da una settimana a questa parte non si parla di altro e, forse a ben vedere, si tratta di una di quelle tanta questioni di cui in Italia non si può non parlare. Cerchiamo di capire meglio. Il rapporto d’impiego standard, cioè quello a tempo indeterminato, è sorto in una precisa fase sociale ed economica che approssimativamente corrispondeva, per l’Occidente, ai due-tre decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Tale fase storica caratterizzata da alti tassi di crescita, alti consumi interni ed alta produttività del fattore lavoro ha visto affermare un modello di regolazione socio-economica costruito sul modello di base c.d. fordista a cui si un forte intervento pubblico, motivato dagli insegnamenti della teoria economica keynesiana. Precisiamo subito che l’aggettivo fordista è stato usato per indicare un regime di produzione ispirato al paradigma adottato da Ford e relativo ad una modalità di produzione basato principalmente sull’utilizzo della tecnologia della catena di montaggio (assembly-line) . Tale sistema produttivo ha naturalmente avuto un forte impatto sulla vita degli uomini e della società Occidentale fino a che, a partire dagli anni ’70 tale modello è andato in crisi.

E ad andare in crisi è stato soprattutto il modello contrattuale del rapporto d’impiego standard. Vediamo d’individuarne le motivazioni … Innovazione tecnologica, mutamenti avvenuti nella famiglia e relative al processo di emancipazione femminile hanno sicuramente determinato un forte crescita della disoccupazione, ma certamente altre sono state le cause che hanno scardinato all’origine il modello contrattuale standard. In primo luogo, la flessibilità dei cambi, introdotta a partire dal 1971 con la fine del sistema del Gold Exchange Standard – che permetteva la convertibilità di una moneta in un’altra sua volta convertibile in oro – e la sostituzione con un sistema fluttuante di cambi. La flessibilità dei cambi, connessa alla progressiva apertura dei Paesi al commercio internazionale, ha reso necessario per le imprese di riconsiderare tutti i costi di produzione, inclusi quindi quelli connessi alla manodopera rendendoli sempre più flessibili e adattabili alle esigenze produttive. Si è dato così corso un pò tutto il mondo ad una lunga stagione di riorganizzazioni e ristrutturazioni. In particolare l’Italia presentava, in quegli anni, una struttura produttiva collocata in settori tradizionali in concorrenza con paesi emergenti e verso mercati di sbocco saturi od in graduale saturazione. Tale fatto rendeva ancora più esposto il nostro Paese alla competizione internazionale, che naturalmente si estendeva a tutte le voci di costo (costi delle immobilizzazioni, di finanziamento, dell’energia, ecc) ed anche naturalmente al costo del lavoro. E’ noto, infatti, che un sistema di cambi flessibili produce tassi di cambio instabili, moltiplica la speculazione sulle valute, crea incertezza nei commerci internazionali e sugli investimenti in quando aumenta l’interdipendenza delle economie dei Paesi e favorisce, attesa la maggiore libertà dei governi di scegliere le proprie politiche economiche, i comportamenti indisciplinati da parte degli stessi. Insomma, un regime di cambi flessibili aumenta l’incertezza e la volatilità, rende le transazioni internazionali più difficili e complessa la politica monetaria perché non riesce a prevenire una crescita eccessiva della quantità di moneta e le iperinflazioni. Il sistema è nella sostanza meno protetto di fronte alle svalutazioni operati dei competitor. Vediamo meglio con un esempio.

L’altro aspetto determinante ai fini della comprensione del fenomeno della richiesta dal mondo del lavoro di contratti flessibili è quello della deindustrializzazione. Tale fatto ha comportato due fenomeni principali: quello della mancata risposta in termini di incremento dell’occupazione anche in presenza di cicli di crescita economica e ripresa della produzione, e la terziarizzazione dell’economia che ha favorito un rapido cambiamento del sistema lavorativo a svantaggio delle carriere di lavoro più stabili, più lunghe e ben retribuite a vantaggio di lavori precari, instabili con redditi bassi. In un primo periodo, che va dal dopoguerra all’inizio degli anni settanta, esso è stato caratterizzato da alti livelli di crescita, di produzione, di occupazione: il fenomeno ha avuto carattere meno intenso; in un secondo periodo, che va dagli inizi degli anni settanta fino ai tempi attuali, nel quale la crescita del prodotto è stata molto più contenuta, la disoccupazione ha raggiunto livelli decisamente alti. Tale processo è stato peraltro relativamente meno accentuato negli U.S.A. che nei Paesi europei usciti sconfitti dal conflitto mondiale. Un ultimo fenomeno che occorrerebbe ricordare a tutti e che (a mio avviso) è la concausa della attuale indispensabilità di nuove forme contrattuali è relativo alla presenza sul mercato del lavoro di lavoratori poco qualificati che trovano a fatica occupazioni stabili, individui (specialmente donne) che desiderano un lavoro più flessibile in termini di orario, di studenti lavoratori, neo-laureati in attesa “del posto fisso”, di pensionati divenuti collaboratori dell’impresa per cui prima lavoravano, occupati regolarmente per cui la collaborazione rappresenta un secondo lavoro, e così via. Le statistiche dimostrano che le caratteristiche dei parasubordinati in senso stretto sono in netto contrasto con quelle degli altri collaboratori: sono giovani, ricevono compensi annui bassi e sono in maggioranza donne, svolgono attività che non richiedono qualifiche elevate (per esempio vendite a domicilio, estetiste, marketing e pubblicità).
E’ evidente che il processo di apertura dei mercati internazionali anche a Paesi senza alcuna forma di tutela del lavoro ha esasperato il problema.

In Italia, si è cercato di far fronte a tali guasti con politiche che se da un lato hanno contribuito a mantenere un alto il livello di protezione del lavoro indeterminato (in particolare proteggendo chi il lavoro lo aveva già), hanno d’altro canto incentivato la flessibilizzazione dei nuovi ingressi nel mercato del lavoro.

Il percorso è stato lento e non sempre all’altezza delle necessità dell’industria. Illuminante è al riguardo quando si può leggere nella Relazione del Governatore della Banca d’Italia del 2004, pag. 17: “La legislazione sociale è stata definita, in Italia come in altri Paesi europei, alla fine degli anni sessanta e nei primi anni settanta, al termine di due decenni di continuo ed elevato sviluppo; la normativa è stata disegnata assumendo un sistema in costante, sostenuta crescita. Negli anni settanta il rallentamento strutturale e la crisi di importanti comparti dell’industria hanno spinto a profonde riorganizzazioni produttive ma è stata insufficiente l’azione diretta a rimuovere le rigidità normative e i costi impropri che gravano sulle imprese”. Solo molto più avanti al regime della generale negazione del ricorso al contratto a termine, tranne che in alcuni casi tipizzati, si sostituisce il principio generale in base al quale: “il datore di lavoro può assumere dei dipendenti con contratto a scadenza fissa, dovendo fornire contestualmente ed in forma scritta le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che legittimano l’apposizione del limite temporale”. Ovvero, quando il datore di lavoro si trova nella necessità temporanea di dover assumere personale specializzato per un determinato lavoro che i dipendenti in forza non sono in grado di poter svolgere (ragioni tecniche), ovvero, il datore di lavoro assume nuovo personale per far fronte a temporanee situazioni di mercato o per commesse eccezionali (ragioni produttive ed organizzative) ovvero, la sostituzione dei lavoratori per assenze degli stessi.
Ma allora di che parla il nostro Ministro? Ebbene, le statistiche forse ci aiutano a capire. Sembra infatti che le esigenze di flessibilità produttive ed organizzative spiegano solo una parte minoritaria del ricorso delle imprese ai contratti atipici. Solo in piccola parte, addirittura il 39% , i contratti a termine sono legati a reali esigenze dovute al ciclo economico o al tipo di produzione e sembra, invece, prevalere nelle imprese l’intenzione di ridurre il costo del lavoro e la valutazione del costo-opportunità legato alla possibilità di licenziare. Come si vede i dato dimostrano come, almeno per la realtà italiana, il richiamo del Ministro ci sta tutto! Anzi, se prendiamo anche i c.d. collaboratori a progetto, troviamo una realtà ancora più sconvolgente.

E’ esperienza oramai comune che molti di loro risultano sono soggetti a vincoli tipici dei dipendenti ed i dati lo confermano: il 78,5% lavora per un solo committente, il 64,32% deve garantire la presenza regolare presso la sede dell’impresa, il 60,3% ha un orario giornaliero, l’85,3% usa mezzi, strumenti e strutture del datore ed il 61,7% ha rinnovato la collaborazione almeno una volta. Anzi, adesso si tende a preferire i lavoratori a progetto da quelli contrattuali e le motivazioni sembrano essere diverse. La questione potrebbe essere liquidata rapidamente ove venisse considerata da un punto di vista esclusivamente legato ai maggiori costi, soprattutto previdenziali, del lavoro subordinato. Basterebbe dunque fare una valutazione economica e verificare: sino a che punto siano sostenibili maggiori costi per il sistema delle imprese che oggi usano lavoro autonomo; sino a che punto possa essere abbattuto il costo indiretto del lavoro subordinato. Cosa che peraltro è stata già fatta, con l’esperienza del credito di imposta, dello “sconto” fiscale per ogni neo assunto.

Ben più importante, invece, sembra a molti economisti la questione della produttività individuale. Partendo ad esempio da un compenso orario comune di 7,8 euro, il costo di un dipendente e di un lavoratore a progetto arriva ad essere consistentemente diverso. Infatti, ipotizzati i medesimi oneri del lavoro dipendente per TFR, iscrizione INPS ed INAIL, la differenza rimane notevole. Il costo orario di un dipendente è infatti 14.48 euro mentre quello del lap arriva a 8,68. Ma com’è possibile questo ? Orbene, questo delta di costo orario di euro 3,80 è per un terzo alimentato dal valore delle ferie e per un altro terzo da altre voci di diverso genere (ex festività, festività infrasettimanali lavorate, buoni pasto). L’ulteriore terzo (che nel nostro esempio è stato posto pari a 1,02 euro), è imputabile a molti al valore dell’assenteismo a cui si aggiunge che il costo aziendale del lavoratore autonomo passa da 14,48 a 18,10 in considerazione della minore produttività del dipendente. Se l’autonomo produce in un ora 100, l’altro produce 75. Il perché di questa differenza sarebbe, secondi tali economisti, nel sistema retributivo. Il lavoratore a progetto ha un compenso interamente variabile parametrato ai risultati che raggiunge. Questi dati ci forniscono dunque un’indicazione di sistema fondamentale. Il mercato richiede lavoro autonomo anche per la sua maggiore produttività.

Ma se tiriamo le conclusioni significa che il sistema in cui viviamo richiede una disciplina che superi il principio di eguaglianza formale tra gli uomini, e distingua, anche da un punto di vista giuridico, il lavoratore produttivo dal lavoratore scarsamente produttivo prevedendo per questo un sistema diversificato di trattamento giuridico ed economico.

Ma forse almeno nel nostro Paese quello che più conta sarebbe invece ripensare la normativa del lavoro indeterminato, che quanto a tutele del lavoratore certamente non ha nulla da invidiare ai nostri concorrenti del nord Europa, ma che probabilmente dovrebbe essere nei confronti di tutti fannulloni (siano essi pubblici o privati) molto, molto più cattiva! Di certo chi come noi ritiene che al centro del mondo vi sia l’uomo e non il mercato non può che porsi seriamente la questione di ripensare ad un modello diverso più rispettoso della dignità umana.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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