Mentre gli spietati speculatori di borsa tornano alla carica, la crescita planetaria del debito pubblico riprende a tutta birra

26 Novembre 2009

Enea Franza

Debito pubblico: le preoccupazioni per il domani di fronte alla crisi del liberismo  internazionale e agli insegnamenti della storia

Il debito pubblico dei maggiori paesi industrializzati è, nel giro dei primi mesi del 2009 cresciuto a dismisura.
In particolare, negli Stati Uniti si prevede che il debito pubblico nel 2009 aumenterà di 2.000 miliardi, il 22% in più in un anno, arrivando a circa 11.500 miliardi complessivamente. Il Pil americano è intorno ai 14.000 miliardi, ma nei primi sei mesi dell’anno ha perso oltre 200 miliardi a causa della recessione economica. A tale importi si aggiunge un debito privato stimato ad oltre 14.000 miliardi. L’Europa, in massima parte per coprire i nuovi disavanzi, emetterà nel 2009 sul mercato obbligazioni per 800 miliardi di euro. In Germania il debito pubblico aumenterà di circa 200 miliardi. In Spagna il disavanzo è aumentato di 50 miliardi di euro in 7 mesi e si teme che a fine anno possa salire all’8-10% del Pil. In Francia il ministro del bilancio calcola un aumento del debito del 10% nel 2009, pari a circa 130 miliardi di euro. In Inghilterra, con un debito privato pari al 115% del Pil, la stampa denuncia che, a seguito delle nazionalizzazioni della Lloyds Bank e della Royal Bank of Scotland in crisi, il governo, accollandosi i loro titoli tossici, porterebbe il debito pubblico dal 46 al 150% del Pil. In Italia da gennaio a giugno il debito pubblico è aumentato di 90 miliardi raggiungendo la vetta dei 1.752,2 miliardi. In Giappone, infine, il debito pubblico è già al 170% del Pil ed aumenterà quest’anno di parecchie centinaia di miliardi di dollari.
Le recenti proiezioni fatte dal Fmi sull’andamento del debito nei paesi industrializzati sono pertanto cupe. L’aumento del debito pubblico globale nel solo 2009 ammonterebbe a circa 4.000 miliardi di dollari che dovranno essere coperti da nuovi titoli dello stato. Il quadro, in definitiva, è davvero sconfortante.
Ci stiamo incamminando verso la bolla del debito pubblico, verso la madre di tutte le crisi ?
Allo scoppio della grande depressione del 1929, il debito pubblico americano era del 17% del Pil e salì al 40% nel 1934, al 43% nel 1938 ed al 121% nel 1946, per il gigantesco impegno nella mobilitazione militare e nella ricostruzione. Non molto diverso appare la situazione del governo di Sua Maestà. Nel 1815, concluse le guerre napoleoniche, l’indebitamento toccava, secondo stime attuali, il 250% del Pil ed il debito pubblico britannico rimase per mezzo secolo sopra il 100% del Pil. La crescita economica – gli anni 1830-1860 furono tra i più dinamici dell’economia inglese – e l’elevata tassazione ne ridussero poi progressivamente il peso sino a meno del 50% alla fine del secolo. Dopo la Seconda guerra mondiale, il rientro fu più rapido (dal 230% del 1945 al 100% nei primi anni 60).
E’ possibile osservare, tuttavia, che nei casi citati la spesa pubblica era diretta agli investimenti nella produzione, in particolare a quella bellica, e che forse il volano della ripresa può essere proprio imputata alle ricadute positive nei settori dell’economia civile. Ma un dato è certo, nelle emergenze belliche (così come in quelle finanziarie) i governi non sono mai andati per il sottile: quando è in gioco la sopravvivenza stessa del Paese, alla sua economia gli interventi pubblici sono chiesti da tutti a gran voce! E l’uso spregiudicato dell’indebitamento per sostenere una spesa crescente è sempre stato una delle prime armi utilizzate. Anche qui la storia ci dà qualche esempio illuminante.
Dopo la prima guerra mondiale, la Germania fece piazza pulita del debito, fu costretta a fare piazza pulita del debito, con la più colossale iperinflazione della storia europea dai tempi della Rivoluzione francese. La Germania pagò un prezzo sociale non piccolo a questa soluzione: la distruzione della classe media. In Italia, nel secondo dopoguerra, lo stesso Einaudi permise all’inflazione di distruggere l’indebitamento bellico. In Italia piansero i sottoscrittori del prestito Soleri mentre gli altri cittadini si consolarono, a tempo debito, con la rapida crescita dei redditi. .Così è dato leggere sulla stampa inglese a proposito degli alti livelli della spesa pubblica: “Il debito pubblico è un prodigio che ha confuso la saggezza e l’orgoglio degli statisti e dei sapienti. In ogni fase della sua crescita tutti asserivano seriamente che la bancarotta e la rovina erano alle porte. Eppure il debito continuò ad aumentare ma la bancarotta e la rovina restarono, come sempre, lontane” (Thomas Macaulay 1848, sulle vicende del debito pubblico inglese a partire dalla fine del 600) e il 16 febbraio 1916 il New York Times pubblicò un articolo che riecheggia dopo oltre 50 anni Macaulay: «Chi predisse che l’Inghilterra sarebbe affondata sotto il peso di un debito di 50, poi di 80, poi di 150 e ora di 800 milioni cadde nel doppio errore di sopravvalutare il peso del debito e di sottovalutare la forza dell’economia che sosteneva quel debito».
Perché, allora, la congiuntura attuale dovrebbe fare eccezione rispetto all’esperienza storica che vede il debito pubblico espandersi a livelli enormi e poi rientrare ? Come visto in questi mesi, si è creato nuovo debito pubblico che è andato in maggior parte per sostenere le spesi correnti e per acquistare e/o sostenere istituzioni finanziarie in bancarotta. A seguito di tali importanti interventi, si stima che nel 2010 gli Usa e l’Europa dovranno rifinanziare enormi quantità di obbligazioni del tesoro in scadenza, rispettivamente per circa 3.000 miliardi di dollari e per 300 miliardi di euro. Anche l’Italia nei prossimi 12 mesi dovrà rimborsare oltre 320 miliardi di vari titoli di stato in scadenza.
Va da sé che l’idea che gli interventi effettuati dagli Stati ha funzionato e ha ridato una certa stabilità nei mercati finanziaria sconvolti probabilmente perché il fatto che lo Stato sia il creditore di ultima istanza ha innestato un clima di fiducia. I titoli dello Stato, infatti, sono considerati sicuri a condizione, naturalmente, che lo Stato non dichiari bancarotta, come fece la Spagna per ben 16 volte fra la metà 800 e il 900 o di recente l’Argentina, che ha rifiutato di pagare i detentori di titoli ed ha cambiato moneta.
Ma è, altresì, indubbio che la previsione di richieste di rifinanziamento dei debiti nazionali per importi cosi grandi, provochino una serie turbolenze sui mercati e sui tassi di interesse di cui non può non tenersi conto.
Vediamo di capire più in dettaglio perché nasce l’esigenza di tenere sotto controllo l’espansione del debito pubblico.
Come sappiamo dai corsi di base di economia, uno Stato può finanziare le spese indebitandosi presso il pubblico, ossia emettendo titoli del debito pubblico e vendendoli ai privati, ed utilizzando il ricavato per finanziare la maggiore spesa pubblica (in tal caso, si parla in questo caso di finanziamento mediante indebitamento); ovvero, può indebitarsi presso la Banca Centrale, ossia emettere titoli del debito pubblico e venderli alla Banca Centrale e si parla in questo caso di finanziamento mediante monetizzazione del debito pubblico perché l’acquisto dei titoli del debito pubblico da parte della Banca Centrale determina un aumento della Base Monetaria e, quindi, l’emissione di moneta; ed, infine, uno Stato per far fronte agli incrementi di spesa può aumentare le tasse (a somma fissa o proporzionali al reddito) in modo da mantenere il bilancio pubblico in pareggio. Si parla in questo caso di finanziamento mediante prelievo fiscale.
Considerato che il ricorso alla Banca Centrale non è più possibile per molti paesi dell’occidente e che, in una situazione di crisi, i governi mal volentieri ricorrono all’aumento delle tasse, non resta che il debito pubblico così come in questa crisi finanziaria è stato fatto a piene mani.
Ma quali sono le principali critiche che sconsigliano il ricorso al debito pubblico ? Le principali motivazioni sembrano essere le seguenti: la prima di carattere finanziario, attiene alla difficoltà di finanziare il debito pubblico quando questo cresce troppo velocemente. Se cala la fiducia dei sottoscrittori dei titoli circa la capacità del debitore di pagare gli interessi e di restituire il capitale, il finanziamento del debito può avvenire solo corrispondendo interessi più elevati. Se la spesa per interessi aggrava il deficit pubblico, facendo ulteriormente aumentare il debito, può innescarsi un circolo vizioso in cui all’aumento vorticoso del debito corrisponde un aumento della spesa per interessi, dei deficit e quindi del debito pubblico. Senza interventi sulle entrate o sulle spese correnti, si rischia l’insolvenza del debitore.
Un’altra motivazione riguarda il cosiddetto effetto spiazzamento (o, per dirla all’inglese l’effetto crowding out). Se lo Stato finanzia la propria spesa ricorrendo al debito pubblico, per collocare i propri titoli presso gli operatori privati dovrà offrire tassi d’interesse competitivi. Ciò comporterà un aumento generalizzato della struttura dei tassi d’interesse e, di conseguenza, una riduzione negli investimenti privati. Inoltre, gli elevati tassi interni attrarranno capitali esteri, rivalutando il cambio e riducendo le esportazioni. Il tutto si tradurrà, pertanto, in una contrazione della domanda aggregata e, dunque, del reddito. E’ tuttavia evidente che se però gli investimenti sono poco sensibili alle variazioni del saggio d’interesse, il crowding out ha una portata relativamente limitata.
Ma ce ne è anche un’altra che attiene al problema della distribuzione della ricchezza. I titoli del debito pubblico emessi per finanziare la maggiore spesa pubblica sono generalmente considerati una maggiore ricchezza dai privati che li hanno acquistati e, quindi, determinano un aumento nella loro spesa per consumi, apportando su questo aspetto un sostegno alla domanda globale. Tuttavia (aspetto negativo) i titoli di credito del debito pubblico, portano al diffondersi e al rafforzarsi di una classe di creditori di Stato autorizzati a prelevare a loro favore certe somme sul gettito delle imposte. Ricordiamo le parole di Marx, che citava il grande economista liberale Sismondi: “I titoli di Stato non sono altro che il capitale immaginario rappresentante la parte determinata del reddito annuo destinata al pagamento dei debiti. Un capitale di pari grandezza è stato sprecato; tale capitale serve da denominatore al prestito, ma non è quello rappresentato dai valori di Stato, poiché esso ormai non esiste più. Frattanto dal lavoro della industria devono sorgere nuove ricchezze; una quota annua di tali ricchezze viene assegnata in anticipo a coloro che avevano prestato quelle ricchezze sprecate; tale quota viene tolta per mezzo delle imposte a coloro che producono le ricchezze per essere distribuita ai creditori dello Stato e, in base al rapporto in uso nel paese fra il capitale e l’interesse, si suppone un capitale immaginario di una grandezza pari a quella del capitale da cui potrebbe derivare la rendita annua che i creditori devono ricevere”. Se si esclude la soluzione di un consolidamento forzato del debito (che porterebbe svalutazione della moneta, rincaro delle importazioni e caduta delle esportazioni, inflazione, eccetera), la solvibilità dello Stato viene garantita di anno in anno nei due modi più tradizionali: si tengono alti i tassi di interesse dei titoli di credito; si rastrella quanto più denaro è possibile con imposte e tagli di spesa. In ogni caso, a pagare è sempre – aveva ragione il liberale Sismondi – chi col proprio lavoro produce la ricchezza della nazione”. Insomma, ipotecano il futuro produttivo a favore dei renitier !
Messo cosi, il problema vero non è pertanto il raggiungimento o meno, durante una grave emergenza nazionale, di un livello d’indebitamento più o meno alto o, per altro verso, superare una quota di tale debito arbitrariamente stabilita (ad esempio 100% del PIL), quanto quello della capacità di rilanciare la crescita e di ridurre progressivamente l’indebitamento. Così visto, il problema del debito appare sotto un’altra luce: il problema non sarebbe il debito di per sé, ma come sia possibile puntare alla crescita dell’economia anche con un alto livello del debito pubblico … !
Esperienze storiche ce ne sono e fanno perno sulla moneta. Mi spiego meglio. Ho sotto gli occhi la breve esperienza di Abraham Lincoln, che aveva finanziato la Guerra Civile Americana con banconote stampate dallo Stato (le Greenbacks) e quella della Germania Nazista. La Storia narra che gli Stati Uniti d’America necessitavano di denaro per finanziare la guerra contro gli Stati Confederati ed i banchieri erano disposti a prestarli, ma con interessi esorbitanti, tra il 24 e il 36%. Il Presidente Lincoln si rese conto che ciò significava mandare il Nord in bancarotta, e chiese a un collega di sua fiducia (il Col. Taylor) di approfondire la materia e trovare una soluzione migliore. Lincoln finanziò la guerra stampando banconote garantite dal governo. Tali banconote USA a corso legale, o greenbacks, costituivano le ricevute per il lavoro e le merci prodotti negli Stati Uniti. Con esse si pagavano i soldati e i fornitori e venivano scambiate contro merci e servizi equivalenti forniti alla comunità. Risultato: i greenbacks aiutarono l’Unione non solo a vincere la guerra ma forse anche a metter le basi per un periodo di espansione economica senza precedenti. Per descrivere l’esperienza tedesca, facciamo riferimento a S. Schacht, in The Magic of Money del 1967, che scrive: “quando Hitler arrivò al potere, il paese era in rovina … La speculazione, sul marco tedesco aveva provocato il suo crollo, dove 100 miliardi di marchi non bastavano a comprare nemmeno un tozzo di pane … Hitler ed i Nazional Socialisti, arrivati al potere nel 1933, si opposero al cartello delle banche internazionali iniziando a stampare la propria moneta”.
Da “A Military History of the Western World” (Minerva Press, 1956) del Britannico, J.F.C. Fuller, si legge: “la comunità delle nazioni non vive del fittizio valore della moneta, ma di produzione di merci reali; la quale conferisce valore alla moneta. E’ questa produzione ad essere la vera copertura della valuta nazionale, non una banca o una cassaforte piena d’oro”- Egli [Hitler] decise dunque 1) di rifiutare prestiti esteri gravati da interessi, e di basare la moneta tedesca sulla produzione invece che sulle riserve auree. 2) Di procurarsi le merci da importare attraverso scambio diretto di beni – baratto – e di sostenere le esportazioni quando necessario. 3) Di porre termine a quella che era chiamato ‘libertà dei cambi’, ossia la licenza di speculare sulle (fluttuazioni delle) monete e di trasferire i capitali privati da un paese all ‘altro secondo la situazione politica. 4) Di creare moneta quando manodopera e materie prime erano disponibili per il lavoro, anziché indebitarsi prendendola a prestito”. Segue Fuller: “Hitler era convinto che, finché durava il sistema monetario internazionale […], una nazione, accaparrando l’oro, poteva imporre la propria volontà alle nazioni cui l’oro mancava. Bastava prosciugare le loro riserve di scambio, per costringerle ad accettare prestiti ad interesse, sì da distribuire la loro ricchezza e la loro produzione ai prestatori”.
Insomma, ritornando ad oggi ci sembra utile ripercorrere la storia per imparare forse che sono possibili diverse alternative a quelle che imporrebbero una uscita dagli impegni degli Stati (la c.d. exit strategy) fatti di lacrime e sangue.
Su Hjalmar Schacht, il banchiere di origini ebree che fu capo della banca centrale tedesca nella Germania Hitleriana – e che a nostro modo di vedere riassume egregiamente il mestiere banchiere centrale – si narra la seguente storia. Un banchiere americano pare gli avesse detto: “Dottor Schacht, lei dovrebbe venire in America. Lì abbiamo un sacco di denaro ed è questo il vero modo di gestire un sistema bancario”. E Schacht sembra replicò: “Lei dovrebbe venire a Berlino. Lì non abbiamo denaro. E’ questo il vero modo di gestire un sistema bancario” .
i. Il Trattato di Versailles aveva imposto al popolo tedesco risarcimenti, con i quali si intendeva rimborsare i costi sostenuti nella partecipazione alla guerra per tutti i paesi belligeranti, che pare ammontassero al triplo del valore di tutte le proprietà esistenti nel paese.
ii. John Weitz, Hitler’s Banker (Inghilterra: Warner Books, 1999).
 
 
 
 
 

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