Pil: significati, paradossi, contraddizioni (due)

4 Febbraio 2010

Enea Franza

Il Pil è soltanto una somma?  (II parte)

Continua la spiegazion e e la critica di ciò che si intende per prodotto interno lordo

 

(La prima parte è stata pubblicata il 30gennaio 20109)  Solo negli ultimi anni si è fatta strada una nuova concezione dello sviluppo, non più centrata sulle sole condizioni materiali, ma anche sugli aspetti qualitativi della vita relazionale. Robert Kennedy, nel suo famoso discorso del 18 Marzo del 1968 all’Università del Kansas, ebbe a pronunciare le celebri parole che sintetizzano con appropriatezza la questione: “… Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani …”.
Le misure economiche hanno rispecchiato nel tempo l’idea che si aveva dello sviluppo; così si considera che la prima misura della ricchezza di un paese fosse legata alla ricchezza del suo Re, accresciuta poi per economie prevalentemente agricole dalla terra e dalla sua produzione, mentre nei paesi più industrializzati si aggiunse alla precedente anche l’apporto della manifattura. Nel tempo le misure dello sviluppo sono divenute le misure della produzione, non più in quanto tale, ma in quanto scambiabile sul mercato e “dotata” di un prezzo. Dal dopoguerra ad oggi, la misura con cui si considera lo sviluppo di un paese è, come detto, il Pil, ma l’idea di sviluppo e della “nuova frontiera” dei Kennedy, fa nascere l’esigenza di nuovi indicatori economici che possano formalizzare e confermare empiricamente i nuovi pensieri. Come poter dare torto alla confusione che genera il Pil! L’evidenza empirica sembra dimostrare che l’incremento del Pil moltiplica i rischi ed i costi associati al degrado ambientale, l’aumento delle disuguaglianze sociali, la disgregazione sociale generando nuove problematiche che parrebbero minacciare i progressi fatti in termini di aspettativa di vita tanto da mettere a repentaglio il futuro della società.
D’altra parte, a partire da quel discorso, l’idea che il Pil non significhi più un granché ha raggiunto tanti; basta ricordare che, anche da ultimo , sul tema c’è stata una conferenza internazionale. Il titolo era significativo: “Beyond GDP” -ovvero “Oltre il PIL” ed ad organizzarla era la Commissione europea, il Parlamento Europeo, l’OCSE ed il WWF . Ma entriamo un po’ nel dettaglio.
Il prodotto interno lordo (Pil o, in inglese, Gross Domestic Product) costituisce la misura della produzione che viene utilizzata nel SEC (Sistema europeo di conti) adottato nei conti nazionali della UE e quindi dell’Italia. Esso misura il prodotto effettuato sul territorio del paese utilizzando fattori di produzione di proprietà di residenti e non residenti. In molti paesi al di fuori della UE, fra cui gli Stati Uniti, l’aggregato a cui si fa riferimento è il prodotto nazionale lordo (Pnl), il quale misura il prodotto effettuato dai residenti nazionali sia all’interno del paese che all’estero. Tuttavia, è possibile passare dal Pil al Pnl semplicemente aggiungendovi i redditi netti dall’estero, cioè i redditi da lavoro e da capitale percepiti all’estero dai residenti al netto degli analoghi redditi percepiti all’interno dai non residenti.
Ma torniamo al nostro Pil. Ideato negli anni ’30 quale indicatore nato per misurare la produzione e l’efficienza di mercato, il Pil si è trasformato via via in un parametro standard usato dai responsabili politici di tutto il mondo ed ampiamente citato nei dibattiti pubblici per palesare il successo o l’insuccesso delle politiche adottate fino a divenire il parametro più largamente diffuso per la misurazione di una economia. Esso in realtà esprime soltanto il valore aggiunto (o il reddito o la spesa) di tutte le attività economiche basate sul denaro o, in altri termini, esso condensa in un solo numero (espresso nella valuta corrente) il valore di tutti i beni e servizi prodotti dell’economia in un dato periodo di tempo, solitamente l’anno solare. Spieghiamoci con un esempio, forse più utile di tante parole, per capire di cosa sto parlando. Supponiamo che l’economia di un Paese sia composta da due sole imprese: una produce acciaio e l’altra automobili. La prima vende acciaio per un valore di 100 alla seconda, che lo usa, insieme a lavoro e macchinari (fattori produttivi), per produrre automobili. Il guadagno derivante dalla vendita delle automobili ammonta a 210. Cos’è, allora, il Pil di quest’economia? Bene, ve lo suggeriamo noi: 210, ovvero, il valore della produzione finale cioè delle automobili e nel conto, naturalmente, non abbiamo tenuto conto dell’acciaio perché usato nella produzione del bene finale. Non vogliamo, ad esempio, includere nel Pil il prezzo totale di un’automobile e considerare come parte del Pil l’acciaio (e diverse parti dell’automobile vendute al produttore, ad esempio i pneumatici) che costituisce un bene intermedio il cui valore è già incluso nel Pil.
Come abbiamo visto, il Pil misura il valore di tutti i beni e servizi finali prodotti nel sistema economico in un dato periodo di tempo (generalmente l’anno, anche se in molti Paesi tra cui l’Italia se ne fanno rilevazioni trimestrali). Le attività produttive di un Paese sono classificate generalmente in tre settori: il settore primario, comprende le attività di produzione delle risorse naturali, un settore secondario che comprende tutte le attività di carattere industriale e quello del terziario relativo alla produzione dei servizi. Ad esempio, in una semplice economia che produce venti banane, del valore di 0,10 euro ciascuna, e sessanta arance, del valore di 0,25 euro ciascuna, il Pil è pari a 17€ . Se a fine anno rimangono invendute 10 banane e 20 arance, essere non formeranno oggetto della produzione per l’anno successivo, ma costituiscono scorte. Il Pil, quindi, misura il valore della produzione corrente ed esclude le transazioni di beni esistenti, come le arance e le banane invendute (o vecchi dipinti ed edifici di precedente costruzione) in quanto prodotti in precedenza e come tale, hanno già formato parte del Pil nell’anno di produzione.
Ma come pervenire ad un calcolo di ciò che un Paese produce in un anno ? Bene, sono state suggerite tre diverse metodologie (che conducono, naturalmente, tutti al medesimo risultato). La prima si basa sul metodo del valore aggiunto ed il Pil in questo caso viene ottenuto sommando i valori dei beni e dei servizi prodotti dalle imprese, e, come premesso, per eliminare tutte le duplicazioni che intervengono nella catena del valore di un bene, ad ogni stadio della produzione viene contabilizzato, come parte del Pil, solo il valore aggiunto al bene in questione in quello specifico stato della produzione (che può essere quindi definito come la differenza tra il ricavo ottenuto dalla vendita e la somma pagata per l’acquisto delle materie prime e dei semilavorati utilizzati nel processo produttivo). Un secondo criterio è invece il metodo dei redditi che lo calcola come somma delle retribuzioni e dei redditi da capitale. Un ultimo criterio, il metodo della spesa, ottiene il Pil con la somma dei consumi (spesa delle famiglie in beni durevoli, beni di consumo e servizi), degli investimenti (spesa delle imprese e delle famiglie in immobili) della spesa pubblica e delle esportazioni nette (differenza fra esportazioni ed importazioni). I tre metodi naturalmente conducono ad un risultato analogo. Infatti, partendo dal concetto di Pil, il valore della produzione nazionale si traduce nel reddito globalmente ricevuto dai percettori di salari, interessi, rendite e profitti e la spesa totale in beni e servizi del sistema economico è pari al valore della produzione; di conseguenza, la spesa totale dipende dal valore di tutti i redditi ricevuti. Sebbene queste tre relazioni appaiano semplici, nella contabilità nazionale la relazione tra Pil, reddito nazionale e spesa totale è molto più complessa. La complessità deriva in gran parte dal modo in cui le imposte dirette e indirette influiscono sul reddito nazionale, ma essa dipende anche dal ruolo del commercio internazionale. Cerchiamo di chiare tutto con un esempio, molte volte usato nei libri d’economia, supponendo che in un’economia esistano due sole imprese; la prima produce farina (mugnaio) per un valore complessivo di 50$, impiegando lavoro, al quale paga salari pari a $ 10 e la seconda (fornaio) produce pane per un valore pari a 100$, impiegando farina per un valore di 10$ e lavoro, al quale paga salari pari a 40$. Qual’è il Pil di questa economia? Il valore complessivo della produzione (50+100=150$) comprende 10$=di farina che sono consumati nella produzione di pane; quindi non sono beni finali. Il Pil sarà dunque pari a: Pil =50+(100-10)=140$. Con il calcolo seguente abbiamo calcolato il Pil utilizzando il metodo del valore aggiunto. Nel nostro esempio il mugnaio non utilizza beni intermedi; quindi il valore netto della sua produzione coincide con il valore lordo: $ 50. Il fornaio, viceversa, impiega 10$ di farina; quindi il valore netto della sua produzione è pari 100-10=90$. Con il metodo del reddito, invece, si ragiona come segue: la differenza tra valore della produzione e valore dei beni intermedi in ogni impresa non può che andare a remunerare i lavoratori (salari), al pagamento di imposte indirette, a profitto dell’impresa (distribuito o meno agli azionisti). Nel nostro esempio non ci sono imposte indirette e quindi la differenza in questione non può che essere pari ai salari più i profitti: Pil=Reddito=Salari+Profitti= (10+40)+(40+50)=140. Nel nostro esempio il reddito da lavoro rappresenta il 35,71% del PIL (50/140•100), mentre il reddito da capitale rappresenta il 64,29% (90/140•100). Nell’economia semplificata descritta sopra (quella con famiglie e due imprese, mugnaio e fornaio) abbiamo che la spesa per beni finali è costituita esclusivamente da spesa per consumi, pari a 40$ (spesa delle famiglie per la farina)+ 100$ (spesa delle famiglie per il pane). La spesa di 10$ per l’acquisto di farina da parte del mugnaio non rientra né tra le spese di consumo delle famiglie, né tra le spese di investimento del fornaio, in quanto la farina non costituisce un bene durevole ma è interamente utilizzata nella produzione di una anno. Con il metodo della spesa avremo quindi: Pil=40+100=140. Detto altrimenti: poiché il Pil registra solo il valore dei beni e servizi finali e poiché questi ultimi sono, nel nostro esempio, solo beni di consumo, il valore della spesa non potrà che essere pari al valore dei beni di consumo.
Ma l’economia reale è un pò più complessa e allora per avvicinarsi ad una sintesi più accettabile di quando accade in realtà complichiamo un poco il quadro. Nelle economie reali, ad esempio, la spesa non è costituita solo da quella per consumi delle famiglie (anche se essa fa la parte del leone ed in Italia supera il 60% del Pil, mentre negli USA è più vicina al 70%). Alla spesa per consumi delle famiglie bisogna aggiungere, infatti, anche la spesa per beni d’investimento effettuata dalle imprese e dalle famiglie. Di che si tratta? E’ la spesa per l’acquisto effettuato dalle imprese per i nuovi macchinari ed impianti e dalle famiglie e dalle imprese per nuovi immobili . Accanto al Pil spesso si sente parlare del Pin. Il Pin (Prodotto Interno Netto) è pari al Pil ridotto del deprezzamento subito dallo stock di capitale esistente. La produzione del Pil causa il deterioramento dello stock di capitale esistente: un’abitazione, ad esempio, si deprezza nel corso del tempo, e le attrezzature si logorano con l’uso. Se non venissero usate risorse per conservare o rimpiazzare il capitale esistente, il Pil non potrebbe essere mantenuto al suo livello corrente. Di conseguenza il prodotto netto è una misura migliore del livello di attività economica che, dati lo stock di capitale e le forze di lavoro esistenti, potrebbe essere mantenuto per un lungo periodo. Il deprezzamento dello stock di capitale che nella contabilità nazionale è definito ammortamento, rappresenta una misura della quota di Pil che deve essere messa da parte per conservare intatta la capacità produttiva del sistema economico. Negli ammortamenti, naturalmente, si considera anche l’obsolescenza tecnologica degli impianti. A questi investimenti fissi vanno aggiunti, poi, i cosiddetti investimenti in scorte, nei quali che comprende tutti i beni non venduti nell’anno in corso e collocati nei magazzini delle aziende. In questo caso si parla di investimenti perché è come se le aziende “acquistassero” oggi una produzione per venderla negli anni successivi, indipendentemente dalla circostanza che tali “acquisti” siano o meno volontari, cioè che le scorte si accumulino programmaticamente o perché le previsioni di vendita non si sono realizzate. Quando la produzione corrente è inferiore alle vendite correnti, le scorte si riducono: l’investimento in scorte è negativo. Così negli investimenti in scorte si registrano, effettivamente, le variazioni delle scorte.
Nel nostro ragionamento non abbiamo compreso la spesa pubblica per i beni in uso presso la Pubblica Amministrazione (Stato, Regioni, Comuni, istituti della previdenza obbligatoria quali Inps, Inpdap, ecc.), nonché per i servizi da questa acquistati, ivi compresi, ovviamente, quelli forniti dai dipendenti della Pubblica amministrazione stessa (il cui valore è rappresentato dai loro stipendi). Altre uscite per la PA, e come tali sono contabilizzate nel bilancio pubblico, sono i trasferimenti che, a titolo diverso dallo stipendio ai pubblici dipendenti, la PA concede ogni anno alle famiglie (sussidi di disoccupazione, pensioni, ecc.), poiché tali sussidi e trasferimenti non costituiscono immediatamente acquisto di beni e servizi. Alle spese nazionali e cioè compiute da soggetti residenti per l’acquisto di beni e servizi prodotti nel Paese stesso di residenza, vanno aggiunte le spese compiute da soggetti esteri per l’acquisto di beni e servizi prodotti nel paese, ovvero e c.d. le esportazioni; mentre vanno sottratte le spese dei soggetti nazionali (famiglie, imprese e PA) per l’ acquisto di prodotti esteri, ovvero, le importazioni. In pratica, dunque la voce di spesa che conta è il saldo commerciale (differenza tra esportazioni e importazioni), per il quale si usa spesso l’espressione esportazioni nette.
[1] Il 19 e 20 novembre 2007
[2] Le cinque azioni che la Commissione ha predisposto nella comunicazione per superare il PIL: nel 2010 verrà presentata una versione pilota di un indice ambientale che includerà aspetti quali le emissioni di gas serra, il deterioramento del paesaggio naturale, l’inquinamento atmosferico, l’utilizzo dell’acqua e la produzione di rifiuti; intensificare gli sforzi miranti a produrre più rapidamente i dati ambientali e sociali. Attualmente i dati sono spesso pubblicati a distanza di due o tre anni, mentre i dati economici essenziali sono diffusi entro poche settimane. relazioni più accurate su distribuzione e diseguaglianze consentiranno una migliore definizione delle politiche in materia di coesione sociale ed economica; la Commissione svilupperà una tabella europea di valutazione dello sviluppo sostenibile per permettere di determinare le tendenze ambientali e il benchmarking delle migliori pratiche. La tabella di valutazione sarà basata su un insieme già esistente di indicatori dello sviluppo sostenibile; La Commissione lavora all’integrazione del PIL e dei conti nazionali, che presentano la produzione, il reddito e la spesa nell’economia, con una contabilità ambientale e sociale
[3] Come risulta dal semplice calcolo che segue: (0,10€X20+0,25€X 60=17€).
[4] L’acquisto di vecchi immobili non è una spesa registrata nel Pil, ma rappresenta un impiego della ricchezza di famiglie e imprese.