Alessandro Corneli:dopo la firma dello Start2 ecco cosa c’è da dire

12  Luglio 2010

Fonte: Rivista Marittima maggio 2010

Alessandro Corneli

 

 

Riproduciamo l’articolo dello studioso di politica  internazionale e di strategia e docente alla Luiss Alessandro Corneli, ripreso via on line dalla Rivista Marittima, perché offre uno spaccato particolarmente importante e ricco di considerazioni. Le trasformazioni dell’odierna realtà internazionale e dei suoi teatri e scenari sono sempre più accentuate e andrebbero seguite con grande attenzione  dalla classe politica italiana, particolarmente  incline a seguire tutt’altre faccende.

 

QUESTIONE NUCLEARE E OPINIONE PUBBLICA

 

Lo START-2, il nuovo trattato per la riduzione
delle armi nucleari firmato a PAlessandro Corneli: ecco raga
l’8 aprile scorso dal presidente americano
Barack Obama e dal presidente russo
Dmitri Medvedev, non ha avuto un particolare
rilievo presso l’opinione pubblica.
Maggiore attenzione è stata dedicata, ma
non troppo, alla Conferenza di Washington,
apertasi quattro giorni dopo, per il rinnovo
e potenziamento del Trattato di non
proliferazione nucleare: le sue conclusioni
sono state definite deludenti nonostante un
accenno della maggiore disponibilità della
Cina a misure più robuste nei confronti
dell’Iran.
Una nuova cultura?
Sembra prevalere, nell’opinione pubblica,
un certo fastidio verso le questioni militari,
che senza dubbio corrisponde ai
mutamenti della percezione della realtà
avvenuti in questi ultimi cinquant’anni
nella stessa opinione pubblica mondiale,
in particolare dopo la fine della Guerra
fredda. Un esempio per tutti: la dichiarazione
rilasciata in un’intervista dal candidato
del Partito liberal-democratico britannico,
Nick Clegg. Alla domanda:
«Manterrebbe l’opzione militare per impedire
all’Iran di fabbricare armi atomiche?
», Clegg ha risposto: «No. L’opzione
militare è dannosa. È controproducente
perfino parlarne. Aiuta soltanto a rafforzare
le forze estremiste. L’unica arma per
cambiare le cose in Iran è il popolo iraniano,
con le sue aspirazioni democratiche,
ed è esso che dobbiamo appoggiare. Serve
unità a livello mondiale per imporre all’Iran
dure sanzioni economiche. Serve una
diplomazia intelligente, non una forza insensata
» (da: La Repubblica, 21 aprile
2010; corsivi miei, NdA).
Nick Clegg è nato nel 1967. E questo
potrebbe spiegare la sua posizione derivante
dalla sua personale esperienza. Era
appena diventato maggiorenne quando,
nell’Unione Sovietica, Mikail Gorbaciov
cominciava a smantellare, anche se non
avrebbe voluto farlo del tutto, il sistema
comunista, il «nemico» di quella Guerra
fredda che l’adolescente Clegg aveva appena
sfiorato. Come molti altri leader in
diversi Paesi del mondo, è un «quarantenne
», che ha della realtà internazionale una
visione formatasi nei decenni dello sviluppo
economico, ancorché contrassegnati da
crisi momentanee, dell’aumento esponenziale
dei traffici commerciali e turistici,
della diffusione di idee e mode attraverso
le frontiere. Aveva sette anni quando finì la
guerra in Vietnam; non ha conosciuto i timori
che avevano accompagnato la guerra
di Corea; aveva dieci anni quando in Cina
fu definitivamente sconfitta la linea di
Mao Zedong e iniziò a prevalere il pragmatismo
di Deng Xiaoping. Certo, per tutta
la vita lo ha accompagnato il conflitto
arabo-israeliano e poi israelo-palestinese;
ma, in fondo, per lui si tratta delle turbolenze
di un ex mandato britannico, abbandonato
in gran fretta e in nome del realismo
tipico del suo Paese: era insolubile.
Aveva 34 anni quando ci fu l’11 settembre;
ma da allora ne sono passati quasi dieci e
la guerra al terrorismo non è stata vinta,
nonostante l’apparente sproporzione delle
forze in campo.
Questo profilo biografico di un leader,
che gli elettori britannici hanno innalzato a
responsabilità di governo con le elezioni
del 6 maggio, è comune a una larga fascia
della popolazione dei Paesi più sviluppati,
dove comunque l’età media è abbastanza
elevata, ma dove sono rimasti in pochi ad
avere una memoria dettagliata della seconda
guerra mondiale e del primo decennio
postbellico o, se vogliamo, ancora di una
buona parte degli anni Sessanta con le loro
tensioni internazionali — si pensi alla
costruzione del Muro di Berlino e ai grandi
esperimenti nucleari dell’Unione Sovietica
di Nikita Krusciov che voleva conquistare
la superiorità militare assoluta. Ovviamente
ci sono i cultori di storia e di politica
internazionale, con i loro libri, i loro
rapporti, i loro confronti con il passato e la
«saggezza» che ne deriva; ci sono gli
esperti militari e dell’Intelligence che studiano
ogni mutazione tecnologica e deducono
le intenzioni politiche dagli strumenti
che sono predisposti. Per costoro, «la
politica è prosecuzione della guerra sotto
altre forme» e «la guerra è prosecuzione
della politica sotto altre forme». Ma sono
una minoranza, non fanno opinione pubblica,
e soprattutto non fanno opinione
pubblica mondiale perché questa non
«sente» come prioritari i problemi che essi
portano all’attenzione, diversamente da
quanto accadeva fin verso la fine degli anni
Settanta e l’inizio degli anni Ottanta.
I leader nella tenaglia
Ileader politici delle maggiori potenze sono
presi in questa tenaglia: devono tenere
conto delle valutazioni degli esperti, perché
come leader eletti hanno la responsabilità
della sicurezza e degli interessi dei loro
Paesi, ma devono rendere conto all’opinione
pubblica, cioè agli elettori o, più concretamente,
perché sono sotto la pressione
dell’opinione pubblica e soprattutto delle
scadenze elettorali. Obama ha messo a segno
due buoni risultati: la firma dello
START-2 e la Conferenza di Washington;
ma quanto conteranno alle elezioni di medio
termine del prossimo novembre? Intanto
sul suo tavolo è arrivato il rapporto del
Dipartimento della Difesa secondo il quale,
entro il 2015, cioè tra meno di cinque anni,
l’Iran disporrà di un missile intercontinentale,
cioè in grado di raggiungere il territorio
degli Stati Uniti, probabilmente armato
di una testata nucleare se il programma iraniano
non verrà fermato. Ma come trasmettere
questo allarme all’opinione pubblica
che è invece interessata al deficit commerciale,
alla perdita dei posti di lavoro, ai mutui
da pagare ed è divisa dal programma sanitario
nazionale? Che sono tutti problemi
più immediatamente percepibili della bomba
e del missile iraniani.
Una guerra asimmetrica — da quella del
Vietnam a quella contro il terrorismo ispirato
da Al-Qaeda — può veramente apparire,
come ha detto il candidato Clegg, «dannosa
» e può essere «controproducente perfino
parlarne». È dannosa nella misura in
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cui non raggiunge i risultati e controproducente
proprio perché se ne parla e mancano
i risultati. È chiaro che c’è un enorme cambiamento
di metodo e di mentalità tra i bollettini
di Robert McNamara che negli anni
Sessanta metteva a confronto le perdite
americane con quelle nordvietnamite e,
elaborandone le proiezioni, assicurava che
entro breve termine il Nord Vietnam non
avrebbe avuto più risorse, e i ben più scarni
bollettini delle guerre d’Iraq e di Afghanistan.
Il controllo delle informazioni —
dopo le esperienze della guerra del Vietnam
e della prima guerra del Golfo — non
è sufficiente a mantenere un largo sostegno
pubblico, cioè politico, alle operazioni militari.
Ridurre al minimo le informazioni —
come è accaduto nella seconda guerra del
Golfo e poi per ciò che riguarda ancora la
situazione in Iraq e in Afghanistan (con
l’eccezione, nel primo caso, della cattura
dei principali collaboratori di Saddam Hussein
e poi dello stesso dittatore iracheno, e,
per quanto riguarda il secondo caso, con
l’annuncio dell’uccisione del «numero uno
o due o tre» della struttura terroristica) —
conduce solo a una progressiva indifferenza
verso l’impegno militare stesso. Può bastare
la sostituzione, comunque parziale,
dell’impiego di militari con i «droni»,
quando poi sono i terroristi, con i loro attentati,
ad andare a mietere vittime tra i militari,
le forze di polizia e la popolazione civile
per dimostrare che la fine del conflitto
è ancora lontana?
Non è stato difficile, in passato, «far
sentire» la minaccia del «nemico» come
prossima e sempre incombente, anche per
la complicità dello stesso «nemico». Basta
pensare alla repressione della rivolta ungherese
del 1956 o della «primavera di Praga
» del 1968 da parte delle truppe sovietiche
e del Patto di Varsavia. Fu più complessa
— e sotto molti aspetti di transizione
— la lunga vicenda dei missili sovietici
«SS-20» puntati sull’Europa occidentale
tra la fine degli anni Settanta e la metà degli
anni Ottanta. Fu per molti versi una
guerra mediatica, di parole e minacce, che
Mosca sferrò per piegare la volontà della
NATO e spingere l’Europa alla auto-finlandizzazione;
e che perse perché la NATO si
mostrò solida e prese le contromisure installando
i «Pershing-2» e i «Cruise». E si
concluse in una maniera apparentemente
sorprendente, con l’accordo per la loro eliminazione:
di fatto perché Stati Uniti e
Unione Sovietica convennero che il loro
eventuale impiego, anziché restare limitato
al teatro europeo, avrebbe costituito l’innesco
di un conflitto generalizzato, non desiderato
da nessuna delle due parti.
Poco tempo dopo, l’implosione del sistema
comunista e la fine della Guerra
fredda, con l’abbattimento del Muro di
Berlino hanno creato il format mentale,
cioè culturale, della nuova generazione, sicura
di essersi liberata dall’incubo dell’inverno
nucleare. I trattati per la limitazione
prima e la riduzione poi degli armamenti
strategici, ma soprattutto le sostanziali
buone relazioni tra tutte le maggiori potenze,
hanno fatto il resto. Ciò sullo sfondo di
una priorità assoluta attribuita all’economia,
agli scambi, ai ritmi dello sviluppo
economico «senza frontiere», anzi realmente
transfrontaliero o «globale», come è
invalso dire già dalla fine degli anni Ottanta.
Con l’adesione a questo schema dell’ultima
grande potenza ancora formalmente
comunista, la Cina.
Allora il problema è come collegare
questi profondi cambiamenti geopolitici e
geoeconomici alla politica militare dal
momento che arsenali nucleari esistono
ancora, pretendenti all’accesso all’arma
nucleare non mancano, mentre permangono
conflitti locali e tensioni ancora calde
Questione nucleare e opinione pubblica
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sotto la cenere (basti pensare a quello tra
India e Pakistan o a quello tra le due Coree).
Lo schema teorico «più commercio
uguale più pace» ha molti punti a suo favore
ma anche controindicazioni quando
esso provoca squilibri troppo accentuati e
permanenti sulla bilancia commerciale e si
collega a squilibri nel campo finanziario
anche se dovuti ad altri fattori scatenanti,
come l’ultima grande crisi apertasi nel
2007 e non ancora conclusa.
L’analisi decisionale, alla quale devono
attenersi i leader politici, è assai più complicata
rispetto al passato. Il caso degli Stati
Uniti è esemplare: essi vorrebbero una rivalutazione
dello yuan cinese per favorire
le proprie esportazioni e contenere le importazioni
dei prodotti cinesi, che con la rivalutazione
avrebbero maggiori difficoltà
anche nelle esportazioni verso altri Paesi.
Ma in Cina operano, avendovi investito, le
maggiori imprese americane, che beneficiano,
nelle loro esportazioni in tutto il
mondo, dello yuan sottovalutato. Perciò,
una mutazione del rapporto tra le due monete
con una rivalutazione dello yuan del
10%, quindi nel senso auspicato da Washington,
avrebbe l’effetto paradossale di
fare aumentare la disoccupazione in America.
Se alcune grandi imprese premono
sulla Casa Bianca affinché spinga Pechino
a rivalutare, altrettante grandi imprese premono
per la ragione opposta. Di passaggio
possiamo solo osservare che l’Europa, con
l’euro, fa le spese dello scontro tra questi
titani poiché è bastata la crisi finanziaria di
un suo «piccolo» Paese membro — la Grecia
— per gettare l’allarme sul futuro della
moneta unica. E in ogni caso l’area europea
è quella meno dinamica rispetto alle altre
grandi aree commerciali del mondo. Ma
in Europa non c’è un potere politico unitario
che possa affrontare il problema come
si può fare a Washington o a Pechino.
START-2 e opinione pubblica
Èstata senza dubbio una buona notizia e,
al di là di questo, è stata una decisione importante,
la firma dell’accordo per ridurre,
entro sette anni, il numero di testate nucleari
di Stati Uniti e Federazione di Russia a
circa 1.550. Bisognava comunque colmare
il vuoto rappresentato dalla scadenza dello
START-1 e la congiuntura politica internazionale
ha favorito l’accordo. Ma sono
questi i problemi che assillano i dirigenti
del Cremino e della Casa Bianca come potevano
essere ai tempi di Kennedy o di
Nixon? Se lo sono, questi dirigenti non
hanno trasmesso all’opinione pubblica
mondiale il valore dell’accordo raggiunto
al di là delle dichiarazioni ufficiali, inevitabilmente
enfatiche. Se non lo sono, è logico
che a questo trattato sia stata riservata
un’attenzione inferiore a quello che lo aveva
preceduto e che aveva rovesciato il pluridecennale
meccanismo di corsa agli armamenti.
Eppure, guardando al futuro prossimo
con gli occhi della Casa Bianca, la questione
militare e nucleare è importante.
Non nella prospettiva di un conflitto generalizzato,
ma di un aumento della minaccia
che può derivare agli stessi Stati Uniti o ai
loro alleati dall’entrata in scena di una
nuova potenza nucleare con la capacità di
colpire anche il territorio americano. Minaccia
che il Cremino, e ancora più la Cina,
non avvertono nella stessa misura.
Stando alle dichiarazioni, è solo la Francia
il Paese più disposto a indurire la linea politica
ed eventualmente economica (sanzioni)
nei confronti dell’Iran. Oltre, naturalmente,
Israele, che sente sul collo il fiato
di Teheran, ma che sa che, se l’Iran si
dotasse di armi nucleari, altri Paesi dell’area
— tutti islamici più o meno fondamentalisti
— non esiterebbero a imitarlo, ridu-
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cendo di molto la sua superiorità militare
(nucleare) che costituisce il deterrente più
credibile a sua disposizione.
Lo START-2 non ha innescato un processo
di generale denuclearizzazione, benché
questo obiettivo sia stato ribadito da
Obama nel corso della Conferenza di Washington.
La Cina, che aveva sempre dichiarato
di dovere conservare e aggiornare
il proprio potenziale nucleare finché le due
superpotenze non fossero scese a un livello
molto basso, non ritiene che quello raggiunto
nel nuovo trattato giustifichi un
cambiamento di linea. Anzi, procede nell’ammodernamento
del suo apparato e fa
affidamento sulla cooperazione tecnologica
complessiva degli Stati Uniti. Senza
contare, inoltre, che il trattato non vieta
ammodernamenti agli arsenali esistenti o
la ricerca innovativa in campo militare generale.
Anzi, la preoccupazione che le due
maggiori potenze riducano i loro arsenali
nucleari proprio perché in grado di compiere
«salti di qualità» in campo militare,
induce alcune potenze medie a perseverare
nell’obiettivo di mantenere o acquisire
armi di distruzione di massa (nucleari, chimiche,
biologiche) allo scopo di avere un
«deterrente» credibile.
Tutto questo sfugge in larga misura all’opinione
pubblica, che è rimasta ben più
sconvolta dalla settimana di paralisi del
trasporto aereo in seguito all’eruzione vulcanica
in Islanda, che ha dimostrato una
grande fragilità, spostando l’accento, in
prospettiva, sul trasporto marittimo (per le
merci) e ferroviario (per le persone e le
merci). Si comprende che può fare più effetto
un evento di questo genere — non
imputabile a nessuno Stato o Governo —
che non un discorso del presidente iraniano
Ahmadinejad in cui ribadisce il diritto
del suo Paese a sviluppare l’energia nucleare,
a testare missili con gittata sempre
più lunga, a dichiarare che Israele deve essere
cancellato o che la risposta agli Stati
Uniti sarà terrificante. Si sta quasi creando
una situazione in base alla quale le denunzie
americane sul nucleare iraniano appaiono
una «fissazione». Si apre così la
strada a un’altra Pearl Harbor o a un altro
11 settembre. E questa è una situazione
molto pericolosa, ma l’opinione pubblica è
indifferente.
Conclusione
La gente non vuole sentire parlare di
guerra. Questo è il punto. I conflitti che
vengono rappresentati nei telegiornali si
riducono a «notizie», presto sommerse in
un mare di altre «notizie». Ogni Paese ha
tanti problemi interni — di ordine politico,
economico, sociale, ambientale — che non
presta attenzione ai problemi degli altri
Paesi: nell’era della comunicazione multimediale,
sostanzialmente aperta a tutti, si
assiste al paradosso di una crescente ignoranza
su ciò che avviene vicino o lontano
da casa propria. A maggior ragione questa
disattenzione colpisce le grandi questioni
internazionali, se si eccettuano quelle legate
all’ambiente (spesso controverse), ai
rincari delle risorse energetiche, ma più
per gli aspetti immediati legati ai prezzi al
consumo che non a quelli legati al loro
esaurimento o alla collocazione in aree
conflittuali.
La recente crisi finanziaria ed economica
è stata misurata, all’interno di ciascun
Paese, in termini di aumento della disoccupazione,
caduta del Pil, aumento dell’indebitamento
pubblico senza elevarsi a
un’analisi strutturale e completa del fenomeno
allo scopo di mettere a punto meccanismi
correttivi. Allo stesso modo, una
questione militare — ridotta spesso alla
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notizia dell’ultimo attentato in Afghanistan
o nella Striscia di Gaza o dei progetti
nucleari dell’Iran o della Corea del Nord
— non viene percepita come di rilevanza
internazionale, ma solo locale o occasionale.
I leader dei maggiori Paesi non fanno
molto per modificare questa situazione. Lo
iato che essi creano tra quanto dicono in
campagna elettorale e quanto poi realizzano
è un’arma a doppio taglio: perdono credibilità
nel momento in cui vogliono impegnare
la loro opinione pubblica su determinate
scelte strategiche e di lungo periodo.
Che ne è, per esempio, del «pacifismo
» di Obama? Che ne è del «progetto
mediterraneo» di Sarkozy? Che ne è della
ratifica del trattato di Lisbona che ha dato
all’Unione Europea un Presidente e un Alto
Rappresentante per la politica estera? Se
i problemi diventano «cronici» (nucleare
iraniano con sanzioni-si e sanzioni-no, nucleare
nordcoreano, stragi in Sudan, conflitti
intertribali in Somalia, pacificazione
dell’Iraq, lotta al terrorismo in Afghanistan,
ecc.), finiscono nella «cronaca».
Così si diffonde anche la convinzione
che i leader politici non siano in grado di
risolvere i problemi, ma solo di «gestirli»
in modo che non degenerino. Tornano in
mente le analisi di Henry Kissinger sulle
conseguenze dell’arma nucleare nella gestione
della politica estera (degli Stati
Uniti e dell’allora Unione Sovietica): non
si può fare la guerra, quindi bisogna accontentarsi
di gestire le crisi, evitando che
sfuggano di mano, degenerino e rischino
di coinvolgere le due superpotenze. Adesso
che non ci sono più gli schieramenti dei
missili puntati dall’una superpotenza verso
l’altra e soprattutto non c’è il rischio di
un loro confronto generalizzato, siamo
praticamente nella stessa condizione di
gestire le crisi. Le guerre — che si chiamino
di interposizione o di intervento per ristabilire
la pace poco conta — non si combattono
più con mezzi adeguati per una loro
rapida soluzione, sono destinate a non
produrre né una vittoria né una sconfitta,
sono condannate a perpetuarsi. Appare
quindi normale che l’opinione pubblica se
ne disinteressi, coinvolgendo in questa indifferenza
anche problemi strategico-militari
che hanno una importanza decisiva
per le relazioni internazionali. Con la conseguenza
ulteriore, e non secondaria, della
perdita di credibilità dei leader, che dopo
avere promesso soluzioni rapide e innovative,
trascinano la loro politica giorno
per giorno, da una consultazione elettorale
all’altra.
Un sondaggio reso noto il 14 aprile
(fonte: Ansa online), condotto dal celebre
Pew Research Center, ha rivelato che circa
l’80% degli americani dice di non avere fiducia
che il governo degli Stati Uniti faccia
quello che è giusto, esprimendo il più
alto livello di sfiducia in Washington nell’ultimo
mezzo secolo. Solo il 22% degli
Americani dice che si fida del governo
«quasi sempre» o «la maggior parte delle
volte». Nel 1958, la fiducia degli Americani
nell’operato dei governanti era al 73%.
Si tratta di un dato sconvolgente, che però
è in linea con la caduta di consenso, in breve
tempo dalle elezioni, del presidente
francese Sarkozy e della cancelliera tedesca
Merkel. La mutevolezza dell’opinione
pubblica è causa ed effetto della scarsa
credibilità dei leader, ma il risultato complessivo
è una debolezza strutturale a
prendere decisioni importanti, specie nel
campo della politica di sicurezza, o politica
militare come si diceva una volta. Di
questa debolezza, come è ovvio, approfittano
quei regimi che non devono rispondere
alla propria opinione pubblica o, più sovente,
che sono in grado di manipolarla e
di fanatizzarla. 
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