Roma, capitali europee e grandi città: si darà un’anima alle periferie? Problema urbanistico, antropico e politico ancora insoluto

11 Dicembre 2010

Mino Mini

 

RITORNO ALLA CITTA’

A MISURA D’UOMO

Fra decostruzioni e ricostruzioni, che fine faranno le periferie della capitale e, sulla sua scia, quelle delle altre grandi città  italiane? – Il dibattito sull’identità della città che coinvolge Roma riguarda non di meno i dibattiti sulle grandi capitali europee di fronte a cui le grandi correnti degli architetti sembrano affatto impreparate – Superare il deprimente e deviante ruolo dei quartieri borderline non significa pensare utopisticamente che mai più esisteranno le periferie, ma che esse si potrò pur riuscire a reintegrale nel tessuto dell’unicità della città, che risulta oggi  non ritrovato  – Ancora una volta, la scommessa delle primarie finalità dell’architettura, nelle sue disconosciute relazionalità “organiche”  sociali e antropiche non debordanti e massificanti e neppure ricomposte senza elementi di genesi e di sviluppo storico urbano relazionante tra quartieri e centro, tale scommessa sembra uscire perdente – Cosa ci riserva il futuro? Ancora il cyborg assolutamente incapsulato nel suo carapace motorizzato che lo rende totalmente avulso dallo sviluppo prospettico lineare del quartiere  dove risiede (esso stesso spesso inesistente e perciò fonte di angoscia invincibile così come le esistenzialità distrutte dalla città dei film di Antonioni) – vero quartiere fantasma – e in cui  spesso o per nulla  vive?  – Dubbi, critiche, interrogativi e riflessioni che non possono più essere circoscritti agli architetti, agli ingengneri e agli addetti ai lavori, ma che coinvolgono in maniera più ampia, diretta e generalizzata gli abitanti delle città e delle metropoli, vere vittime – psicologicamente e socialmente scorticate –  della logica inarrestabile del profitto  economico illimitato nell’ambito delle attività edilizie e urbane che hanno reso e rendono gli abitanti anonime masse senza volto e senza dignità alcuna, da spremere sull’altare del guadagno, delle cointeressenze e della squalificante, ininterrotta  realizzazione di centri abitativi di pessima qualità.

 

 Il primo decennio del terzo millennio dell’era volgare ( MMDCCLXIII ab urbe condita ) si è chiuso sulla città dei cyborg senza che si sia potuto intravedere un significativo segno di riscatto dalla desolazione delle periferie. Il piano casa, sul quale si erano concentrate tante speranze non ha prodotto, fino ad ora, alcun concreto risultato in questo senso e, temiamo, non ne produrrà in futuro se continuerà l’andazzo di fare affidamento sulla cultura ufficiale, che a suo tempo creò il problema, e sull’intervento risolutore dell’iniziativa privata la cui logica, com’è naturale, non si spinge oltre la “ massimizzazione del profitto “.
Non appartiene al mondo dello speculatore il senso dell’organicità e della simbiosi uomo-natura che dovrebbero caratterizzare una città, un insediamento, un quartiere. Il suo riferimento è il mercato ed il mercato richiede case, non città, e lui fa case per il mercato. Se per battere la concorrenza è opportuno migliorare alcune caratteristiche tecniche o “estetiche“ delle case o dotarle di qualche “ servizio “ o del “ verde “, lui migliora, realizza il “ servizio “, piantuma il “ verde “. E vende. Punto.
La cultura ufficiale, d’altra parte, convenuta nel workshop titolato RITORNO ALLA CITTA’- BACK TO CITY LIFE, indetto dal Dipartimento per la Riqualificazione delle Periferie dell’Assessorato ai Lavori Pubblici e alle Periferie di Roma Capitale – lo sfoggio di maiuscole non è di chi scrive, sia chiaro – ancora una volta ha dimostrato quanto sia distante dalla vera essenza del problema. Il convegno in questione ha rappresentato la seconda fase “verso il Piano Strategico della Capitale” avviato con il workshop dell’aprile 2010 che richiamò una folla da stadio. Questa volta l’annuncio è stato sottotono e l’affluenza decisamente modesta: poco più di un centinaio di persone che non hanno riempito nemmeno i due livelli della sala dell’Ara Pacis. Eppure l’argomento trattato – “Progetti per le periferie” – era decisamente interessante. I relatori, compreso il conduttore, Francesco Coccia, direttore del Dipartimento per la Riqualificazione delle Periferie, erano quasi tutti docenti universitari e quindi rappresentavano, a buon diritto, la cultura ufficiale nelle diverse sfaccettature: Paolo Colarossi ordinario ad Ingegneria, Livio De Santoli preside di Architettura a Valle Giulia, Francesco Cellini preside di Architettura a Roma Tre, Franco Purini ordinario a Valle Giulia, Marco Romano ordinario di estetica della città a Venezia, Leon Krier docente di architettura e urbanistica in diverse università europee, Paolo Portoghesi già professore ordinario, Nikos Salìngaros docente in diverse università europee ed americane. Solo Lucien Kroll e Cristiano Rosponi non facevano parte del mondo accademico. Tuttavia, pur nella profonda diversità di vedute, un fattore comune sembra caratterizzare i progetti dei relatori: la concezione della città come sommatoria di quartieri distinti, “piccole città nella città” come le chiama Colarossi.

 

E’, questo, un concetto che applicato a Roma o a qualunque città europea porta a negare l’identità dell’organismo urbano in cui si opera. Una città, se ha un’identità, come l’avevano quelle degli uomini, è un TUTTO organico molto più complesso della somma delle sue parti e con proprietà che le singole componenti non posseggono. Occuparsi della qualificazione delle parti, cioè delle “città nella città” senza ammagliarsi con il resto dell’organismo, ovvero senza realizzare continuità di spazi urbani, significa mantenere tali “città nella città” nella condizione di marginalità.
Vediamo di farci capire. Nella città degli uomini ogni strada, prima ancora di svolgere la funzione di percorso da un punto ad un altro, aveva quella di legare in mutuo rapporto gli edifici che vi prospettavano e gli abitanti dei medesimi. Era, infatti, nella strada che l’uomo incontrava i suoi vicini e stabiliva con loro i primi rapporti di comunità. La strada era la pertinenza in ambito collettivo della casa, del laboratorio, della bottega. Era il luogo degli incontri, degli scambi dei beni, della diffusione delle notizie. Un insieme di tali strade, edificate sui bordi a formare pareti urbane, dava luogo ad un tessuto viario per sua natura permeabile, in ogni sua maglia, alla frequentazione degli abitanti. Tessuto che si gerarchizzava allorchè si polarizzava su uno spazio urbano comune, la piazza, dove le comunità che si erano formate alla dimensione delle singole strade o contrade si fondevano in una identità o sistema di grado superiore: il quartiere. Ogni quartiere, inoltre, per legge organica “faceva sistema” con i quartieri vicini ammagliando il proprio tessuto viario con quello degli altri identificando, ad una scala superiore, nuove polarità e nodalità, formando spazi pubblici di grado più complesso dando luogo alla città “a misura d’uomo”.
Il modo secondo il quale questo processo si manifestava, reso più espressivo dall’architettura e dalla tipologia edilizia impiegata, determinava l’identità della città.
A Roma questo processo identitario raggiunse il massimo livello espressivo al punto di divenire modello per altre città europee.
Quando, però, il rapporto fra cittadini e la strada su cui prospettavano si perse con la mutazione degli abitanti in condomini, in cyborg dotati di carapace motorizzato, quando le strade si specializzarono per la sola viabilità veicolare delle nuove espansioni perdendo la loro antica natura di luoghi di vita della comunità, la città si frammentò in nuclei occasionali e marginali, perse la propria “misura d’uomo”, il proprio disegno e con esso la propria identità. A Roma come in tutte le città europee.
L’impegno attuale di qualificare i nuclei marginali, ovvero le periferie, per quanto lodevole, rischia di mancare l’obiettivo principe: superare la triste condizione di “borderline”. Occorre, allora, acquisire una più matura identità elaborando un nuovo disegno della città contemporanea che metta in sistema fra loro i nuclei ammagliandoli e operando, ad un grado più elevato, la connessione dell loro insieme con l’organismo originario. Tale “mettere in sistema” non è dato dalla sola viabilità veicolare “a misura di automobile”.
E’ tempo di inventare ( nel senso di invenire) una nuova spazialità urbana che metta in rapporto diretto il “condomino” – questa mutazione dell’antico proprietario del fronte stradale – con l’ambito collettivo senza la “mediazione” indispensabile del carapace motorizzato.
Tutto sbagliato, allora, nel convegno RITORNO ALLA CITTA’ BACK TO CITY LIFE ?

 

Tutt’altro. Operare sui singoli frammenti della periferia per migliorarli è sempre positivo, ma pensare che ciò consenta al frammentario insediamento occasionale di diventare ”quartiere”, ovvero una parte integrante dell’identità della città, è pura illusione.
Bisogna andare oltre, superando i limiti intellettuali della concezione urbanistica vigente ed operando radicalmente sull’esistente. Il convegno ha colto, in parte, questa esigenza introducendo il principio della demolizione e ricostruzione ormai diffusamente accettato.
Il problema è: come ricostruire.
La corrente – vogliamo chiamarla cosi? – del Rinascimento Urbano e del New Urbanism europeo è stata relatrice al convegno con Leo Krier che ha presentato il master plan di Tor Bella Monaca, cavallo di battaglia del sindaco Alemanno, con Gabriele Tagliaventi ed Ettore Maria Mazzola del gruppo Salìngaros – anch’essi docenti rispettivamente a Ferrara ed all’University of Notre Dame School of Architecture Rome Studies – che hanno presentato due progetti per l’abbattimento di Corviale, cavallo di battaglia dell’assessore regionale del Lazio Teodoro Buontempo, battendo la strada aperta, a suo tempo, da Cristiano Rosponi presidente del CE.S.A.R.
Ebbene il master plan di Tor Bella Monica – un insediamento di 28.000 abitanti dal volume complessivo di 2.012.293 mc su 188 ettari – non convince nonostante l’intenzione di effettuare la sostituzione del PdZ 22 (Piano di Zona 22) realizzato con torri ed edifici in linea di una monotonia alienante, mediante un tessuto di case più basse e poste in bordo alle strade in modo da creare pareti urbane. La ricercata “misura d’uomo” viene proposta per realizzare un tessuto viario dall’andamento “paesaggistico” (sic ?) del tutto gratuito in netta controtendenza rispetto all’andamento degli insediamenti adiacenti di Torre Angela, Torre Nova, e l’originaria Tor Bella Monaca gravitanti sulla via Casilina. Nessun tentativo di ammagliamento con i nuclei diffusi e nessun serio tentativo di realizzare, polarizzandosi, il centro unificante e qualificante di questo settore della periferia. Non va dimenticato che l’obiettivo cui mirava il PdZ 22 era proprio di svolgere tale ruolo unificante mancandolo in pieno. Il master plan sostituisce un elemento discordante del settore urbano in angolo tra il GRA (Grande Raccordo Anulare per i non romani) e la Casilina con un altro elemento discordante con una diversa distribuzione viaria ed una diversa tipologia edilizia anch’essa tutta da discutere.
Più rigorosi, ma ugualmente astraenti dal contesto, i due progetti di G. Tagliaventi e E. M. Mazzola per la sostituzione edilizia ed urbanistica dell’incubo architettonico di Corviale. Un edificio di nove piani lungo un chilometro con 1202 appartamenti per circa 4.500 abitanti diventati, con gli abusivi, 8.000 anime. Tante ne registra l’Anagrafe. Il complesso si è rivelato una voragine economica. Per la sola manutenzione sono stati spesi 44 milioni di euro senza venirne a capo. Dei 73 ascensori la metà non funziona. Pulizie e gestione ordinaria pare siano affidate alla buona volontà degli abitanti e si potrebbe continuare a lungo.
I due progetti, notevoli sotto alcuni aspetti, hanno il limite denunciato per il master plan di Tor Bella Monaca: non cercano il rapporto con l’esistente. In tale limite, ci sembra, incorse anche C.Rosponi con la sua proposta di “città giardino”, ma al progettista va riconosciuto un grande merito: per primo dimostrò, conti alla mano, che la demolizione e ricostruzione poteva effettuarsi in termini economici più che convenienti.
Vi è chi contrappone alle ipotesi di abbattimento del Corviale, il cambiamento d’uso in sede universitaria auspicando il collocamento nel complesso della facoltà di architettura.
Chi scrive ebbe a ventilare, su queste stesse pagine, un’altra più realistica possibilità in assenza di abbattimento e ricostruzione: ristrutturarlo in carcere. Non mancano le caratteristiche di isolamento e di accentramento-concentramento e la sua ristrutturazione risulterebbe più facile. In più aiuterebbe a risolvere, in parte, l’annoso problema della penuria di istituti di detenzione.
Non poteva mancare, in un convegno di questa importanza, Paolo Portoghesi con un progetto da par suo, giocato sugli “effetti”. Come lui stesso afferma, la struttura d’insieme del suo progetto “ è il risultato di una serie di richiami agli archetipi dell’architettura della città sia morfologici che proporzionali e dalla loro decostruzione e ricomposizione” . In linguaggio pedestre: prende l’aspetto e l’edilizia di alcune piazze celebri di Roma senza curarsi di individuarne il processo di formazione né la ragione costitutiva della loro forma. Le smembra e le ricompone in chiave moderna con una progettazione accattivante, ricca di effetti pittorici che sono la sua cifra riconoscibile et voilà. Tanto di cappello. Anche se, alla fine, si tratta di un intervento analogo a quello di tanti altri Piani di Zona ex 167/62 di edilizia sociale. Senza dubbio più piacevole a vedersi, ma astraente dalla realtà urbana e “borderline”.
Al convegno è intervenuto, in una tavola rotonda, anche l’on. Buontempo il cui sano buon senso, che i lettori de Il Borghese hanno potuto conoscere nell’intervista che ha rilasciato a Ruggiero Capone in dicembre, ha raccolto numerosi applausi a scena aperta. L’unico politico che sul tema delle periferie e dell’edilizia sociale abbia mostrato di avere idee chiare e volontà di tradurle in concreto.

 

Foto in alto ripresa da: ROMA…AMOR
Allegato redazionale tratto da: ROMA…AMOR, sito on line

Buontempo: “Vorrei abbattere Corviale”

«Ho un grande sogno: abbattere Corviale, simbolo della speculazione e dell’oppressione dei cittadini». Così si presenta il neoassessore alla casa della Regione Lazio, Teodoro Buontempo, ai giornalisti che lo attendevano nella sede della giunta di Via Colombo per la prima riunione con i colleghi dell’amministrazione regionale. «Non so se i poteri della Regione mi consentiranno di farlo, ma rappresenterebbe l’abbattimento dell’illegalità. Corviale è uno dei quartieri nati tra gli anni ’70 e gli ’80 con la nuova edilizia popolare. Da anni è simbolo del degrado e della speculazione edilizia nella Capitale».