Economia, biodiversità e Darwin

06 Gennaio 20101

Enea Franza

 

La biologia può aiutare l’economia ?

 

Si dice che l’economia sia una scienza spietata che si evolve seguendo il metodo della selezione naturale. Le aziende evolvono in un tale quadro e la maggioranza degli economisti concorda sul fatto che tale principio sia il migliore possibile, evitando gli estremi in cui si cadrebbe con si una selezione feroce. Una selezione feroce, infatti, produrrebbe rapide impennate ed altrettanto veloci cadute di fortuna. Questa selezione consente, attraverso la creazione di nuovi prodotti (come, ad esempio, sta accadendo adesso con l’iPod o il GPS), di sviluppare mercati che prima non esistevano affatto. In tal modo la quantità della torta (ovvero il prodotto nazionale) cresce sempre e permette di portare un beneficio al sistema.

Detto in altre parole, ci sarebbe una comprovata relazione positiva tra concorrenza e crescita della produttività, sia per la pressione che la concorrenza esercita sui manager delle imprese ad incrementare l’efficienza in termini di innovazione dei prodotti sia gestionale, sia perché aiuta le imprese più efficienti a guadagnare quote di mercato e spinge quelle inefficienti fuori dal mercato, innalzando così la produttività quanti/qualitativa media dell’insieme delle imprese operanti. Molti evocano il paragone tra ciò che accade nel mondo delle specie viventi ed il mondo dell’economia, e cioè il meccanismo della selezione naturale, motore fondamentale dell’evoluzione, intuito da grande naturalista inglese Charles Robert Darwin (1809-1882). Ma la recente crisi finanziaria e, soprattutto, gli enormi squilibri nella distribuzione della ricchezza che registriamo ci lasciano enormi dubbi sul fatto che, affidandoci ai c.d. “spiriti animali” , il mercato riesca sempre a trovare un punto di equilibrio che è il migliore possibile, date le risorse disponibili.

La richiamata evocazione delle leggi di natura mi fa venire il grande sospetto che chi sostenga questa tesi in realtà non abbia mai letto sino in fondo Darwin. La storia del naturalista inglese ha inizio con un viaggio. Il 21 dicembre 1831, Charles Robert si imbarca sul brigantino Beagle per un viaggio sulle coste del Sud America, durato cinque anni.

In particolare, nelle isole Galapagos, egli riscontra “sul campo” le trasformazioni che delle famiglie di tartarughe e di altri animali avevano subito, per adattarsi alle diverse condizioni ambientali, nel corso della storia geologica dei vari isolotti e della vita biologica in essi presente. Da qui, Darwin sviluppa la tesi sull’evoluzione di micro organismi, vegetali ed animali come risposta adattiva e selettiva ai cambiamenti ambientali. Tornato in Inghilterra, si dedica a riordinare il materiale raccolto dando vita alla sua opera più famosa, “L’origine della specie”, che appare nel 1859, ottenendo subito uno strepitoso successo. Nel frattempo anche altri studiosi stanno viaggiando alla scoperta ed alla raccolta di nuove specie. Tra questi, Alfred Wallace, che, prima in Brasile e poi nell’arcipelago Malese, ha l’occasione di compiere osservazioni simili a quelle di Darwin ed a giungere a simili conclusioni.

Ma se ci concentriamo sulla teoria evolutiva, osserviamo che essa, in definitiva, si fonda su una serie di semplici principi. Cosi come l’uomo fa per le piante e gli animali, producendo ed allevando gradualmente le varietà più utili ai suoi bisogni – i coltivatori e gli allevatori ad esempio ottengono l’evoluzione di vegetali ed animali per selezione artificiale da esemplari inferiori – la natura può ben farlo su scala immensamente più vasta, determinando, in modo selettivo, la sopravvivenza dei soggetti più adatti. E’ evidente che negli esseri viventi (vegetali ed animali), lungo il corso del tempo, si verificano, sotto l’influsso delle condizioni ambientali, piccole variazioni organiche. Esse sono funzionali all’adattamento individuo-ambiente e quindi vantaggiose per i soggetti che riescono a svilupparle. Tali trasformazioni, accumulate e trasmesse per eredità ad altri individui, perfezionano lentamente gli organismi fino a determinare il loro passaggio da una specie all’altra. Solo gli individui “adatti” o “forti”, cioè capaci di interagire con l’ambiente e di trasformarsi, possono, di conseguenza, sopravvivere. Gli altri, invece, “non-adatti” o “deboli” sono condannati all’estinzione.

Tralasciamo la questione, forse più famosa, della discendenza della specie umana dalle scimmie, per concentrarci sul fatto che, come abbiamo avuto modo di evidenziare, il processo evolutivo ha nella lotta per la sopravvivenza solo uno dei caratteri e che il meccanismo della competizione coesiste con un altro di ben più ampia portata, ovvero, quello che oggi chiamiamo della biodiversità. Cosi scrive C.R. Darwin nel 1859 nel suo “L’origine delle specie”: “La conservazione delle differenze e variazioni individuali favorevoli e la distruzione di quelle nocive sono state da me chiamate “selezione naturale” o “sopravvivenza del più adatto”. Le variazioni che non sono né utili né nocive non saranno influenzate dalla selezione naturale, e rimarranno allo stato di elementi fluttuanti, come si può osservare in certe specie polimorfe, o infine, si fisseranno, per cause dipendenti dalla natura dell’organismo e da quella delle condizioni”.

 

La biodiversità indica, astrattamente, una misura della varietà di specie animali e vegetali che nasce da un processo evolutivo che da oltre tre miliardi di anni permette alla vita di adattarsi al variare delle condizioni sulla terra e che deve continuare a operare affinché questa possa ancora ospitare forme di vita in futuro. La diversità della vita sulla terra è costituita dall’insieme degli esseri viventi che popolano il Pianeta. La biodiversità non è solo il risultato dei processi evolutivi, ma anche il serbatoio da cui attinge l’evoluzione per attuare tutte le modificazioni genetiche e morfologiche che originano nuove specie viventi. Per cui la teoria della selezione naturale trae immediato fondamento dalla biodiversità presente nella natura.

Bene, a nostro avvivo anche l’economia non sfugge a questa regola e nel suo mondo il modello della competizione funziona solo a piccole dosi. Infatti, come ben sa chi si occupa di scienze naturali, una forte pressione della selezione induce un fenomeno che porta addirittura alla modifica dei caratteri delle specie che sopravvivono, simili processi accadono anche in campo economico. In altri termini, una selezione naturale distruttrice opera esaltando minus e plus varianti contemporaneamente, eliminando o riducendo drasticamente il valore modale, ovvero, quel valore che, in una serie con valori discreti, ha la massima frequenza.

Ma cosa significa questo nell’economia? Mi spiego con un esempio. Se la logica è quella di vendere beni al minor costo possibile, e la minimizzazione del costo porta alcuni paesi disponibili a non garantire un livello di salario minimo capace di garantire una vita dignitosa al lavoratore, sopravvivranno solo le imprese che potranno agevolmente approfittare di tale disciplina più favorevole alla minimizzazione dei costi. Chi garantisce un salario giusto non potrà portare avanti la produzione. Risultato: l’azienda che agisce rispettando la dignità del lavoratore perisce, ovvero, in altri termini, il sistema è capace di garantire la selezione dei soggetti più adatti a reggere alla libera concorrenza. Gli altri vengo esclusi dal sistema. Com’è facilmente intuibile, non è affatto detto che coloro che vincono la guerra della ”selezione naturale” nella categoria dell’economico siano, effettivamente tali in tutto e per tutto, e quindi non è detto che siano i soggetti migliori per la società. Dall’esempio addotto qui, le conclusioni in termini sociali ed etici sarebbero tutt’altre.

Ritornando all’idea di partenza, è da presumere che si possano perdere, nella lotta economica, specie nell’ipotesi di una troppo spinta selezione, alcune caratteristiche della razza umana che hanno permesso la sua conservazione e il suo sviluppo fino ad oggi.

E’ generale convinzione che preservare nell’ambiente la biodiversità sia utile all’uomo in quanto ogni specie offre qualche genere di funzione ad un ecosistema. Così, Edward O. Wilson nel descrivere l’importanza della biodiversità ebbe a scrivere nel 1992: “la biodiversitè est l’une des più grandes richesses de la planète, et pourtant la moins reconnue comme telle”. Qual è l’effettivo contributo ? Ricordiamo a mo’ di esempio, il contributo di tante specie animali e vegetali nel catturare energia sotto varie forme (produrre e decomporre materiale organico), o anche l’apporto al sistema idrico e nutritivo dell’ecosistema (controllo all’erosione o ad altre forme di degrado, ovvero riparo dall’inquinamento atmosferico, o regolamentazione del clima), o anche come contributo al miglioramento delle produzione (fertilità di suolo, impollinazione delle piante, decomposizione dei residui vegetali e animali…) ovvero, in quanto capace di purificare aria e acqua, stabilizzare e moderare il clima e controllare degli effetti delle acque piovane, della siccità e di altri disastri ambientali. In definitiva, più diverso è un ecosistema e più esso è resistente agli stress ambientali. La perdita di una specie provoca sempre un calo nell’abilità del sistema di mantenersi o recuperare in caso di degrado. Per tutte le creature umane, la biodiversità è comunque una risorsa per la vita quotidiana.

Molto probabilmente, sarà cosi anche per l’economia. Una eccessiva pressione concorrenziale non opportunamente regolata ed incanalata fa si che prevalgano solo le aziende ed i prodotti più adatti a sopravvivere alle regole che in quel momento si trovano a permeare in tutto la realtà dell’offerta e della “subordinata” domanda dei mercati. Questo però è il punto, cruciale, su cui chi ciancia di economia deve fermarsi ed arretrare. O meglio, il limite estremo dell’ideologia del liberismo sfrenato, oltre il quale non sappiamo quali risposte distruttive ci si ritorcerebbero contro!