Un magister urbis contro la speculazione edilizia e l’incuria urbanistica degli enti locali

11 Gennaio 2011

Mino Mini

 

Una proposta costituzionale

MAGISTER URBIS

 

Nella prospettiva di un “radicale cambiamento istituzionale e costituzionale” di cui Il Borghese di gennaio ha diffusamente trattato riferendo del convegno svoltosi presso il CNEL-Villa Lubin a Roma, avanziamo la proposta di istituire la figura del “magister urbis” per avviare a soluzione il problema della città contemporanea e della sua metàstasi: la periferia.
Chi dovrebbe essere il magister urbis e perché dovrebbe essere istituito in una rinnovata costituzione? Invertiamo l’ordine dei quesiti e diamo prima risposta al perché.
Non sarà un’esposizione facile. Se abbiamo avuto qualche lettore, dacchè cominciammo a parlare di periferie, lo stesso ricorderà l’obiettivo più volte richiamato di oltrepassare la crisi delle scienze e della ragione filosofica per immettere le conquiste della modernità in un processo più organico ed equlibrato. Denunciammo, altresì, il totalitarismo economicista con la perfezione della tecnica e la reificazione dell’uomo ridotto a cyborg privo di identità. Ebbene, cosa dice l’art.1 della Costituzione attuale? “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” . E non è già questa dichiarazione costituzionale una chiara affermazione economicista? Il lavoro è una categoria economica, ma con un equivoco interpretativo diffuso di chiara matrice ideologica che attribuisce alla forza lavoro – che è una forma di capitale – un valore addirittura etico e fondante. Unico e quindi totalitario. Di simili equivoci economicistici la Costituzione vigente ne rivela altri, ma il motivo principe che giustifica una sua totale riformulazione – ad avviso di chi scrive – è l’essere, la stessa, improntata da una cultura generatrice, insieme a fecondi risultati settoriali, di profondi squilibri dalla quale dobbiamo difenderci.
Prendiamo ad esempio l’art.9: “La Repubblica … tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Nella formulazione di questo articolo –secondo un’enciclopedia del Diritto- “il paesaggio è la particolare conformazione di un territorio risultante dall’insieme degli aspetti fisici, biologici e antropici: assetto geomorfologico, vegetazione e fauna, modi dell’agricoltura, infrastrutture, insediamenti sparsi o accentrati, peculiarità delle architetture compongono un quadro che riflette valori di civiltà”. Dentro gli effetti della tutela di quel paesaggio, quindi, a partire dal 1° gennaio 1948, sono rientrate le frane ed i dissesti idrogeologici conseguenti alla distruzione dei boschi, i disastri ambientali dovuti all’inquinamento ed all’accumulo dei rifiuti, l’estinzione di specie faunistiche e vegetazionali per effetto di tecniche agricole industriali, la distruzione delle coste invase dalla speculazione selvaggia. Nei sessantadue anni di tutela del paesaggio costituzionale è rientrata, come ebbi a dichiarare in un convegno sull’Europa, “ la non città, la conurbazione, la periferia dove, ancora oggi, la vita sociale si esprime prevalentemente nelle diverse forme di conflitto autolivellante tra opposte fazioni di emarginati, siano essi ciò che resta dei proletari ormai imborghesiti per i quali, in quel lasso di tempo, furono realizzati dalla sinistra i ghetti di edilizia economica e popolare, siano, invece, i borghesi a loro volta proletarizzati “normalizzati a taglia unica” per i quali fu realizzata, dal liberismo economico, la espansione monofunzionale dell’edificato. Sempre dentro la suddetta tutela costituzionale è rientrata quella parte di cittadini fuorilegge che, in aperta disobbedienza civile, si sono auto emarginati realizzando, da noi, la pletora degli anomici insediamenti abusivi. Quella periferia dove la vita spirituale viene ottusa dallo sfrenato soddisfacimento delle pulsioni meramente animali togliendo all’uomo la coscienza della propria identità; dove la conseguenza di tutto questo è l’alienazione dell’uomo dal proprio ambiente, la paura continua delle giovani generazioni per il proprio futuro senza che possa individuarsi un fine, un obiettivo da dare all’esistenza altro che la ricerca consolatoria nello stordimento consumistico, l’evasione nella droga, nella violenza urbana o nel furore della rivolta”.
E’ questo, purtroppo, il quadro che “riflette valori di civiltà” espresso dal paesaggio costituzionale. Occorre allora chiedersi dove sia stato l’errore. Torniamo, in proposito, a ripeterci con la insistenza con la quale Catone il Censore concludeva ogni suo discorso in senato dichiarando: “Carthago delenda”: l’errore è stato nella contrapposizione cartesiana di “res cogitans” e “res extensa” dove quest’ultima – il nostro paesaggio – è stata concepita come esterna all’uomo, qualcosa da “tutelare” in quanto patrimonio, ma anche da sfruttare improvvidamente come la realtà di un sessantennio di questa Costituzione ha dimostrato.
Occorre, allora, superare questa dicotomia tra uomo e natura e dare al paesaggio e quindi alla città che è il suo equivalente ad un grado diverso di sistema, un significato più organico. Non è facile rendere comprensibile questo concetto dopo che nei trecentosessantasette anni seguiti ai Principia philosophiae il pensiero si è dispiegato e consolidato in tutt’altra direzione e con un diverso orientamento, ma è necessario provarci prendendo a riferimento l’organismo urbano.
La città, in senso fisico, è tangibilmente un insieme di “cose”, ma per i valori di vita, di economia, di concezione estetica del mondo che si esprime e concretizza in termini di case, edifici pubblici, strade, spazi urbani etc. essa è anche l’uomo ovvero un organismo simbiotico – a scala urbana – di uomo e natura. L’una condiziona l’altro e ne è condizionata. Il reciproco condizionarsi, questa sintesi di uomo e natura, è inveramento dello spirito nella materia, è “imago mundi” che esprime il processo di formazione dell’organismo urbano dal già divenuto che è sotto i nostri occhi alla prefigurazione, in continuità, del divenire. A rigor di logica possiamo affermare che non esiste città senza l’uomo che la percepisca e la definisca come non esiste l’uomo senza un ambiente – la città – che lo ospiti e lo formi. Quando questa unità simbiotica viene meno, quando l’ambiente diventa “altro” dall’uomo, la città priva dello spirito si riduce ad essere un contenitore buono per il ricovero degli zombi motorizzati, degli schiavi dei “servizi”, delle anime morte.
Riportate il pensiero alle periferie attuali, a tutto il “divenuto” realizzato sotto la tutela dell’art.9 della Costituzione vigente nel quasi sessantennio 1951-2009 per ospitare quasi tredici milioni di abitanti oltre i quarantasette milioni e mezzo iniziali. Confrontatelo con ciò che fu realizzato negli ottanta anni dopo il 1971 quando, in presenza della stessa velocità di accrescimento demografico, furono ospitati oltre venti milioni di abitanti in più. Il men che si possa dire di tale “divenuto” è di non essere riuscito a divenire ambiente. Ci sono le case, le strade, i “servizi” etc. ma non c’è la città. Perché? La risposta è semplice: tutto quello sterminato dispiegarsi di edifici residenziali edificato negli anni dal 1948 in poi è una realizzazione del potere economico in collusione – più o meno cosciente – con il potere politico. Unica eccezione: le catastrofiche realizzazioni di edilizia spontanea ( leggi: abusiva ).
E l’uomo?
Per rispondere al quesito rispolveriamo una vecchia metafora che rispecchia bene la realtà. Nella stessa si afferma che l’architettura, per nascere, ha bisogno di un padre – il committente – e di una madre, l’architetto. Ebbene da tempo non vi sono più padri perché coloro che erano deputati a questo ruolo – i politici – non hanno impersonato l’uomo ovvero la universalità dei cittadini, ma hanno concepito questi come “fruitori” consumatori di “prodotti. Tuttalpiù si sono sentiti deputati a
soddisfare i “bisogni”. Secondo una logica puramente economicistica la casa era un “bisogno” da soddisfare, non lo spirito individuale di una civiltà da inverare e pertanto le case sono state pensate, realizzate e vendute come “prodotti” la cui misura è stata stimata non come rapporto uomo-ambiente ma come volume occupante una superficie ed il suo valore come un costo a mq. L’architetto, allontanato dal vero padre , l’uomo fruitore, è stato fecondato “artificialmente” – per rimanere nella metafora – ed è diventato figliatore di prodotti più o meno belli. In generale meno che più. Fare città è stata solo una tecnica di distribuzione di tanti mc. di edifici su determinati mq. di superficie “serviti” da una strada. Fare edifici speciali è stata solo una solipsistica ed estetizzante creazione di involucri senza contenuto perché estranea al rapporto fra committente ed architetto.
Il risultato è stato quello che vedete nelle espansioni dopo il 1948: un insieme di prodotti per un insieme di consumatori – gli uomini costituzionali – la cui vita è stata sparpagliata in posti diversi dove sono allocati i servizi.
Fermiamoci qui nella risposta al quesito del perché dovrebbe essere istituita la figura del magister urbis in una rinnovata costituzione concludendo: perché occorrerà riordinare in un sistema organico la triste realtà delle periferie e per farlo occorre superare secondo una visione più matura i limiti culturali della costituzione vigente per quanto attiene l’uomo e il suo ambiente.
E ritorniamo al quesito originario su chi dovrebbe essere il magister urbis.
La denominazione latina richiama alla mente una qualche antica prefettura attinente la città, ma si tratta di una similitudine ingannevole. In antico, infatti, il titolo di magister urbis, l’unico che ci sia noto, è menzionato da Flavio Cecina Decio Aginazio Albino nel 415 e.v. che lo attribuì al grammatico Servius Marius Honoratus, filosofo e commentatore di Virgilio, per la sua grande erudizione. La denominazione che stiamo proponendo, invece, è di nuova concezione, ma la sua paternità non ci appartiene. E’ ripresa dalla figura tratteggiata da Marco Romano, attualmente docente di Estetica della città, con finalità – a nostro giudizio – settoriali ed estetizzanti. Nell’accezione secondo la quale intendiamo usarla , invece, individua una sorta di magistrato che, alla scala della città, assuma la rilevanza che nella Repubblica di Venezia avevano congiuntamente La Procuratoria di S. Marco e la sua emanazione, il Proto di S. Marco, per la basilica omonima. Dovrebbe essere un curatore più che un tutore posto che quest’ultimo eserciterebbe una funzione solo protettiva o difensiva tendente, per questo suo limite, a “cristallizzare” l’organismo rinchiudendolo dentro una metaforica campana di vetro per conservarlo immutato nel tempo. Il curatore, da intendersi nel senso heideggeriano dell’ “averne cura”, è invece molto più che un conservatore del “divenuto”. E’, piuttosto,il conservatore del principio del divenire.
Ecco che ci siamo imbattuti, qui, in un altro nodo semantico – il principio del divenire – che richiede di essere sciolto per comprendere la figura del curatore, ovvero del magister urbis. Ritorniamo sui nostri passi: abbiamo detto essere la città un organismo formato dal particolare rapporto fra l’uomo e la natura, ovvero l’ambiente, che abbiamo definito simbiosi. La stessa si esprime nel reciproco condizionarsi percui ne viene che al mutare di un simbionte, per assicurare la continuità nel tempo dell’organismo, anche l’altro deve cambiare e ciò comporta la mutazione, in senso evolutivo, dell’organismo. In sostanza per conservare occorre mutare.
Tralasciamo qui le implicazioni che l’apparente contraddittorietà di questi due principi comporta perché ci porterebbero fuori del seminato. Questo rapporto uomo-ambiente, questo reciproco condizionarsi dei due simbionti, dà luogo ad un processo di formazione dell’organismo che si sviluppa per fasi di completezza organica. Spieghiamo: un sistema assurto ad organismo, diventa elemento di una fase più evoluta che si completa, a sua volta, con il formarsi di un organismo con un grado di complessità e sistematicità superiori. Il processo di formazione, che per la compresenza di conservazione e mutamento è ciclico, comprende fasi di sviluppo – quelle che abbiamo appena descritto – e fasi di degrado durante le quali il sistema di scala superiore non riesce a formarsi e degenera, a rischio della propria integrità, provocando la crisi del principio del divenire.
Ci siamo: il momento attuale, quello degenerato nello sviluppo sistematico delle periferie, è caratterizzato proprio dal mancato formarsi dell’organismo urbano a scala superiore. E’ qui che secondo la nostra proposta dovrebbe entrare in gioco il magister urbis. Il suo compito di curatore dovrebbe essere quello di guidare i settoriali processi di realizzazione della città verso la formazione dell’organismo urbano di scala superiore che lui stesso, in virtù della sua particolare “erudizione”, ha individuato e delineato. In questo senso dovrebbe ripristinare e consolidare il processo vitale di evoluzione nel tempo dell’organismo sotto le sue cure; di fatto operare una “reimmissione in orbita” delle periferie nel “naturale” processo evolutivo.
Non ci si può spingere più in la di così nell’esposizione del ruolo e dei compiti del magister urbis. La concezione originaria dello stesso che ne ha dato Marco Romano non verrebbe cancellata, ma inglobata in una visione sistematica più ampia ed articolata.
Proporre la figura del magister urbis rappresenta un passo decisivo sulla strada del superamento della crisi della città e della civiltà, ma ancorchè convinti di questo non siamo ingenui e in più siamo privi di illusioni. Occorre dare battaglia perché non ci si libera facilmente di tutti coloro – politici, tecno burocrati, speculatori, che nella visione economicisticamente totalitaria del territorio e della città hanno costruito, più o meno lecitamente, le proprie fortune. Per questo riteniamo che debba essere per dettato costituzionale che ogni città nomini elettivamente il magister urbis scelto fra soggetti che dimostrino di conoscere, nella sua specificità, il processo di formazione della città per la quale hanno avanzato la candidatura. Processo che, si badi bene, non si identifica con la storia delle vicende di espansione della città ma, come abbiamo detto, con la storia del formarsi dell’organismo urbano per gradi di complessità e sistematicità superiori.
Il dibattito è aperto.