Tra scempi edilizi e riforme di vasto respiro: un contributo al dibattto
Mini, la riforma della Costituzione e il Magister Urbis. Può valere l’esperienza acquisita con l’istituzione delle Autorità di garanzia?
In riferimento a quanto scrive nel suo ultimo articolo Mino Mini sul Magister Urbis , <<Un magister urbis contro la speculazione edilizia e l’incuria urbanistica degli enti locali >> dell’11 gennaio scorso, e in particolare su quanto afferma sin dall’inizio circa un << “radicale cambiamento istituzionale e costituzionale” di cui Il Borghese di gennaio ha diffusamente trattato riferendo del convegno svoltosi presso il CNEL-Villa Lubin a Roma, avanziamo la proposta di istituire la figura del “magister urbis” per avviare a soluzione il problema della città contemporanea e della sua metàstasi: la periferia.>>, desidero articolare qualche considerazione e riflessione. Sono convinto non solo che del contenuto in riferimento ai precetti costituzionali ne sia già da prima perfettamente a conoscenza Mino, quanto anche che più o meno in parte egli le possa condividere. Per cui è da dire che il quadro di argomentazioni e di serrate valutazioni che ci ha presentato non voleva essere altro, nelle intenzioni dell’autore, non di meno un escamotage in positivo al fine di ingenerare domande dubbi risposte in profondità da parte di ciascun lettore. Del tettore in quanto tale e non del lettore esperto in edilizia e in urbanistica.
Ecco, il nostro buon Mino nel fare sua l’affermazione di un improcrastinabile “radicale cambiamento istituzionale e costituzionale” , ha voluto eludere (assieme – opino – a quanti si erano espressi sulla sua stessa lunghezza d’onda nel convegno a cui fa esplicito riferimento) il fatto che non è possibile realizzare un radicale cambiamento costituzionale se non a costo di operare entro un quadro “rivoluzionario”. Perché mai? Ma perché la prima parte della Costituzione, ad iniziare dall’articolo fondativo, la Repubblica è fondata sul lavoro, e poi quello in cui figura il famigerato articolo sul trattato e sui patti del Laterano, è esplicitamente e formalmente non riformabile in modo alcuno, assolutamente inattaccabile. In un mio articolo avevo già fatto riferimento a questo aspetto formale e sostanziale di grande importanza e mi ero espresso in favore dell’unica soluzione possibile, in presenza di convergenze di volontà politiche assolutamente prevalenti se non pressoché generali: operare una “rivoluzione costituzionale” pacifica, un “atto di forza” e di rottura puramente formale e sostanziale non implicante il ricorso all’esercizio “eversivo” della costrizione e della forza degli apparati di sicurezza interna e delle forze armate. Una rivoluzione costituzionale pacifica con cui le generazioni odierne affermano e concretizzano il diritto di impossessarsi dell’esercizio attuativo di nuove norme costituzionali non in rottura ma in continuità con lo spirito e la tradizione della vigente costituzione repubblicana, in cui riscontano limiti oggettivi di formulazione e “prevaricazioni” di principio e di merito nell’asserzione non liberale e non democratica della validità costituzionale fondativa esplicitamente proclamata irriformabile. Ad iniziare della grave lesione dei diritti dei cittadini in materia di fedi, culti e credenze religiose afferenti a scelte del tutto personali e non pubbliche e all’ “incamerare” in maniera scandalosa e costituzionalmente irricevibile un trattato tra stati nella carta costituzionale
Oltre questa prima considerazione (e proposta), è da valutare in maniera maieutica il “provocatorio” dell’idea presentata da Mino secondo cui la costituzione repubblicana presenta una chiara concezione economicista a partire dal suo primo articolo.
Solo intesa nel primo e riduttivo senso, su cui non pochi hanno giocato e ancora oggi giocano (ignorando invece quanto su di essa pesò e pesa, non tanto nascostamente e… scandalosamente… il non apparentemente incredibile e ineliminabile “retaggio” della costituzione della RSI e dell’umanesimo del lavoro) questa dichiarazione costituzionale suI lavoro è possibile intenderla quale categoria meramente economica, ma in forza di un equivoco interpretativo, voluto e diffuso, di chiara matrice ideologica che attribuisce alla forza lavoro – come espressione esclusiva di una forma di capitale – un valore addirittura etico in funzione della prospettiva ideologica da cui lo si vuole cogliere.
Il merito del tema più direttamente dibattuto da Mino Mini è relativo alle problematiche cancerose della politica urbanistica. L’interpretazione sul reale significato, sul piano estetico e più in generale “filosofico” delle scelte architettoniche e urbanistiche che devono sottendere ad ogni opzione decisionale che ha a che fare con gli ambiti dell’aggregazione sociale ed economica negli spazi specifici definibili come organismi ambientali dotati di una propria anima (“imago mundi”) è presentata dall’autore in modo brillante. In essa Mini dà particolare risalto all’intrinseco finalismo degli organismi urbani che devono essere strutturati e dotati di funzionalità per rispondere, nel curare, al creare preservare continuare mutare nella logica del divenire. E in questi organismi urbani, le città, sono comprese le cinture esterne o periferie, da non intendere come sparsi e dispersi frammenti privi di senso.
All’ùopo, la carica costituzionale proposta da Mini – il Magister Urbis – è un obiettivo da realizzare condivisibile. Tuttavia, più concretamente, anche in funzione della fattibilità del progetto della riforma costituzionale da realizzare entro chissà quali tempi ovvero in tempi brevi (cosa davvero difficile), perché non cercare di battere un’altra strada, forse più percorribile e perciò più realizzabile in tempi brevi? Esa potrebbe essere analoga a quella della creazione delle autorità di garanzia. Maggiore speditezza qui potrebbe e dovrebbe significare anche non minore adeguatezza e assenza di indugi alle risposte da dare, sempre più impellenti e perfino drastiche, che lo scempio urbanistico italiano impone.